mercoledì 19 marzo 2014
Herbert 39
Herbert
di franco hf cavaleri
La signorina
“Se mi prendono, vengo con voi…” così aveva detto Herbert ai suoi due amici Fabio e Franco, nella speranza d’essere ingaggiato per quel lavoro là tra le colonie estive della riviera romagnola, di cui nulla sapeva, ma che gli avrebbe fornito qualche provvidenziale soldino, utile al momento per le sue spesucce da studente e in prospettiva futura anche per l’entrata da matricola all’università di Genova. Erano passati quattro anni, da quando aveva ottenuto in casa il permesso per quell’impegno, che lo avrebbe portato lontano tutto luglio e agosto.
Correva ora il 1969: era la stagione dei diciannove anni di Herbert e stavolta qualcosa era cambiato nelle cose da fare, tralasciando l’obiettivo e la camera oscura con i suoi acidi, con le pellicole da sviluppare e gli scatti da stampare.
Grazie a Kurt, esperto radiotecnico, stavolta c’era da girare a sistemare apparecchi televisivi e a fissare l’orientamento delle antenne.
Kurt era un ragazzo più grande di Herbert per l’età, ma fisicamente più piccolo, aria da autentico travet, occhialini cerchiati compresi. Era arrivato solo quell’anno. Proprio Herbert, che non aveva ancora la patente, ma ben conosceva strade e luoghi, fu incaricato di affiancarlo.
Erano stati bei tempi fin dall’inizio, da quel 1966 che lo avrebbe poi visto a spalare fango dopo le alluvioni, che d’autunno avevano tormentato l’Italia.
Le stagioni calde, al contrario, non erano state avare di soddisfazioni. Senso di libertà e quasi di allegra anarchia, il bello di badare a se stessi.
Al lavoro e nelle ore libere, lui e i suoi colleghi godevano di un ambiente ancora alla buona, con le donne vestite di nero che all’angolo delle strade preparavano al momento piadine da sogno.
Una Romagna turisticamente non ancora “stressata”.
Certo erano finiti i tempi dei pesanti tendoni da spiaggia, che i bagnini dovevano far ruotare seguendo la direzione del sole: con gli ombrelloni era più facile.
Forse non era più il momento per gli scherzi da vitellone di paese, come il far trovare
sul tardi la bella spider bianca, parcheggiata a inizio serata verso Bellaria, tutta inzaccherata di… Che facesse a meno il fellone di vantarsi della francesina conquistata grazie al rombo del motore.
Come quando accadeva che il tizio, entrando nottetempo con la “ganza” nordica nella sua barca al portocanale, scivolasse nei liquami che qualche buono e generoso amico gli aveva rovesciato dentro, dal carretto con la botte che a quel tempo veniva adoperato per svuotare i pozzi neri.
Anche se ancora era possibile trovare spazi verdi vicino al mare, i tempi stavano cambiando verso il “divertimentificio” dell’avanzante benessere economico.
Una cosa sarebbe rimasta immutabile: l’avere esclusivamente in testa la caccia incessante e frenetica alla fauna femminile.
Stavano a Pinarella di Cervia, una decina di ragazzi, parecchi erano studenti, insieme con alcuni impiegati, che erano abituati a utilizzare le ferie in modo remunerato.
Erano capitanati da un fotografo professionista, il solo provvisto di auto propria, una bellissima, imponente e storica Lancia Appia terza serie del 1959.
L’unico, che potesse vantarsi d’avere ascoltato sul tettuccio dell’auto il ticchettìo della leggera pioggia d’agosto, mescolato utilmente allo schioccare degli elastichini reggicalze della poderosa educatrice di un grande capoluogo lombardo.
Merito non solo dell’auto, diceva fiero “il Mario”.
Il lavoro non era complicato e portava Herbert e gli altri a girare di spiaggia in spiaggia da Milano Marittima fino a Riccione per le foto ai bambini che facevano i turni di vacanza al mare: in squadra e senza squadra, con le signorine e senza signorine, fratelli tra loro, sorelle e fratelli insieme, con il pallone e senza pallone, maestrine da sole o con le amiche, sulla spiaggia o in acqua, a mezzo polpaccio o sul moscone… più o meno un migliaio di scatti in bianco e nero ogni giorno, con immagini ripetitive fino alla noia da sviluppare, stampare e riconsegnare a stretto giro, prima che il turno in colonia cambiasse.
