mercoledì 31 ottobre 2012
Al cospetto
Al cospetto della morte la preghiera è un riflesso, come quando allunghiamo le braccia per ripararci nella caduta, come quando scansiamo la mano, minacciata dalla fiamma.
Quel giorno che tremò la notte 13
TREDICI
La notte di
buio e di stelle aveva smorzato il ritmo del traffico. Tante auto nei due sensi
di marcia, soprattutto ritorni dal fine settimana. Roberta aveva accennato ad
addormentarsi un paio di volte, Romano era tenuto sveglio dal desiderio.
“La prossima
è la nostra” le disse e guardò l’orologio sul cruscotto. Erano le dieci e
ventidue, ancora mezz’ora fra statali e provinciali e sarebbero arrivati.
“Ci siamo?”
disse lei.
“Alle undici,
non prima” e intanto ripassava la strada che aveva percorso spesso, non negli
ultimi anni, preso dal lavoro. Mai di notte. Una cittadina, due o tre paesi e
la salita al colle, uno fra i tanti di quella parte d’Italia, terra di boschi
di faggio e di castagno. Meno di un’ora e sarebbe arrivato nella casa dei nonni
materni. Dentro quei locali, correndo nell’aia, rovistando nel pollaio aveva
raccolto i ricordi migliori della sua infanzia. E la morte dei nonni era stato
il suo primo incontro con il dolore. Il nonno era basso, secco, gambe curve da
fantino, labbra furbe e piccoli occhi infossati; la nonna era tonda per i
chili, regalo delle gravidanze, ma lì nessuno si fermava e lei s’era fatta
curva di schiena e non si sarebbe più messa dritta. Senza dar peso alla
deformità continuava a voler bene a suo marito, a servirlo e a servire la
terra, il piccolo orto, i pochi animali che mantenevano con cura, e con mano
ferma sgozzavano per ricavarne i gustosi pranzi che Romano adorava: la pelle
croccante del pollo, il coniglio in bottacchio con le olive nere.
La casa dei
nonni: una porticina con la tenda fatta di fili di plastica che si metteva
d’estate, quando la porta era sempre aperta. Una scala ripidissima, dai gradini
alti che per montarci sopra doveva tirar su il ginocchio. Prima della scala,
sulla sinistra, una grande cucina dove mangiavano, ma alla festa si saliva ai
piani alti, nella sala buona, con il pavimento di grosse piastrelle rosse
squadrate malamente e rosicchiate dal tempo. Sulla destra le camere. Il bagno
era stato progettato dopo, segno di una modernità che aveva dato dignità alla
vecchia latrina, un gabbiotto di legno grezzo sistemato in fondo al cortile.
La casa
antica comprendeva il pollaio, galline, conigli e la prima erba che aveva
imparato a tagliare col falcetto e a dare in pasto alle bestie, con immensa
soddisfazione. Una casa fatta di odori buoni, che salendo dalla cantina di
prosciutti e salami e vino in botti erano penetrati nei mattoni e
nell’intonaco, nella credenza, nel tavolo e sulla vecchia ottomana.
I nonni se
n’erano andati, più vecchi che giovani ma sempre prematuramente per lui; senza
di loro non ci tornava volentieri in quella casa d’Appennino, tessera del
mosaico di un paese anziano, senza futuro, abbandonato lassù ai vecchi e agli
animali, con poche case ristrutturate e tante abitazioni abbandonate. Ma
andarci con Roberta era come ritrovare felicità in quella strada, giunta agli
ultimi tornanti.
***
“Che ore
abbiamo fatto?” disse Roberta in mezzo a uno sbadiglio.
“Ti avrei
svegliata” disse Romano. “Ci siamo, te l’avevo detto, mancano tre minuti alle
undici.”
“Era ora.”
“Dillo a me.
Che fai?”
“Mando un
messaggio ai miei.”
“Ti
dispiace?” e le allungò il suo cellulare. “Prima che rompano i coglioni.”
Arrivò
l’ultima curva, un tratto in piano, svolta a destra, il cortile. Un solo,
piccolo lampione mandava scarsa luce sulla ghiaia, che venne rimestata dalle
ruote e rantolò.
Romano frenò,
spense il motore, le luci: “Salta giù, ci siamo” le disse.
La notte era
fresca. Un gran silenzio, buio.
“Ma siamo
soli?” chiese Roberta. “E’ un paese fantasma?”
“Più o meno.”
Presero le
valigie. Nel silenzio grande lo sferragliare della chiave nella toppa si
amplificava. Roberta dava un po’ di luce col suo cellulare.
“Ma ci vedi?”
“Ci vedo, ci
vedo” e la porta si aprì. “Il problema è trovare l’interruttore centrale.”
“Ci voleva
una torcia.”
Romano
brancolò, tastò, chiese la luce fioca dello schermo del telefonino, aprì una
piccola anta, mise le mani in altro buio, trovò l’interruttore. Fu luce sulla
ripida scala, e subito dopo si accese anche la lampadina della grande cucina
sulla sinistra.
Romano
ritrovò il profumo dell’infanzia. Ma era stanco e senza voglia di ricordi.
“Qui dovrebbe
esserci un divanoletto.”
“Che è
questo” e Roberta indicò il solo divano nel grande locale, con tavolo, una
vasca più che un lavandino, una cucina economica a legna e carbone.
“Se vuoi
dormiamo qui.”
“Se no?”
“La camera
dei miei nonni, di sopra.”
“E i tuoi
cosa dicono?”
“I miei?” e
rise.
Roberta prese
tempo, perlustrò la cucina, guardò la lampada che mandava una luce
insufficiente. Scelse: “Di sopra, se ti va.”
“Come vuoi
tu” e prese le valigie.
La scala era
ripida e stretta, coi gradini consumati, i bagagli rendevano la salita
difficoltosa. La piccola porta che immetteva nel tinello cigolò, Romano trovò
subito l’interruttore sulla destra. C’era umidità, freddo. Da mesi nessuno
entrava più lì dentro. Si pentì di averla portata in quella topaia.
“Che
facciamo? Accendiamo il fuoco?” chiese Romano. “Qui si ghiaccia.”
“Ma non è
tardi?”
“Il camino
c’è, la legna anche, non ti garantisco, non lo accendo da una vita.”
“Ma se andassimo
a dormire?” disse Roberta.
“In camera
dovrebbe esserci una stufetta elettrica.”
“Basterà
quella.”
“Intanto
vediamola, la camera.”
Un corridoio
di un paio di metri, un’altra porta sulla destra, con i vetri smerigliati. Un
altro interruttore e sempre una luce ridotta, che lasciava nel mistero buona
parte del locale.
Si vedeva il
letto; l’armadio, il comò, un’ottomana erano ombre in bianco e nero.
Roberta si
lasciò andare sul materasso, la rete metallica cigolò, s’alzò della polvere.
“Sono sfinita” e si mise a ridere. Pareva soprattutto felice.
Romano passò
un dito sopra il piano del comò, raccolse sul polpastrello polvere grassa,
umida. Dentro di lui girava un’emozione che andava controllata.
“Aspetta”
disse Roberta. “Dov’è il bagno?”
“Qui, ti faccio
strada.”
“La doccia?”
“La doccia?
Massimo ci sarà un doccino nella vasca. Vediamo.”
“Ma ci sarà
l’acqua calda?”
“Fra due o
tre ore. Dobbiamo accendere il boiler.”
“E come ci
laviamo?”
