martedì 25 marzo 2014
Herbert 45
Herbert
di franco hf cavaleri
Perzic e Gamaret
“Dad, pa’, mi vuoi far credere che in Italia con le pesche si fa il vino?”
Difficile immaginare uno scenario differente dai bassi frutteti a far da corona del piccolo lago di Monate.
Che ci fossero dei vigneti, chissà dove... eppure tra tante pesche, un vinello alla fine l’avevano davvero trovato.
Carlo sorrise, lui che rientrava in Italia dopo quarant’anni, una intera vita di duro lavoro da quando si era imbarcato su una nave con il foglio di ingaggio per la sconosciuta e lontanissima Australia.
Lo accompagnava Betty, la figlia più grande.
Il resto della famiglia era rimasto dall’altra parte del mondo, con quelle telefonate che ora si scambiavano negli orari impossibili dell’emisfero australe.
Era una specie di pellegrinaggio tricolore, alla ricerca della sua gioventù non solo, ma anche per vedere con i suoi occhi come stessero le cose nel campo dell’enologia, ormai con quei grandi vini del “Bel Paese” a conquistare sempre più prestigio e mercato nel mondo degli appassionati.
Curioso. Proprio lui, che in tutti quegli anni era passato da lavorante nel Queensland a piccolo proprietario di un vigneto, lui non aveva dimenticato il sapore del vino italiano, lui che si era fatto un nome imbottigliando -tentativo dopo tentativo- il suo nettare degli dei “made in Australia”.
Nel loro viaggio nel vecchio continente dapprima avevano girato la penisola ricercando le etichette, dalle falde dell’Etna e poi su nel calore del Meridione, tra le colline colorate della Toscana, per il suggestivo silenzio della grande pianura che lega l’Adriatico al Tirreno, infine nella cornice delle grandi montagne.
Non avevano fretta, erano parecchi i giorni che si erano concessi.
Presentandosi, avevano sempre ricevuto una accoglienza calorosa, una grande collaborazione, un evidente orgoglio di mostrare a intenditori stranieri il proprio prodotto e di gustarlo… manco a dirlo.
Molta malinconia e parecchia delusione Carlo l’aveva provata all’ultimo, tornando a Varese, la città da cui era partito e che ora non riconosceva più. Lo sapeva, se l’aspettava. Eppure non gli riusciva di capacitarsi nel vedere quanto cambiate fossero le strade della sua gioventù e stravolti i luoghi, a cominciare dalla vecchia casa a Robarello, anche se ancora gli pareva di rivedere suo padre inforcare la bicicletta per andare a lavorare come muratore.
Non gli riusciva di incontrare volti che lo confortassero del suo passato.
Gli rimaneva così dentro e non soddisfatto il desiderio di mostrare alla figlia quell’esistenza, quell’antico modo di vivere che gli era comunque appiccicato come una seconda pelle.
Per Betty, cresciuta nei grandi spazi del nuovissimo continente, già era problematico il comprendere come si potesse nel giro di un unico chilometro trovare un Sant’Ambrogio, un Fogliaro, un Robarello: ciascuno con una propria identità, una diversità che non impediva la conoscenza e la frequentazione gli uni degli altri. Almeno così era un tempo, ai tempi belli del circolo in piazza a Sant’Ambrogio con il suo saporoso salmì di lepre.
“Guarda -diceva sconsolato a Betty- qui davanti al Municipio andavano in una fiaschetteria, dove ora c’è quel negozio di scarpe. Era sempre aperta, d’estate per il fresco del frizzantino, il rosso nei mesi con la neve.”
Non trovato in centro neppure più il “cantinone” dove la gioventù rideva.
Erano scesi al rione di Bobbiate. “Qui avremmo dovuto trovare il Centenate, ci si fermava al ritorno dal bagno che facevamo nel lago, alla Schiranna. Pensate che su quei suoi muri era tutto un esaltare il grappolo d’uva e il vino, con scritte colorite e citazioni in latino.”
Ricordava il tempo in cui i circolini attorno al lago di Varese “ammazzavano il maiale” e “pestavano l’uva” per dividere tra i soci gustosi salumi e un vinello casalingo (e buono).
Ora ristoranti e trattorie, pizzerie o bar. Nulla più.
Sì, anche nel campo dei vini c’era poco da mostrare, forse qualcosa di più nel campo degli spiriti, sicuramente il Borducan al Sacro Monte o la Grappa d’Angera.
Erano quasi all’ultimo fine settimana, in albergo avevano consigliato una puntatina al lago di Monate, famoso per le sue pesche sciroppate.
C’erano andati, scoprendo una realtà inimmaginabile.
Non solo pesche, “perzic de Munà”, ma vino.
Nel girovagare per i campi a frutteto avevano scorto alcune piccoli filari d’uva, qualcuno dei contadini incontrati aveva fatto assaggiare un vinello, ancora indecifrabile per la verità, il Gamaret.
Avevano così scoperto, grazie a un giovane enologo della zona, che accanto ai grandi produttori nazionali, stava tornando in auge l’antico desiderio di coltivare qualche filare d’uva e di bere il proprio vino. Niente a che vedere con la produzione di etichetta, per carità, era solo il piacere di mettere insieme quelle poche bottiglie, da stappare con gli amici.
A Travedona e a Monate ci provavano da una decina di anni con il “vignuvele”, la “vigna novella”, aggiustando il tiro a ogni vendemmia.
Non erano i soli, d’un tratto vennero a scoprire del vino varesino dei Ronchi, un IGT della zona di Angera. Scoprirono a Morazzone il “pascale”, un rosso merlot di scuola ticinese, affiancato da un “ronchè”, fatto per un terzo di merlot e per due terzi di uvaggi del tipo gamaret.
Ci mancava di provare con un cabernet, perché no?
Carlo era attivissimo, non tralasciava nulla.
Stranamente silenziosa invece Betty.
Il giorno prima di imbarcarsi sulla JAL per il lungo balzo del ritorno, la ragazza disse di voler girare un po’ da sola. Tornò a sera, l’aria misteriosa ma soddisfatta.
Erano già in volo, quando Betty parlò con il padre: “Dad, io torno a casa, ma sento di voler cambiare il mio stile di vita, tornerò ancora in Italia e non solo da turista.”
Carlo non capiva, per quanto gli piacesse l’idea che uno di famiglia percorresse all’opposto la sua strada di tanti anni prima. Chiese spiegazioni.
“Vedi dad, ieri sono tornata al lago di Monate, ho parlato con quel ragazzo, l’enologo. Ci siamo accordati per fare una nostra società. Abbiamo messo gli occhi su una piccola cascina con un poco di vigna, l’idea di far vino qui mi ha affascinato e così il mio amico gestirà l’attività e io ci passerò del tempo, tornando in Italia tutti gli anni. Devi essere orgoglioso di me, altrimenti non ti manderò neanche una bottiglia del mio nuovo vino italiano e neppure le pesche…”
45-continua
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento