IL
MINESTRONE
Apro la
porta del frigorifero, prendo dal cassetto in basso due carote, tre gambi di
sedano, salgo di ripiano e porto al caldo della cucina tre zucchine, quattro
pomodori, mezzo finocchio, due cavolini di Bruxelles, dieci cornetti, una verza
e un piccolo pezzo di zucca, con segni di muffa: andrà ripulita per bene. Chiudo
la grossa porta del frigorifero, che si sigilla con un rumore a ventosa, e apro
il piccolo sportello della sezione freezer, esce un gran freddo, le mie dita
sono subito gelate, estraggo rapido la busta dei piselli e quella degli spinaci,
una manciata di piselli finisce dentro la pentola, e così due blocchetti di
spinaci di forma approssimativamente cubica. Chiudo anche il portello del
freezer, esco sul balcone e porto in casa due cipolle, tre spicchi d’aglio e
una patata non troppo grossa.
Ora ho
tutto.
Mi manca
lei. Ma è già qui nella cura che precede
il mio lavoro. Prendo due coltelli, uno piccolo e uno di dimensioni maggiori,
lama di almeno trenta centimetri, mi serviranno entrambi. Attacco con il
rituale del mio minestrone: si sbuccia, si taglia, si affetta, si lava, si rovescia nella pentola, che si
riempie di colori e di profumi. Esco di nuovo sul balcone perché ho dimenticato
il basilico. Apro di nuovo il freezer perché mi serve anche il prezzemolo, che
avevo scordato nel buio e nel gelo. Poi l’acqua, il dado, il sale grosso. Nell’inserire
il coperchio con la valvola, che sigilla il composto e tratterrà vigorosamente
parte del vapore, vedo riflessa la sua immagine, che ride e parla e racconta di
come sia bella la vita e di come si possa gustare un minestrone, la sera,
stanchi di una stanchezza buona. La vedo e sorrido e mi sento utile. Non ho sprecato
del tempo in sogni insoddisfatti. Quindi la fiamma, che nasce dal nulla, un
giro di manopola, un tasto premuto, la scintilla. Attendo il fischio del vapore
che preme, ci vuole del tempo.
Fuori, oltre
il riparo di un appartamento che amo, nuvole nere si impastano nel vento
d’autunno, si sono rapprese e il temporale veniente è molto più di una
minaccia. Il fischio della pentola a pressione distrae un indisponente senso di
impotenza, che chiamerei in sintesi paura. Ma è l’ora: la fiamma muore con un
semplice gesto. Lascio sfiatare, apro, annuso, con un mestolo mischio i colori, stinti dal fuoco. Richiudo ed esco
di casa, verso il volo e l’atterraggio di lei. Il temporale muove i suoi primi
passi ma è subito corsa, pioggia di grosse gocce che s’appiattiscono contro la
lamiera dell’auto. ‘Proprio adesso, mio Dio’ penso. ‘E ci manca pure la
grandine.’ Ma non temo bozzi sulla carrozzeria, peraltro già martoriata da precedenti acquazzoni.
La strada
verso l’aeroporto è viscida, trafficata, di scarsa visibilità ma avevo calcolato
anche questo, lasciando per tempo l’abitazione. Infatti la mia previdenza è
stata premiata, direi come d’abitudine, salvo rare e comprensibili eccezioni: arrivo
in orario al luogo concordato, il solito, nella zona degli arrivi ma un poco
lontano, da dove posso godermi il suo atterraggio e l’attesa di lei (che è
parte del godimento). Trovo il parcheggio, fermo l’auto e penso: ‘Che nebbia.
Lo sapevo, oggi non si vede nulla. E sarà in ritardo il suo volo.’ Avvicinando
il braccio al mio naso, per togliermi gli occhiali, sento sopra il maglione
odore di minestrone. ‘Non mi sono cambiato. Capirà….gusterà anche questo
assaggio sui vestiti.’ In realtà sono assai benevolo con me, so che forse mi
rimprovererà (‘Non hai neppure avuto il tempo di cambiarti?’) e se non lo farà
–probabile- nasconderà a fatica il suo disappunto, per un peccato veniale reso
mortale dalla stanchezza della lunga trasvolata.
‘Sarà già
atterrata?’ mi chiedo, osservando l’orologio.
Un rumore,
un fischio che parte come quello della pentola a pressione ma non s’accontenta,
cresce, invade la nebbia che nasconde la verità.
Ho già
capito, nel terrore, ciò che andava capito.
La nebbia
s’infuoca di insopportabile luce.
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