“Non ci
laviamo.”
“Facciamo
scaldare una pentola d’acqua.”
Entrarono ma
in due non ci stavano: lo spazio era occupato da una vasca in ghisa laccata, a
forma di poltrona, dove era impossibile sdraiarsi. Romano aprì il rubinetto del
lavandino, ne uscì acqua a singhiozzi, di un colore scuro di ruggine e terra;
con lo scorrere l’acqua divenne trasparente. La sfiorò: “E’ un ghiaccio.”
“Io la faccio
scaldare. Trovami una pentola, per favore.”
***
La pentola fu
trovata, e anche un fuoco a bombola di gas liquido. Non fu recuperata, invece,
la stufetta elettrica, che avrebbe dovuto scaldare la camera da letto.
Romano aveva
fatto alla svelta, una sciacquata, si era sfiorato il mento, la barba pungeva,
le avrebbe dato fastidio. Si era messo nel letto, rabbrividiva, le lenzuola
erano freddoumide, c’era odore di chiuso, di vecchio. La mobilia aveva perso il
buon profumo di legno, tarlata dalle bestie e dal tempo. Sopra di lui un
lampadario con una lucina da trenta watt, non di più. Il letto dei suoi nonni
era una rete metallica alta da terra quasi un metro, con una testata d’ottone lavorato
ad arabeschi e volute. Si mise a dondolare sul materasso, sentì il canto delle
maglie metalliche.
Dietro i suoi
capelli, lunghi per nascondere un principio di calvizie, appeso alla parete
pendeva un grosso quadro della Sacra Famiglia. Il crocifisso stava sul
comodino. Sul comò foto in bianco e nero e uno specchio; i suoi nonni lo
curavano, vestiti con gli abiti nuovi del loro matrimonio. Si chiese se quello
ero lo stesso materasso sopra il quale era stata concepita sua madre.
Sentiva
Roberta nello sciabordio dell’acqua. Cercava di non immaginare nulla.
“Muoviti, fa
freddo” le urlò, sapendo che difficilmente avrebbe sentito. Continuò il rumore
dell’acqua sopra Roberta. Lei non rispose.
Silenzio.
L’acqua non sbatteva più. La luce del minuscolo bagno si spense, la porticina
cigolò, restava la modesta illuminazione del lampadario sopra il letto.
Roberta
entrò. Indossava un pigiama giallo tenue. Sembrava una tuta da jogging.
“Che freddo
che freddo che freddo…” e scivolò nel letto, non lo abbracciò, non si svestì,
non lo accarezzò. Si accomodò sul fianco sinistro, sul lato destro del letto
grande, si raggomitolò come una gatta pigra e freddolosa, si lamentò più volte
per quell’aria gelida, per quell’umido che bagnava il lenzuolo, disse che era
stanca morta e gli augurò la buona notte.
Romano
ammutolì. Scherza o fa sul serio?
“Buonanotte”
ripeté Roberta.
Aveva capito,
certo che aveva capito. Romano rispose con una voce offesa, lamentosa. S’alzò
per spegnere la luce. Non c’erano abatjour sui comodini.
“Che fai?”
“La luce.”
“No. Lasciala
accesa.”
“E perché?”
“Ho paura.”
“Ci sono io.”
“Non mi
basti.”
“Se lo dici
tu” e tornò sotto la pesante coperta di lana grezza.
Romano si
rapprese nella sua delusione.
Ma la rabbia
cedette al desiderio. Allungò il braccio. Non ci arrivava a toccarla. Si
avvicinò strisciando sul lenzuolo. La rete cigolò. Ora la sfiorava, le
accarezzò la schiena, le dita scivolarono sotto il pigiama, risalì sino ad
accorgersi che era senza reggiseno.
Roberta
tremò, sospirò, si fece più vicina. Disse “Fa freddo” e restò immobile.
Lo stava
spiazzando. Confondendo. La voglia di lei dilagava, aveva rotto gli argini ma
la temeva. Stava ragionando troppo. Non doveva andare a finire così. Muti
nell’imbarazzo.
Lei sul
fianco e lui sul fianco, addosso, a curarsi, a spiare la reazione, pronti ad
un’altra mossa. Ma era amore o una battaglia? Non avrebbe dovuto essere tutto
più semplice? Lo scontro violento di due passioni? La soluzione di una lunga
attesa?
Romano le
toccò l’addome piatto, teso. Con l’indice penetrò nell’ombelico. Lei disse “Mi
fai il solletico” e si scansò; lui non capì se quel tono era scherzoso o
irritato.
Salì con la
mano e lei cambiò il ritmo del respiro e lui le accarezzò i seni. Era la prima
volta che li sentiva. Prese aria in lunghi respiri mentre lei gli guidò la mano
più in basso.
Lui disse
“Aspetta” e si tolse i boxer, cercò sotto il cuscino, con il gomito picchiò sul
comodino, il crocifisso cadde, imprecò a mezza voce, lo trovò, lo aprì coi
denti.
“Io” gli
disse e cercò la sua mano.
“Ma sei
scema?”
“Perché?”
Con la gola
riarsa dall’ansia disse “No, no” e lei lo sfiorò. Aveva dita sottili, unghie
lunghe e curate, smaltate di rosso. Le sentì come fuoco sulla sua carne viva.
Le allontanò.
“Che
c’è?”
“Niente”
rispose lui, con una voce cretina, in falsetto. Roberta si mise seduta. Si
spogliò. Non aveva più freddo, non si lamentò per essere finita dentro un letto
che sapeva di muffa.
“Mi baci?”
gli disse, salendogli sopra.
Lui perse
ogni controllo. Gli morì in gola un ti amo che non uscì, ma addolcì rabbia e
vergogna. Buttò indietro lenzuolo e coperta e andò in bagno.
“Stai qua”
gli disse Roberta. “Fa freddo.”
Tornò quasi
subito. Tremava.
Roberta si
era già rivestita. In equilibrio sul fianco, pareva addormentata. Ma aveva gli
occhi aperti, e fra gli occhi e le labbra si rincorreva un sorriso.
***
Romano si era
addormentato. Incazzato com’era con se stesso, si era già disposto ad una notte
di veglia e di rabbia. Invece aveva preso sonno.
Fu svegliato
dalla sua mano che si arrampicava, si infilava, lo cercava. Poi si allontanò.
Era ancora vestita. Uscì da sotto la coperta, veloce. Si mise in ginocchio di
fianco a lui, con la fronte a una spanna dalla Sacra Famiglia. Si sfilò la
giacca del pigiama. La luce era ancora accesa. Si sedette, dondolò sulla
schiena e si sfilò i pantaloni, che lanciò contro la parete. Il pigiama andò a
finire contro il quadro.
“Dove sono?”
gli chiese, sdraiandosi sopra di lui ed allungandosi verso il comodino.
Romano si
alzò, cercò nella tasca del giubbotto, ne sfilò uno.
“A me” disse
Roberta.
Romano si
svestì con lentezza mentre Roberta diceva: “Non l’ho fatto mai.”
Romano si
sdraiò e l’attese.
“Mi aiuti?”
disse Roberta.
Romano si
sedette, appoggiando la schiena alla testata in ferro battuto. Erano tubi
ghiacciati. Stava scomodo. Cercò di trovare un compromesso nella posizione.
Teneva le gambe allungate, Roberta si sedette sulle sue cosce.
“Dammi” disse
Romano.
“Io” disse
Roberta.