Negli anni Sessanta il mare romagnolo era pieno zeppo di colonie estive, dove le famiglie trovavano la soluzione per le vacanze dei propri figli. Se ne contavano di tutti i generi, tanto quelle che ospitavano centinaia di bambini e di bambine, così come tante altre di più modeste dimensioni, tutte appartenenti a comuni, a industrie, a enti religiosi e associazioni varie.
Immenso l’edificio dei Monopoli di Stato, sparsa la serie di palazzine delle CCC del Comune di Milano, la XXV Aprile di Igea famosa per le feste di fine turno volute dal direttore, la Ignis a Milano Marittima, il lunghissimo “viale delle colonie” di Cesenatico, che alternava indifferentemente istituti del Nord e del Sud.
In più la sera caricavano i loro pesanti Fumeo (belli, da toccare con molta cura, perché “mollavano” certe sberle elettriche...) per andare a proiettare pellicole per ragazzi nelle varie colonie, secondo un programma fittissimo. A lavoro ultimato, ogni ragazzo aspettava di essere ripigliato da chi fosse andato più lontano con i furgoni. Insomma c’erano tempi d’attesa, che ciascuno del gruppo cercava di impiegare utilmente nel coltivare amicizie sul posto.
“Amicizie” altro non era che un giro di parole per il loro buttarsi su quanto fosse più disponibile, vale a dire le signorine delle colonie, le maestrine incaricate di curare e di sorvegliare le squadre di bambini, una sorta di “riserva di caccia” che ingolosiva tutti i maschietti nella generale orgia ormonale delle spiagge romagnole.
Niente da fare con le inservienti, troppo smaliziate.
Le maestre invece erano prede abbastanza facili.
La specialità per il “fuori colonia” non poteva essere altro che la passeggiatina nello scuro della spiaggia per aspettare l’alba sul mare, appuntamento classico da proporre come esca nelle varie “trattative”. Non a caso imperversava una melodica e anche un po’ mielosa canzone del duo Franco IV e Franco I: “Ho scritto t’amo sulla sabbia”.
L’unico problema da risolvere era quello della fuga notturna delle ragazze; ma da questo punto di vista la fantasia per evadere non mancava alle “gonnelle”, che lo avessero voluto davvero.
Dunque lavoro, vitto, alloggio e trentamila lire al mese; ma anche vita spensierata e da improvvisare giorno per giorno, sera per sera. Rientrati a Pinarella, dopo le proiezioni serali e in attesa della famosa alba in spiaggia, facevano gruppo, fame da lupi per “spazzolare” pizza o spaghetti, bastava la birretta oppure il sanguigno bicchiere di Sangiovese.
Piuttosto che il “bombolone”, andarsene dopo l’aurora a Cervia, dove trovare la fragranza umida del pane caldo di forno.
Herbert ne ebbe anche una bella lezione di economia, grazie al bicchierino di Vecchia Romagna che l’adulto Mario era solito sorseggiare al bar. Si partiva da trenta, quaranta lire, veleggiando su su fin oltre le cento lire d’agosto pieno, per poi scendere gradatamente, dieci lire in meno per volta.
Giunti all’ultima settimana, il barista ti portava sul tavolino la bottiglia con tutto l’avanzo: “ve la lascio qui, tanto…”
Andare in giro con Kurt non sottrasse opportunità a Herbert. Anzi, qualche piacevolezza non mancò. Come fu un lavoro “difficile” e che richiese interventi praticamente giornalieri il dover riparare l’antenna di quella colonia del Milanese, sul cui terrazzo era solita prendere il sole -a tutta e generosa pelle- la giovane responsabile medica.
A Cesenatico, nella colonia di un ente religioso, Herbert e Kurt si imbatterono in un paio di signorine interessanti. Si trattava di una di quelle colonie inespugnabili, dove la sera le serrature venivano chiuse a chiave, indifferenti al fatto che fossero gente proveniente dalla romantica città di Giulietta e Romeo. L’unica possibilità di contatto era diurna, quindi è superfluo spiegare il come
e il perché quel benedetto televisore proprio lì non fosse mai a posto.
A spizzichi e bocconi il dialogo fu avviato. La signorina di Herbert era alta, capelli mossi e bruni, una macchia color caffè, che il castigato costume intero non sapeva nascondere.
Lui ci fece una passione. Lei non fu da meno.
Sembrava essere già un qualcosa di più del solito filarino.
Herbert usò il sistema classico previsto per questi casi.
Alla moglie comprensiva del barista, dove erano soliti fermarsi, chiese di telefonare presentandosi come parente della fanciulla. Fu così che poterono parlare e accordarsi.
