LE
FIGU
di carlozanzi
Sopra
un ruvido muro è appoggiata, di taglio, una figurina dei calciatori Panini.
Attaccato alla figurina un ragazzo di seconda elementare. E’ una incerta mattina
di aprile del millenovecentosessantaquattro. Di fianco un altro ragazzo, stessa
età. Sono le sette e quaranta. Giocano a muro, con le figu. Nel debole vento
primaverile svolazza la figu e si appiattisce sul marciapiede. Tocca all’altro,
altri svolazzi, altre prove a vuoto poi Kurt Hamrin, della Fiorentina, finisce
sopra Nenè della Juve.
“Ho
vinto io” dice nel sorriso il ragazzo che tiene al Milan. E quello che tiene
all’Inter ci rimane male. Si va avanti a muro, per un po’, vince uno e vince
l’altro, poi una mano balorda, che non finisce, le figurine per dispetto volano
senza sovrapporsi. Per terra la carta colorata, con facce e maglie, si fa
spessa. L’interista, che chiameremo Carlo (nome di invenzione) bacia il
portiere Giuliano Sarti, dell’Inter. Vola l’uomo nero e si posa delicatamente
sopra Fortunato, del Milan. Il milanista (che chiameremo Gigi, sempre
inventando) si arrabbia, fa considerazioni poco elogiative su quel cognome rossonero
che ha portato sfortuna. Dice: “Basta muro, facciamo a lungo.” Carlo è felice e
ci sta, mentre raccoglie le figu e le impacchetta, dopo aver notato che sono
tutte doppie: ce le ha già. Non tappano buchi sull’album.
Lungo:
chi va più lontano vince, al massimo una figu alla volta. Qui, a conti fatti,
vincerà di poco Gigi ma Carlo si consola: ha messo nel suo mazzo Paride Tumburus,
del Bologna, e così di quella squadra gli manca solo Marino Perani.
Sono
le sette e cinquanta, i ragazzini delle elementari hanno ancora dieci minuti
scarsi a disposizione, poi più niente sino all’intervallo nel cortile.
“Padella?”
domanda Carlo.
“Padella,
e ti sbolletto” ride Gigi, contento
perché un po’ ha recuperato, dopo la disfatta del muro.
Ai
due si sono aggiunti altri, qualcuno ha chiesto di unirsi alla coppia ma è
stato emarginato. Quei due non si toccano, le figu sono, in quell’attimo, la loro
totalità. Nessun pensiero per la maestra, i compiti, la fatica dello studio, la
noia, la paura.
E
via, si lancia, lontano ma non troppo, bisogna calibrare sperando nell’aiuto
del vento e del caso. Gigi si prende la prima mano, non più di dieci facce, grazie
al bolognese Bulgarelli che soffoca in volo Anzolin, portiere della Juve. E
Gigi vince anche la seconda sfida, questa volta una quindicina di figu, con
Trapattoni del Milan che spiaccica a terra il compagno di squadra Mora. Ma la
fortuna è giusta e cambia il vento, sicché Carlo vince le altre due partite, e
nella seconda ha un moto di giubilo: nel mucchio è compreso Carlo
Dell’Omodarme, della Juve, quello che gli mancava per completare la squadra.
Gigi ci resta male due volte. L’invidia, brutta bestia. Anche a quell’età.
“L’ultima?”
dice Carlo, che ha tutto l’interesse di continuare. Non sa ancora che la
fortuna ti frega e ti volta le spalle. A volte.
“Ma
adesso suona” dice Gigi.
“Cinque
minuti.”
“Va
bene” e si riparte.
E
si capisce che è una di quelle volte che la padella diventa lunga, e ogni figurina
che vola e atterra sul nudo asfalto rende la sfida più appassionante, la vittoria
esaltante, la sconfitta umiliante. Suona la campanella, si sente anche da fuori
ma i due non la avvertono, né vedono i compagni che li salutano e seguono la
via del dovere. Volano figurine e attese.
Carlo
bacia Sandrino Mazzola, due volte, sul viso e sulla maglia nerazzurra, stringe
la figu fra indice e medio e via, si vola. Volteggia il pezzo di cartoncino, un
volo infinito, atterra sull’asfalto ma non solo. I due amici corrono alla
verifica. Mazzola non ha coperto il volto di un sorridente Rivera, ma la maglia
sì.
“E’
mia, è mia!” e Carlo ramazza le figu come fossero fiches al tavolo verde.
Gigi
è uno straccio. E il male porta male, oltre alle figu smarrite ora appare la
maestra e tutto il resto. Ma sa essere umile. Ha notato che Carlo ha lanciato
Menichelli, della Juve, che gli completerebbe la squadra. E lo chiede, per non
piangere.
“Mi
dai almeno Menichelli?”
Carlo
fa scorrere il mucchio ingrassato, veloce veloce, ecco lo juventino. “Tieni, è
tuo.”
“Grazie”
e i due corrono.
Il
cancello è già chiuso ma il bidello Venzin, alto, magro, con un lungo naso che
lo farebbe cattivo, sa che hanno giocato alle figu, è un buono, ama il futuro
che corre dentro quei pantaloni a mezza gamba. Non dice nemmeno: “Su, in
fretta!”
Apre
il cancello.
Sorride.
E
basta.
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