Romano prese
le sue mani, le guidò, si piegò verso di lei, la abbraccio, cominciò a
baciarla. La fece distendere di schiena sopra le sue gambe allungate.
Ora i piedi
di Roberta spingevano sulla parete; facendo pressione sul muro si inarcò.
Romano si
piegò in avanti, puntellandosi alle braccia. Continuò a baciarla sin dove
poteva arrivare senza lasciare l’appoggio, in ogni piega.
Roberta si
appoggiava, scendeva col bacino e scappava, tornava ad alzare i piedi verso il
quadro, a spingere, a sfuggirgli; sentiva freddo sotto la pianta dei piedi,
doveva fare attenzione a non scivolare.
Romano la
prese ai fianchi, lei disse ridendo che aveva capito. Si distese supina di
fianco a lui, allungando le braccia verso la testata del letto. Si sentì il
rumore metallico dei suoi anelli, che cozzarono contro l’ottone lavorato. Si
agganciò a due volute.
Romano si
sedette sopra di lei, piegò le gambe divaricate, si appoggiò alle ginocchia,
chiuse gli occhi e cominciò ad accarezzarla con la punta delle dita.
Roberta
liberò una mano, che lasciò la testata e prese la mano di Romano, accompagnandola
sopra il suo seno. Sganciò anche l’altra mano e le congiunse, tenendolo fra le
due palme. E insieme muoveva ritmicamente il bacino, le molle stridevano, il
solo rumore nella camera che aveva l’odore acre del tempo passato, rumore di
ferro arrugginito e il soffio dei loro respiri.
Lei disse
“Scendi, sdraiati.” Romano ubbidì. Roberta si allungò sopra di lui, lui
avvicinò le gambe, lei le aprì e infilò le dita nei suoi capelli. Salì ancora e
si aggrappò alla testata del letto, che si piegò in avanti.
Lo sentì
scivolare dentro, corrergli incontro.
Nessuno
avrebbe potuto fermarli, ora. Non gli sguardi dei nonni in abito da nozze,
sorridenti ma seri davanti alla grande macchina fotografica; e nemmeno il Dio
della croce e della Sacra Famiglia né la paura di fare troppo sul serio, troppo
alla svelta.
***
La luce
nella camera era ancora accesa. Roberta si era addormentata subito, dopo
essersi rivestita senza dire una parola. Romano avrebbe voluto domandarle se
era felice.
Roberta era
il respiro profondo del suo sonno.
Romano
cambiò fianco, poi si mise a pancia in giù, buttandosi il cuscino sopra la
nuca. Stava bene. Il mattino dopo avrebbero potuto dormire sino a mezzogiorno.
E dopo la colazione nell’unico bar del paese, sarebbero tornati a letto.
Se la
sentiva addosso, anche se il piacere del suo corpo si diluiva nel buio della
notte. Era solo l’inizio.
Era ancora
nudo e cominciava ad avere freddo. Pensò di rivestirsi. Si alzò curando di non
svegliarla, cercò i boxer, la tishort, non li trovava, non erano caduti a
terra. Frugò sotto le lenzuola, con la mano perlustrò il fondo del letto, si
erano incastrati fra materasso e coperta, li recuperò, si rivestì alla svelta,
ora tremava, l’umido era tornato ad essere fastidioso.
Si mise supino,
con le mani dietro la nuca. Quella lampadina generava una luce tanto fioca che
poteva fissarla senza ferirsi la pupilla. Tirò verso di sé la pesante coperta
sino a coprire il mento, il naso, aveva fuori solo gli occhi e i capelli.
Sentì un
rumore, forse il gracchiare del cellulare. ‘Un messaggio a quest’ora? Ma chi
cazzo è?’ ed ebbe paura. Allungò la mano destra, tastò il piano del comodino,
recuperò il telefono, no, si era sbagliato. Nessun messaggio in arrivo. E il
rumore? Fece in tempo a leggere l’ora: le tre e ventinove. Non mancava molto
all’alba. Quella notte sarebbe stata con lui per tutta la vita.
13 - continua
Il funerale di Elio
Caro Elio, nonno Elio, scrivo nonno perché sul balcone con te ci sono molti tuoi nipoti, e mi piace ricordarti così, in compagnia, qui siamo nell'aprile del 2006, Santa Pasqua da tua figlia Enrica, a Goito. Naturalmente Anita non manca mai. E ti cura. Ho appena saputo che vivremo i tuoi funerali sabato 3 novembre, ore 9, nella chiesa parrocchiale di Sant'Ambrogio a Sant'Ambrogio Olona.
Preghiere per Elio
Non mi è dato di giudicare la religiosità di mio suocero Elio, e non è nemmeno un mio compito. Lui, nei 35 di conoscenza reciproca, non si è mai espresso pubblicamente sull'argomento. Però andava a Messa tutte le domeniche con la sua Anita, e da anni ogni sera recitavano insieme il rosario. Ora il rosario lo pregheremo per lui. Stasera, mercoledì 31 ottobre, ore 20.30, presso la camera ardente in Via Mulini Grassi (onoranze funebri Sant'Ambrogio) don Giorgio Spada, parroco di Sant'Ambrogio, guiderà la preghiera per Elio.
martedì 30 ottobre 2012
Quel giorno che tremò la notte 12
DODICI
“Com’è che
quella ragazza non chiama?” domandò la madre di Roberta.
“Chiamerà,
tranquilla” disse il padre di Roberta.
“Sempre tutto
tranquillo per te” disse lei. Era seduta sul divano, telecomando in mano,
passava da un canale all’altro senza attenzione, concentrata su quella
telefonata che non arrivava. Non conosceva Romano né la sua abilità nella
guida, non si fidava delle parole della figlia, non si fidava degli altri
automobilisti. Della vita vedeva il peggio, doveva gestirsi un sottofondo
d’ansia che le rovinava le giornate. E se non poteva far altro, per difendersi
scaricava sul marito la rabbia di una vita malata. “Ma che padre sei?”
“Che padre
sono….non lo so…forse non è nemmeno figlia mia” e la mise sul ridere.
“Mi prendi
per il culo?”
Lui non
rispose.
Lei spense il
televisione, che morì dentro l’eco di una musichetta fastidiosa. “Le tue figlie
fanno quello che vogliono...da sempre.”
“Senti…” e
lanciò il libro per terra, con una violenza esagerata. Tacque.
“Non dovevamo
farla andare e basta.”
“Ma se
l’abbiamo deciso insieme?”
“Per forza,
tu avresti avuto il coraggio di dirle di no?”
“Ma lo sai
quanti anni ha?”
“Finché è in
questa casa…” e alzò il volume della voce. Lo fissò con occhi cattivi. Uno
sguardo che gli bruciò come uno schiaffo. Perché aveva un solo senso: sei un
padre fallito. Una rovina che non voleva nemmeno prendere in considerazione.
“Dillo, dillo
pure, lo so cos’hai in testa” minacciò.
“Quanti no le
hai detto in vita tua?”
“E tu?” gli
urlò in pieno volto.
“Mi sono
sempre sentita sola, è questa la verità.” Pianse.
Altre volte
si impietosiva al suo pianto stizzoso, non ora, sconfitto da un furioso
malessere. E mentre si preparava all’attacco pensò che stava sbagliando, che le
motivazioni erano ridicole ma le parole partirono senza comando, velenose. “Ne
ho piene le palle delle tue figlie e della storia del padre fallito, crepate
tutti!” e si alzò come in preda al panico. No, andarsene sbattendo la porta
sarebbe stato troppo poco. “ E vuoi che te le dica tutte?”