Unica possibilità di incontro era quella della mezza giornata di libertà delle ragazze, esclusivamente pomeridiana. Il primo fu a quattro. Con il pretesto del lavoro, presero uno dei veicoli della ditta, il vecchio furgonato Fiat 600, e decisero di fare un giretto fino a Riccione o a Cattolica.
Chiaro che, trattandosi di un mezzo chiuso per trasporto merci, c’era il problema di non farsi beccare dai vigili con più passeggeri del consentito.
Herbert, che non poteva guidare, scivolò dietro con la sua maestrina.
All’andata, ogni volta che si vedesse una divisa, i due si cacciavamo sotto una provvidenziale coperta presente sul furgone, per poi riapparire ridendo e scherzando, come un innocente giocare a nascondino. Al ritorno successe che di queste apparizioni di vigili, come per uno stranissimo e inspiegabile fenomeno, se ne ebbe una specie di moltiplicazione… non c’era incrocio, o tratto di asfalto, che ne fosse privo, tanto da suggerire a Herbert e alla sua signorina di starsene ben nascosti sotto il plaid. Ci restarono per tutto il viaggio.
Che cosa potesse succedere lì sotto, nel lento ritornare per il lungomare da Cattolica a Cesenatico, questo non ci è dato sapere.
I due non erano disposti a parlarne.
L’unico che potrebbe raccontare qualcosa, quello è il plaid.
Ma di lui si sono perse le tracce.
Seguirono altri incontri, questa volta ogni coppia per proprio conto.
Passeggiavano abbracciati stretti, si “infrascavano” dove potevano dalle parti della Tagliata e parlavano fitto fitto.
C’era abbastanza, anzi molto “feeling” e la storia aveva tutta l’aria di poter creare un seguito, perché i due si capivano davvero.
Finì il turno della colonia, era l’ultimo, quello che anticipava l’autunno.
Anche per Herbert il lavoro volgeva al termine.
Si scambiarono gli indirizzi, dandosi un appuntamento che suonava molto più che la solita e disimpegnata promessa estiva.
Herbert le disse che sarebbe andato a trovarla, non appena rientrato da un viaggio per mare con alcuni amici, incrociando l’Adriatico e lo Ionio, con la speranza di poter giungere fino in Sicilia.
Era questo un impegno preciso, preso per festeggiare in maniera “extravagante” la Maturità conquistata a inizio estate e per attenuare l’irrequietezza, che in loro proveniva dal mondo incomprensibile e ancora inesplorato degli studi accademici.
Lo avrebbero fatto con una barca a vela, dal nome eloquente: “il bighellone”.
Passò l’autunno e passò Natale e scivolarono via il Capodanno e l’Epifania.
A metà gennaio del 1970 portarono a Herbert una lettera, veniva da Verona, era scritta dall’amica, quella di Kurt. Erano parole, frasi piccate e pesanti come pietre, definiva Herbert un buffone e uno sbruffone. Lo accusava d’avere inventato la crociera come scusa meschina per non volere più farsi vivo.
Ma al fondo era come se si intravedesse una specie di interposta preghiera, una muta speranza fatta trasparire per conto dell’altra.
Herbert comprendeva che gli sarebbe bastata una risposta, una spiegazione qualsiasi, per riaprire la storia con la sua signorina. Ci pensò per un intero giorno, poi chiese che gli portassero le cartoline che aveva comprato qua e là durante gli approdi.
Ne scelse una, quella dell’ultima tappa prima del ritorno al Nord.
Era di Siracusa, immagini multiple della città, sovrastate dalla classica raffigurazione nuda di una Venere greca. Rispose, raccattando nelle parole che scriveva quanto più poteva di ironia e di sarcastica leggerezza.
Graffiò irridente, come avesse altro a cui pensare, come dovessero considerare Herbert “allegramente morto”.
Lo stesso giorno, lungo il solito corridoio, fece fare una deviazione verso la cappella, davanti alla quale sapeva esserci una cassetta delle lettere.
Solo un momento di esitazione, poi imbucò.
Sì, era ben preferibile che lei, la sua signorina, se ne arrabbiasse pensandolo come un cialtrone, forse anche lo odiasse. Che vivesse senza rimpianti la sua vita.
In quanto alla propria, di esistenza, sarebbe rimasta tra quei muri bianchi e quei corridoi senza luce. Herbert oramai ben lo sapeva, mentre lo conducevano alla inutile riabilitazione per quella schiena spezzata, il giorno che era caduto dall’alberatura come un pupazzo in mare.
39-continua
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