martedì 16 ottobre 2012

Il racconto del mercoledì



IL MINESTRONE

Apro la porta del frigorifero, prendo dal cassetto in basso due carote, tre gambi di sedano, salgo di ripiano e porto al caldo della cucina tre zucchine, quattro pomodori, mezzo finocchio, due cavolini di Bruxelles, dieci cornetti, una verza e un piccolo pezzo di zucca, con segni di muffa: andrà ripulita per bene. Chiudo la grossa porta del frigorifero, che si sigilla con un rumore a ventosa, e apro il piccolo sportello della sezione freezer, esce un gran freddo, le mie dita sono subito gelate, estraggo rapido la busta dei piselli e quella degli spinaci, una manciata di piselli finisce dentro la pentola, e così due blocchetti di spinaci di forma approssimativamente cubica. Chiudo anche il portello del freezer, esco sul balcone e porto in casa due cipolle, tre spicchi d’aglio e una patata non troppo grossa.
Ora ho tutto.
Mi manca lei.  Ma è già qui nella cura che precede il mio lavoro. Prendo due coltelli, uno piccolo e uno di dimensioni maggiori, lama di almeno trenta centimetri, mi serviranno entrambi. Attacco con il rituale del mio minestrone: si sbuccia, si taglia, si affetta, si lava, si rovescia nella pentola, che si riempie di colori e di profumi. Esco di nuovo sul balcone perché ho dimenticato il basilico. Apro di nuovo il freezer perché mi serve anche il prezzemolo, che avevo scordato nel buio e nel gelo. Poi l’acqua, il dado, il sale grosso. Nell’inserire il coperchio con la valvola, che sigilla il composto e tratterrà vigorosamente parte del vapore, vedo riflessa la sua immagine, che ride e parla e racconta di come sia bella la vita e di come si possa gustare un minestrone, la sera, stanchi di una stanchezza buona. La vedo e sorrido e mi sento utile. Non ho sprecato del tempo in sogni insoddisfatti. Quindi la fiamma, che nasce dal nulla, un giro di manopola, un tasto premuto, la scintilla. Attendo il fischio del vapore che preme, ci vuole del tempo.
Fuori, oltre il riparo di un appartamento che amo, nuvole nere si impastano nel vento d’autunno, si sono rapprese e il temporale veniente è molto più di una minaccia. Il fischio della pentola a pressione distrae un indisponente senso di impotenza, che chiamerei in sintesi paura. Ma è l’ora: la fiamma muore con un semplice gesto. Lascio sfiatare, apro, annuso, con un mestolo mischio  i colori, stinti dal fuoco. Richiudo ed esco di casa, verso il volo e l’atterraggio di lei. Il temporale muove i suoi primi passi ma è subito corsa, pioggia di grosse gocce che s’appiattiscono contro la lamiera dell’auto. ‘Proprio adesso, mio Dio’ penso. ‘E ci manca pure la grandine.’ Ma non temo bozzi sulla carrozzeria, peraltro già  martoriata da precedenti acquazzoni.
La strada verso l’aeroporto è viscida, trafficata, di scarsa visibilità ma avevo calcolato anche questo, lasciando per tempo l’abitazione. Infatti la mia previdenza è stata premiata, direi come d’abitudine, salvo rare e comprensibili eccezioni: arrivo in orario al luogo concordato, il solito, nella zona degli arrivi ma un poco lontano, da dove posso godermi il suo atterraggio e l’attesa di lei (che è parte del godimento). Trovo il parcheggio, fermo l’auto e penso: ‘Che nebbia. Lo sapevo, oggi non si vede nulla. E sarà in ritardo il suo volo.’ Avvicinando il braccio al mio naso, per togliermi gli occhiali, sento sopra il maglione odore di minestrone. ‘Non mi sono cambiato. Capirà….gusterà anche questo assaggio sui vestiti.’ In realtà sono assai benevolo con me, so che forse mi rimprovererà (‘Non hai neppure avuto il tempo di cambiarti?’) e se non lo farà –probabile- nasconderà a fatica il suo disappunto, per un peccato veniale reso mortale dalla stanchezza della lunga trasvolata.
‘Sarà già atterrata?’ mi chiedo, osservando l’orologio.
Un rumore, un fischio che parte come quello della pentola a pressione ma non s’accontenta, cresce, invade la nebbia che nasconde la verità.
Ho già capito, nel terrore, ciò che andava capito.
La nebbia s’infuoca di insopportabile luce.

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