Lei lo
osservava con terrore.
“Solo
critiche, cazzo…un complimento…ti sei mai chiesta da quanti anni non mi fai un
complimento? Qualcosa che ho fatto che ti va bene?”
“E questo che
c’entra?”
“Hai in mente
solo le tue figlie…non te ne posso fare una colpa…ma almeno non mi rompere i
coglioni!” e si abbassò per recuperare il libro che era andato a finire contro
un mobile basso. Era preoccupato che non si fosse rotta la rilegatura. “Non
telefona, non telefona…ma lasciala vivere, ha venticinque anni, fa il suo
dovere, se non telefona è perché gli stiamo troppo addosso.”
Lei lo fissò
come un fantasma. “Continua, continua a giustificare tutto….ora fai la
vittima…credevo di aver sposato un uomo. Avanti, se hai le palle chiamala e
dille che ha due genitori…o devo farlo io, come sempre?”
“Guarda,
prego, questo è il telefono” e fece la mossa di allungarli il cordless di casa.
“Sei un pezzo
di merda!”
“Ma va là….”
e se ne andò, ma prima della porta fu preso alla gola dal senso di colpa.
L’immagine d’essere stato davvero un padre debole gli fece tremare le gambe.
Il Natale di Elio
Caro Elio, voglio crederlo: oggi hai vissuto un nuovo Natale, certo diverso da quello festeggiato lo scorso 25 dicembre 2011. Indossavi allora un bel maglione verde. Mi piace ricordarti così, insieme a noi, felice per come potevi essere, silenzioso e di buon appetito. Vicino alla tua Anita.
lunedì 29 ottobre 2012
Quel giorno che tremò la notte 11
UNDICI
Guardando il
sole, per metà nascosto dal contorno ondulato dell’Appennino, Romano si chiedeva
come facesse a non essere felice per quel tramonto, e per Roberta. La rabbia
cresceva al pensiero di uno spreco. Il ritardo alla partenza da Rimini gli
stava rubando piacere. Era arrabbiato con lei ma non avrebbe voluto esserlo,
così altra rabbia si sommava alla prima, aumentando la profondità del disagio.
Finiva la
domenica d’aprile e mancava ancora molta strada alla villa dei suoi nonni.
“Se n’è
andato” disse a Roberta, invitandola a guardare il sole che annegava, lasciando
spazio alla notte. Ma Roberta non aveva voglia di parlare. Guardò il rosso ad
occidente, inquieta: non sarebbero state ore piacevoli. Romano se l’era presa
troppo, aveva reagito come non si sarebbe aspettata, ma come sarebbe stato
normale attendersi: stavano insieme da due settimane, non lo conosceva
abbastanza da renderlo prevedibile. Guardò l’orologio: “A che ora arriviamo?”
“Non prima
delle dieci, buio pesto. Sarà un’impresa trovare la casa.”
Se erano
partiti con tre ore di ritardo la colpa era sua, e lo aveva ammesso subito. Ma a
Romano non era bastato. ‘Partiamo subito dopo pranzo’ gli aveva promesso.
Promessa non mantenuta perché i suoi amici non la lasciavano, i saluti e quel
prete: “Devo parlargli. Mi serve” gli aveva garantito.
Romano, in
attesa, s’era messo seduto su una panchina a masticare il suo disappunto,
guardando l’Adriatico povero di gente in vacanza, un lungomare di coppie
anziane con il cappotto e di giovani in tishort.
Aveva sentito
dire da un gruppo di ventenni che avrebbero fatto il bagno, più a sud, al lido
delle conchiglie. Li aveva seguiti da lontano, andavano veloci, avevano voglia
di tuffarsi nel mare, di dimostrare alle ragazze la loro resistenza al freddo.
Si era seduto
sulla base in cemento di un ombrellone di uno stabilimento balneare, una
casupola triste e disadorna in quella bassa stagione marina. I ragazzi s’erano
svestiti, correvano urlanti verso il mare, le ragazze ridevano, strillavano, si
toccavano dentro come per dire ‘Il mio è più bravo, il mio è scemo del tutto,
quelli sono fuori di testa.’ La sua attenzione si era spostata su una coppia,
lui in costume, a pancia in giù sopra un asciugamano bianco, lei con i
pantaloni corti e una camicetta a mezza manica. Appoggiava le ginocchia sopra
l’asciugamano, le sue cosce combaciavano con il fianco sinistro del suo
ragazzo. Aveva provato invidia per loro.
Era tornato a
curiosare nel tratto di mare dove i ragazzi di prima s’erano tuffati. Ne era
rimasto in acqua solo uno; gli altri, intirizziti, cercavano calore negli
asciugamani e nelle braccia delle loro donne. La ragazza di chi ancora nuotava
si era alzata, era andata sul bagnasciuga e implorava il suo ragazzo di non
fare il deficiente, aveva già dimostrato quello che voleva far vedere, aveva
vinto, stop. Uscito dall’acqua anche l’ultimo temerario, Romano si era messo a
guardare il mare, partendo dall’orizzonte lontano e risalendo a cavallo di
quelle onde senza pretese. Era un mare che non faceva paura ma richiamava ad
una visione infinita. Aveva il culo dolorante, seduto sopra lo stretto quadrato
di cemento, ma la scomodità non gli aveva impedito di pensare a Dio. Pensieri
guizzanti e confusi, disturbati dall’ansia di partire, da un velato disappunto.
Aveva pensato alla probabilità di un Dio inventore di mari e di come avesse
lasciato perdere quel pensiero molti anni prima, seguendo l’onda delle sue
amicizie laiche.
Gli amici di
Roberta erano tornati nella grande sala della riunione, lei stava col prete e
lui considerava che avrebbero avuto solo due notti, ma la prima rischiava di
finire troppo tardi. Sarebbero arrivati stanchi, nervosi dopo un viaggio di
molti chilometri.
***
“Dove
ceniamo?” chiese Roberta.
“A casa non
c’è niente.”
“Autogrill?”
“Per forza.”
Del dialogo
finale col sacerdote lui non aveva chiesto spiegazioni, si era solo lamentato
per la durata. Infastidito dal suo silenzio, quasi avesse ragione lei, ora
pretese: “Perché ti serviva parlargli? Proprio oggi?”
Roberta non
rispose.
L’auto
passava dai centotrenta ai centocinquanta a seconda che l’autostrada salisse o
scendesse, seguendo le gobbe dell’Appennino toscoemiliano.
“Almeno in
galleria puoi andare più adagio?” chiese Roberta.
“Ma se non
supero i centotrenta?”
“Però
continui a sorpassare.”
“Se vuoi che
arriviamo a mezzanotte.”
“Per me.”
“Per me no,
guido io, sono stanco.”
“Anche di me?”
Il sole non
c’era più, si era sciolto nel rosso sopra i monti. Sottili nuvole nere
anticipavano il colore della notte.
“Non dire
stronzate. Perché non mi rispondi?”
Roberta volle
metterlo al corrente. Era importante che lo sapesse. “Abbiamo parlato anche
delle mie paure.”
“Paure?”
“Paure, sì,
tu come le chiami? Non hai paura della morte?” Roberta era seria da mettere
soggezione. “Non sto scherzando. Io ci soffro.”
Romano stava
guidando, avrebbe avuto bisogno di starsene seduto sul divano di casa, o sopra
la sedia di un bar per poter calare in quella domanda, trovare risposte
sincere. Erano questioni che preferiva non approfondire, che scansava sapendo
di non avere risposte. E viveva bene lo stesso.
“E il tuo
amico prete cosa dice?”
Roberta non
rispose subito. “Mi interessi tu. Le tue paure.”
“E chi non ne
ha?”
Capì, non era
il momento: “Ne riparliamo.”
Lui cambiò
registro: “E di me? Hai paura?”
“Quando
guidi” e Roberta si appoggiò alla sua spalla.
“E questa
cos’è?” disse Romano.
“Che c’è?”
“La spia dell’olio.”
“Quella lì
rossa?”
“Sì.”
“Ma non
l’avevi controllato?”
“Come no” ma
era una bugia. Si sentì in colpa: “Speriamo di arrivare al prossimo autogrill.”
Attesero un
paio di chilometri, la scritta ora diceva che dovevano tirare avanti ancora tre
e fu una fortuna, perché di più il motore non avrebbe retto. Fecero tappa
all’autogrill Monte Mario. Era ora di cena.
***
Romano aveva
sotto il mento un piatto di lasagne al ragù, e di fronte lei. Aveva fame, quel
cibo svaporava, mandando segnali gustosi.
Roberta si
era fatta portare un piatto di spaghetti conditi con un filo di olio crudo e
parmigiano reggiano. “Buon appetito” e lei fece il segno della croce.
Romano si
guardò attorno, avrebbe preferito meno chiasso, un tavolo solo per loro; erano
costretti a condividerlo con una coppia di stranieri, bevevano birra e
mangiavano hamburger. Aveva notato che il più obeso dei due, biondiccio di
capelli e con un grosso orecchino, aveva ruttato più volte. Riusciva a leggere l’ora da un grosso orologio
sistemato sopra la cassa. Mancavano tre minuti alle nove.
“Non
arriviamo prima delle undici” disse Romano.
“Un paio
d’ore?”
“Sì, due ore
abbondanti, dipende da quanto ci fermiamo.”
“A me
bastano gli spaghetti.”
Romano se
l’era immaginato diverso quel loro avvicinarsi alla vecchia abitazione dei
nonni. Il pensiero di altre due ore di guida non lo rallegrava. Andava a
momenti. Guardarla, pensarla con lui poteva generargli sentimenti differenti.
Ansia, ma anche tenerezza.
“Caffè?”
chiese Romano.
“Sì, ma se
hai fretta...”
“No no,
ormai.”
Avrebbero
dovuto partire da Rimini nel primo pomeriggio, arrivare al paese prima delle
diciannove “perché il negozietto” gli aveva detto la madre “sono sicuro che è
sempre aperto, anche la domenica, ma chiude presto, se vuoi essere certo devi
essere lì prima delle sette.” Avrebbero fatto la spesa insieme e preparato la
cena. Con calma.
Roberta si
pulì la bocca con un tovagliolo di carta bianco e rosso, con la scritta
dell’autogrill. Lo guardò e rise. Lui trovò quel sorriso molto bello.
“Che hai?”
“Tieni” e
gli allungò un tovagliolo pulito. “Pulisciti il naso.”
“Sugo?”
“Sugo.”
Ora le
faceva tenerezza. Il malumore era tramontato. Si guardò intorno. Un paio di
tavoli più in là sedevano quattro giovani, avrebbero potuto essere studenti al rientro
in università, o ragazzi in vacanza. Probabilmente studenti, perché parlavano
poco, mangiavano senza entusiasmo. Solo lei, la ragazza del gruppo, dava l’idea
di essere felice. Ogni tanto accendeva il dialogo, che si smorzava subito. Ma
ci riprovava. Era una gran bella ragazza, luminosa. Non ci fosse stata Roberta,
fosse stato fra uomini, sarebbe uscito con una frase d’apprezzamento.
Roberta lo
guardò: “Che c’è?”
“Niente.”
“Chi
guardavi?” e si girò. “Quella?”
“Saranno
studenti? Che dici?”
“Boh” ma un
po’ ci rimase male per la sua distrazione. “Vado in bagno.”
“Ordino i
caffè.”
La vide che
cercava la strada della toilette. La sentì sua.
Cercasi cantori
'Qui cantat bis orat', chi canta prega due volte, ci ha insegnato Sant'Agostino. Chi vuole dunque lasciarsi andare ad una doppia preghiera ha una possibilità, perché la Corale parrocchiale di Sant'Ambrogio Olona cerca cantori. Prove settimanali: tutti i venerdì alle ore 21 in oratorio. Per info: ogni domenica alla Messa delle 11.15; ogni venerdì ore 21 in oratorio; chiamando il responsabile, Matteo Gandini (340.8066185)
Il mappamondo di Anna Maria
Ieri sera, in chiesa a Sant'Ambrogio, durante la Messa delle 18, ho vissuto una di quelle situazioni nelle quali uno dice: "Il tempo si è fermato." Ho rivisto Anna Maria e il suo mappamondo. Conosco Anna Maria da oltre trent'anni, ci siamo frequentati agli inizi degli anni Ottanta al gruppo missionario decanale. Erano, per me, anni di grande entusiasmo giovanile, una sicurezza nella fede che mi spingeva addirittura a vivere la missionarietà. Come a dire: uno è talmente sicuro di credere, che ha la forza di dirlo anche agli altri. Ero in ciò aiutato dall'esperienza della comunità giovanile Shalom e dalla scelta del mio amico Mauro Serragli detto Baffo di diventare missionario comboniano. Ebbene, allora Anna Maria, nella sua Sant'Ambrogio, animava la Giornata missionaria con cartellone, banchetto per vendita torte, mappamondo portato all'altare durante l'offertorio. Ieri era la Giornata Missionaria Mondiale. Oggi devo forse ringraziare chi si fa missionario nei miei confronti. Invece Anna Maria, ieri sera, era là, con il cartellone, il banchetto con le torte da vendere per le missioni, il mappamondo portato all'altare.
domenica 28 ottobre 2012
Fra passato e futuro
Leggo su una pubblicità che Enrico Mattei (foto), colui che ha favorito la diffusione degli idrocarburi in Italia, è morto (tragicamente) alla mia età, 56 anni, nel 1962. La pubblicità su carta fa riferimento alla capacità di Enrico di essere uomo del futuro: 'Un uomo che ha trasformato ogni azione in una visione....' si legge fra l'altro. Nella mia costante ricerca dell'equilibrio, credo sia importante saper valorizzare sia il positivo del passato che la potenzialità del futuro. Ma se c'è da scegliere io, oggi, scelgo per il futuro, per quella spinta che ti porta ad andare avanti. Eppure io, tendenzialmente, sono un uomo portato a valorizzare il passato. Dare valore a ciò che è stato e agli uomini che hanno costruito la storia (grande e piccola storia) è un modo come un altro per dire: 'Ragazzi, ricordatevi di me quando non ci sarò più!'
Quel giorno che tremò la notte 10
DIECI
Aveva fatto
tutto lui, Romano. “Stasera ci vediamo al parco, alle sette ci sei?”
“Ci sono. Ma
che c’è?”
“Niente,
niente, così” ma non era capace di mentire.
Roberta aveva
passato la giornata pensando a quel così che non era vero, e alla probabile
sorpresa che Romano le aveva preparato. Un’attesa che era stata capace di
distrarla nello studio e di regalarle una delicata e costante felicità.
Dal parco
dell’Arena vedeva casa sua. S’erano seduti su una panchina in ombra. I milanesi
sfruttavano quell’angolo di verde in centro per il passeggio, la corsa, per
starsene seduti a ripassare la giornata, a programmare gli impegni futuri e a
cercare un senso a quella vita che se ne andava. Ogni tanto buttava in faccia
agli altri la sua disperazione qualche accattone, sdraiato su una panchina,
seduto a terra, ciondolante senza una meta, con dentro il vortice delle sue sconfitte,
la rabbia di non essere nemmeno capace di farla finita per sempre.
“Dovrei
mettermi a correre anch’io” disse Romano, vedendo passare un uomo della sua
età, decisamente più grasso di lui.
“Hai visto
quello? Ti sei spaventato? Non sei tanto malridotto.”
“Non vorrei
finire così” e si palpò le maniglie dell’amore.
“Comunque,
male non ti farebbe” disse lei. “Potrei farti compagnia.”
“Ma tu sei
magrissima” e le sfiorò la pancia.
“Magrissima
non direi.”
“Se andiamo
insieme mi viene voglia.”
“Basta liberare
le endorfine.”
“Non sono mai
riuscito a liberarle, evidentemente.”
“Ci hai
provato?”
“L’estate
scorsa mi sono preso bene, ho convinto anche Carlo.”
“E allora?”
“Troppo
caldo. Abbiamo rinviato all’autunno, così s’è messo a piovere, è arrivato
l’inverno.”
“E siete
andati in letargo.”
“Più o meno.”
“La primavera
è la stagione migliore. Guarda quanta gente corre.”
In silenzio
si misero a contarli: una ragazza certamente anoressica, un’altra sui
trent’anni, senza seno e con il culo gonfio e flaccido, un palestrato simil
Bronzi di Riace, abbronzato e con gli occhialini da sole, una signora sui
cinquanta, sudatissima, intagliata di rughe scavate dalle troppe lampade, che
correva con gli auricolari e pareva vagasse fuori dal tempo, un vecchietto
smilzo che un po’ correva un po’ camminava, facendosi trainare da un grosso
boxer che rischiava di farlo inciampare.
“Hanno tutti
paura di crepare” disse Romano.
“Un po’ è la
moda.”
“Sarà” e si
toccò di nuovo i fianchi, considerando che non faceva ancora schifo: qualche
seduta di allenamento, in palestra e al parco, e si sarebbe asciugato come una
decina d’anni prima.
Il sole era
timido, l’aria troppo afosa per essere la fine di marzo, Roberta cominciava a
pensare che si fosse sbagliata: aveva solo voglia di stare con lei. Nessun
regalo.
Romano
raccolse da terra e si mise sulle ginocchia la solita borsa nera che nascondeva
il computer, un quaderno, biro, matite, il cellulare, una moleskine, l’agenda
del giornalista e le caramelle che lo aiutavano a mantenere la promessa di non
fumare più.
Roberta seguì
le sue mosse con la coda dell’occhio.
“Tieni” e le
allungò un pacchetto lungo una spanna.
“Per me?” e
cominciò a ipotizzare: un gioiello, comunque qualcosa di prezioso, oro, argento
no, era piuttosto squattrinato. Trucco? Rossetto, profumo, fondotinta. Magari.
“Cos’è?”
“Fai almeno
la fatica di aprirlo” disse Romano.
Allora scartò
il pacchetto con riguardo: era il suo primo regalo, avrebbe conservato il
nastrino dorato, la carta, tutto. Non ci volle molto a capire di che si trattava,
le bastò leggere le prime due lettere della parola Swatch.
“Grazie.”
“Non lo porti
mai, non è che ti fanno schifo.”
Più che
schifo le davano fastidio, ne aveva in camera quattro compreso uno Swatch, ma
preferiva lasciare il polso libero. “E’ figo, grazie” e lo baciò sull’orecchio
destro; il rumore del bacio schioccò nel buio canale. “Mi ha fatto piacere.”
“Ti amo.”
“Anch’io.”
Assenza forzata
Per motivi familiari non potrò essere presente alla finale del Premio Chiara 2012, in programma fra un'oretta. E mi spiace. Da tanti anni prendevo parte a questa manifestazione conclusiva. Ma ci sono priorità. Dei tre libri finalisti, ho letto solo alcuni racconti del libro di Ammaniti, e mi sono piaciuti. Ha uno stile direi semplice, un umorismo simpatico, ma sa anche scavare nel profondo. Auguro ai miei amici Bambi e Romano (foto) e a tutta la grande famiglia del Chiara di chiudere in bellezza questa edizione, anche se poi rimangono altri appuntamenti, dei quali darò conto.
Quel giorno che tremò la notte 9
NOVE
Romano era
stato capace di farle tornare la voglia di studiare. Finire prima l’università,
ora, aveva uno scopo più preciso e pressante. Ma la ritrovata passione per i
libri aveva radici poco profonde se dopo mezz’ora di studio Roberta si lasciava
distrarre dal notebook: una passata alle mail, un giro su Facebook e poi
YouTube e quella canzone.
Dalla
canzone alla proposta di Romano, che non si era fatto scrupolo di invitarla a
casa sua, in una vecchia villa dei nonni in centro Italia, utilizzata più che
altro d’estate e, raramente, durante l’anno. “In questo periodo è sporca, fa
freddo ma a me piace lo stesso” le aveva detto.
Roberta
aveva un altro impegno, proprio quel fine settimana, a Rimini.
La proposta
era stata così formulata: “Devo andare a Roma tre giorni per un Convegno sui nuovi
media, giornali on line, hanno scelto me. Ci vieni?”
“Non vorrai
portarmi a Roma.”
“No, parto
qualche giorno prima, con te, passiamo il fine settimana nella casa dei miei,
poi tu torni in treno, io tiro dritto per il convegno.”
Ma era
saltata fuori la storia di Rimini. Romano era stato conciliante: “Vediamo se
riusciamo a farci stare dentro le due cose.”
E lei si era
lanciata: “Vieni al mare con me, poi andiamo insieme dove vuoi.”
Fu il loro
primo compromesso d’amore: la domenica, dopo il pranzo, sarebbero partiti per
la villa. “Se poi ti va di stare con noi ci stai, altrimenti ti fai un giro per
Rimini.”
“Il mare in
aprile mi mette tristezza” aveva detto Romano.
“Dipende”
aveva detto Roberta. “Se trovi il sole.”
“E i tuoi
amici che dicono?”
“Ho venticinque
anni.”
“E io dove
dormo?”
“Se vuoi
risparmiare, in auto. E’ solo per una notte.”
“Se no?”
“Ti trovi
una camera.”
“Con te?”
“Noi siamo
già in tre.”
Roberta si
rigirava l’indice nei capelli, li arricciava in un bigodino, grattava alle
radici, guardava svogliata le pagine. Fra i motivi di distrazione quella
scelta. Andarci o no? E comunque avrebbe dovuto parlarne in famiglia.
***
“Ma se vi
siete appena conosciuti” disse la madre di Roberta. Nel dirlo capì che era
stata una frase inutile. Era maggiorenne da tempo. Viveva con loro, c’erano
regole da rispettare ma sarebbe servito a qualcosa ricordargliele? O sarebbe
stato motivo di una frattura più profonda?
Il padre di
Roberta se ne stava rincantucciato, con la testa reclinata sopra il minestrone di
verdura. Lasciava fare alle donne, a meno che sua moglie non l’avesse tirato in
causa, preso per il bavero e buttato nella mischia. Al che avrebbe parato il
colpo. Non che se ne fregasse. E ci soffriva. Ma era la persona meno indicata
per trovare soluzioni efficaci a problemi complessi. Non era mai stato un padre
autoritario, non l’aveva mai desiderato. Avrebbe voluto essere importante per
il bene delle sue ragazze, capace di aiutarle a trovare una via nel labirinto
dell’adolescenza, ma cominciava a convincersi di aver fallito.
“Mamma” e
stava per ricordarle la sua età e che Romano era un tipo a posto, ma Roberta
dovette lottare con una ventata di stizza improvvisa. Perché, una volta almeno,
quella donna non diventava sua complice? Non rischiava con lei? “Sono un paio
di giorni, in fin dei conti. Che palle!”
“Senti, fai
come credi.”
Già vinta la
partita? Roberta dovette ricredersi.
“E tu?” disse
la madre al padre. La domanda conteneva già tutto. Lui lo sapeva. Aspettò
d’aver mandato in gola la cucchiaiata di minestra, tempo che gli servì per
formulare con più consapevolezza il suo parere.
“Non lo si
potrebbe conoscere anche noi, questo Romano? Chi l’ha mai visto?” disse a sua
figlia.
“Se volete.”
“Perché no?”
disse la madre.
“Non vi
fidate?” disse Roberta.
“Non è
questo” disse il padre.
“E allora?”
Domanda di un
certo impegno; l’uomo prese tempo: “Allora mi farebbe piacere vedere che faccia
ha.”
“Tuo padre ha
ragione” rinforzò la madre.
“E’ che non
c’è il tempo” si scusò lei.
“Perché?”
chiese lui.
“Alla sera
lavora.”
“Anche il
sabato?”
“Sì.”
“Domenica
prossima, a pranzo” propose il padre.
“Provo a
chiederglielo” disse Roberta, ma qualcosa le stonava dentro.
E per una
coincidenza di pensiero, anche la madre ebbe l’impressione d’essere così
vecchia da ricordarle la sua, di madre. “Senti” concluse, “stai attenta.”
“Attenta a
che?”
“Il viaggio…”
“Non guido
io.”
“E Romano?
Guida bene?”
“C’è da
fidarsi.”
“Hai già
fatto un viaggio lungo con lui?”
“No.”
“E allora?”
“Guida bene,
ti dico.”
Ora la
discussione era accademica. E al padre bastava quell’assenso. S’accodò come un
ciclista, facendosi tagliare l’aria da chi lo precedeva: “In fondo si tratta di
un paio di giorni, giusto?”
“Già” disse
Roberta. “Oltre a Rimini, un lunedì, martedì al massimo.”
Lui tornò a gustare
il minestrone, la madre aveva già cominciato a pregare, Roberta li ringraziò
senza parlare.
9 - continua
sabato 27 ottobre 2012
Luca e il Parkinson
Questo pomeriggio, durante la presentazione del nuovo cd della Piedmont Brothers Band a Castiglione Olona, ho avuto modo di conoscere Luca Guenna (foto), amico di mio fratello Marco. Luca da anni soffre per i primi sintomi del morbo di Parkinson, ma sta trovando la forza di lottare, e la sua ricetta è la seguente: "Fare ciò che ci piace, combattere il male con ciò che ci diverte." Nel suo caso la malattia l'ha spinto a realizzare un suo sogno: cantare. E lo sta facendo: canta, organizza eventi, coinvolge amici, si dà da fare per gli altri e insieme per sé. Luca è la testimonianza vivente che abbattersi è estremamente umano ma non vincente, alla lunga è solo disperante. Il canto di Luca è un canto di speranza.
Accadde...un anno fa
Domenica 30
ottobre 2011 – sereno, variabile
Stando ai
dati forniti dalla Camera di Commercio, il tasso di disoccupazione nella nostra
provincia è pari al 5,3% (5,6% in Lombardia, 8,4% a livello nazionale) ma sono
i giovani a pagare il prezzo maggiore: disoccupati il 20,7% fra i 17 e i 24
anni. Vittoria della Cimberio basket a Roma, 76 a 74 dopo un tempo
supplementare, e primo posto in classifica.
Lunedì 31
ottobre 2011 – coperto, sereno
Il Castello
Manfredi (detto anche Conventino), in via dei Carantani, acquistato dal Comune
di Varese e mai utilizzato, sarà messo in vendita e pare vi sia già un
acquirente. Per la cifra di un milione e cinquecentocinquantamila euro, si è
detto disponibile all’acquisto il Gruppo Focolare San Luca srl di Milano, che
utilizzerà l’immobile per un Centro riservato alla cura della persona malata.
Il Gruppo fa parte del Movimento dei Focolarini.
Martedì 1
novembre 2011 – variabile
Enrico
Bononi, proprietario della gelateria ‘Lecca lecca’ di Cittilgio, quando ha
dovuto chiudere con i gelati per cambio stagione si è detto: ‘Non posso tener
chiuso tutto l’inverno. Con questa crisi..’ e ha pensato di aprire la prima
Polenteria della provincia di Varese. Nome: ‘Ciàpa su e porta a cà’. In pratica
uno arriva e nel giro di pochi minuti si porta a casa un bel piatto di polenta,
guarnito in vari modi, Nutella compresa. Una genialata.
Mercoledì 2
novembre 2011 – coperto
Il
‘voluminoso’ Bignasca, il ‘Bossi’ del Canton Ticino, leader della Lega dei
Ticinesi, lancia una proposta provocatoria: annettere parte della Lombardia al
Canton Ticino. La sparata ha provocato molti commenti, fra il serio e il
faceto. Intanto continua il momento difficile della Lega Nord, varesina e non.
Giovedì 3
novembre 2011 – coperto, pioggia fine
Si
svolgeranno oggi in Duomo a Milano i funerali di Mons. Riccardo Pezzoni, morto
ieri a Milano. 89 anni, era stato prevosto di Varese dal 1982 al 1998,
distinguendosi per il suo buon carattere e l’attenzione verso i poveri, gli
emarginati, i più bisognosi. Qualche anno fa Francesco Ogliari gli aveva
dedicato un volume, che riassumeva la sua intensa attività pastorale.
Venerdì 4
novembre 2011 – pioggia intensa
Nel giorno
della grande alluvione di Genova, anche Varese passa una giornata sotto la
pioggia, ma di intensità mai esagerata. Le previsioni parlano di pioggia sino a
martedì. Tragica notizia da Milano: lo studente universitario varesino di
veterinaria Giovanni Bizzozero, 23 anni, scout, è morto in un incidente in
moto.
Complice
il vicino Natale, l’abete del Caucaso di piazza Monte Grappa per quest’anno
starà ancora al suo posto, e fra pochi giorni sarà addobbato, in vista delle
festività. La pianta è ancora al centro di un dibattito, fra gli addetti ai
lavori più che fra la cittadinanza: c’è chi la vorrebbe tagliare e chi la
considera ormai uno dei simboli della Città Giardino.
Il cugino Dario
E dopo molto tempo, finalmente ho rivisto mio cugino Dario, primo cugino, figlio di mio zio Mario, fratello di mia mamma Ines, ramo Ravasi. Il mitico Dario (cravatta rossa) eccolo fra i figli Mario (alla sua sinistra) e Pietro (alla sua destra, campione elvetico di rally), insieme ad alcuni dipendenti della sua ditta in località Prella di Genestrerio. Ha esordito dicendo: "Da quando ho ripreso a fumare sto benissimo!" E questo la dice lunga sul personaggio. Entusiasta e frenetico, dorme tre ore per notte, di più non gli riesce. Grande Dario: tre figli, 5 nipoti, una moglie, Valeria, che lo coccola da 44 anni, una ditta che va e una salute che regge. Quasi il massimo.
Castiglione ha conosciuto la PBB
Il borgo antico di Castiglione Olona, isola di Toscana ai piedi delle Prealpi, ed in particolare il castello di Monteruzzo hanno conosciuto la bella musica della Piedmont Brothers Band. Oggi infatti al castello è stato presentato il nuovo cd della band che ama la musica country rock, dal titolo PBB III. A seguire tutti i particolari delle vicende di questa formazione davvero interessante. Qui aggiungo solo che la presenza di pubblico è stata buona, non così quella dei media, ma sono certo che i media varesini arriveranno a conoscere e ad apprezzare questa realtà musicale, che ha una storia davvero unica, ma soprattutto fa buona musica.
INVITO ALLA CONFERENZA STAMPA DI PRESENTAZIONE DEL TERZO ALBUM IN STUDIO DELLA PIEDMONT BROTHERS BAND
INVITO ALLA CONFERENZA STAMPA DI PRESENTAZIONE DEL TERZO ALBUM IN STUDIO DELLA PIEDMONT BROTHERS BAND
CASTELLO DI MONTERUZZO (Castiglione Olona)
SABATO 27 OTTOBRE 2012 – ore 16
La Piedmont Brothers Band, o
meglio, il progetto Piedmont, nasce dall’incontro tra due persone, Marco Zanzi
e Ron Martin avvenuto tramite i Newsgroup di Internet a partire dall’anno 2000
circa. La condivisione di pressoché identici interessi e gusti musicali, di
comuni radici (a dispetto della differente età e paese di nascita – Italia per Marco e USA per
Ron) e di una amicizia che si è fin da subito rivelata più una fratellanza, ha
costituito il fertile terreno di nascita di un progetto musicale autonomo e per
certi versi unico nel suo genere. Il primo viaggio di Marco Zanzi negli Stati
Uniti (anno2007) ha portato all’uscita nel 2008 dell’Album “Bordertown”, titolo
particolarmente significativo perché le città natali di Marco e Ron(Varese ed
Eden) sono ambedue città di confine. Il CD registrato ed autoprodotto da Marco
Zanzi ha ricevuto numerosi e inaspettati commenti positivi da parte degli
addetti ai lavori sia Italiani che Statunitensi ed in particolare John Einarson (probabilmente il più conosciuto ed
apprezzato scrittore ed esperto di musica Country-Rock al mondo) ha proclamato
“Bordertown” il suo preferito Album di Country-Rock). Anche Raffaele Galli (Il
Buscadero), Aldo Pedron e Paolo Vites (JAM) giusto per citarne alcuni hanno
scritto recensioni più che lusinghiere. A seguito di questo inaspettato
successo di critica, e grazie al coinvolgimento sempre più entusiastico di
amici musicisti sia Italiani che Internazionali, il gruppo è uscito con un
secondo Album nel 2011 intitolato “Lights Of Your Party”. Questa volta l’Album
ha ha avuto una ben più ampia distribuzione grazie all’interessamento della
casa editrice TEMPI che ne ha stampato e distribuito sul territorio nazionale
15000 copie. Una seconda edizione Americana uscita presso la casa discografica
del North Carolina FLYIN’ CLOUD RECORDS è stata realizzata in contemporanea. Il
2012 ha poi visto l’uscita del primo CD
dal vivo “Hear My Brother”prodotto e stampato in edizione limitata in
Australia. Il CD è la cronaca del concerto tenuto dal Gruppo con Ron Martin e
numerosi ospiti nel Luglio del 2011 presso il Teatro Fontana di Milano. Il
gruppo si è anche esibito in prestigiosi ambiti quali il Folkest (dopo avere
vinto la selezione del Nord Ovest) ed il Riverfest ad EDEN(North Carolina). Qui
il gruppo è stato insignito (per la prima volta nella storia della cittadina
statunitense) della prestigiosa cittadinanza onoraria.
Il primo Settembre il gruppo ha
realizzato un nuovo Album in studio intitolato PBB III, Album che viene
presentato ufficialmente oggi alla stampa, che vuole essere un omaggio al
Country-Rock dei primi anni ’70, quello che più ci ha condizionato e influenza
la sonorità del gruppo. Questo Album ha visto la partecipazione straordinaria
di musicisti del calibro di Rick Roberts (Flying Burrito Brothers, Firefall),
Richie Furay (Buffalo Springfield, POCO, SHF Band …), Herb Pedersen (Linda
Ronstadt, Dillards, Desert Rose Band), Jock Bartley (Gram Parsons, Firefall),
Patrick Shanahan (Rick Nelson, New Riders Of The Purple Sage) tanto per
nominarne alcuni. Si sono già occupati del disco autorevoli riviste quali il
Buscadero (Articolo di Raffaele Galli sul numero di Ottobre 2012), Late for The
Sky, Il Sussidiario.net e SUONO (recensione sul numero in uscita a Novembre).
Brani del PBB III sono trasmessi
in numerose Radio sia in Italia che all’estero (USA, Spagna, Australia …).
“Bergamonews” in un recente
articolo così si è espresso parlando dell’Album: “Per me sono la vera sorpresa dell’anno, almeno sino ad oggi. Un album
fresco, godibile, spumeggiante, pieno di belle canzoni Ancor più sorprendente
la storia della band che mi era ignota…..”
Barnes Newberry (conduttore di
‘My Back Pages’ su MVYRADIO di Martha’s Vineyard, USA) “PBB 3 è l'ultimo lavoro discografico dell’entusiasmante Piedmont
Brothers Band, band che considera sia l'Italia che il North Carolina la sua
casa. Con il debutto stellare di Bordertown (2008) prima e con la potenza e la
maturità di Lights of Your Party (2011) dopo, questo gruppo di grande talento
guidato da Marco Zanzi e Ron Martin (fratelli gemelli provenienti da differenti
madri “Pedemontane”, forse?!) ha amorevolmente affinato la propria abilità
musicale prendendo ispirazione da gruppi mitici degli anni 60 e 70 quali i Byrds, i Buffalo Springfield,
Poco, Dylan, ed i Flying Burrito Brothers e creando il proprio personalissimo sound che risulta essere un ordinato amalgama di country rock, folk, bluegrass, gospel, e
rock ….”
Vi invitiamo dunque ad
approfondire la conoscenza della Piedmont Brothers Band, del nuovo Album PBB
III e dei progetti futuri partecipando alla conferenza stampa di presentazione
ufficiale del CD che si svolgerà SABATO 27 Ottobre 2012 alle ore 16.00 presso
il Centro Congressi del Castello di Monteruzzo a Castiglione Olona in via
Monteruzzo, 1.
Seguirà un rinfresco con musica
dal vivo del gruppo.
Grazie per l’attenzione ed il
supporto che vorrete darci.
Varese, 10 Ottobre 2012
Per la Piedmont Brothers Band
Marco Zanzi
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