domenica 30 marzo 2014

Herbert 49

Herbert
di franco hf cavaleri



Racconto romantico: due coppie


§ Giuseppe e Alfonsina
Ebbe un soprassalto nello scorgere la figuretta che camminava a fianco dei binari, sembrava proprio lei nel chiaroscuro lattiginoso della serata autunnale.
L’aveva cercata invano sul solito tram che lo riportava a casa dopo il lavoro. Come le altre volte avrebbe desiderato osservarla, come sempre di nascosto, conquistato dal sorriso giovane e allegro di lei, incapace di rivolgerle un cenno, una parola.
Sì, cosa ti aspettavi, povero Giuseppe.
Appena appena la guardavi, sbirciando di nascosto il viso risplendente di lei, che pure ti accendeva ogni volta l’anima.
Non puoi aver dimenticato di come eri lesto a sfuggire il suo, di sguardo, non appena l’avessi incrociato, affascinato da lei senza una sola speranza di colmare lo spazio fisico, che vi separava nel lento sferragliare lungo i viali di Milano.
Sì, Giuseppe. Stavolta lei non c’è.
Così torna al tuo posto, chi vuoi che faccia caso proprio a te.
Potresti anche non presentarti al lavoro, passeresti inosservato lì, come nella tua spoglia vita di tutti i giorni. Da vero “travet”, nessuno scommetterebbe su di te un solo ghello, guardati come sei dimesso nell’aspetto, pauroso non solo nell’affrontare, ma anche semplicemente di parlare con la gente.
Nessuno sa vedere oltre la tua apparenza di “mezze maniche”.
Forse tu stesso hai dimenticato quanta forza di volontà tu avessi avuto e quanti sacrifici tu fossi stato capace di compiere, il primo della tua famiglia a continuare negli studi superiori, addirittura fino al diploma.
Forse non ricordi più, nella povertà della tua gente, dei molti libri che chiedevi in prestito ora a uno, ora all’altro dei tuoi compagni, per poter studiare la sera, per sperare di essere anche tu “uno studente”.
Ora ti lasci vivere giorno dopo giorno, con il tuo piccolo mondo racchiuso nella camera ammobiliata, che ti ha affittato per bisogno una vedova.
Camminava stancamente lungo la stretta direttrice del tram, le guance in fiamme, le lacrime mescolate alle goccioline della prima bruma meneghina.
La sua gioia di vivere si era come frantumata poche ore prima, quando era stata chiamata negli uffici per sentirsi dire che era licenziata dal lavoro, da quel direttore impassibile e freddo, inappuntabile e indifferente.
Lasciata a casa senza una colpa, neanche una spiegazione nel ricevere in mano un foglio di carta che rendeva di botto incerto il suo futuro.
Pensavi forse di essere furba, povera Alfonsina. Credevi che il tuo essere sempre allegra, sempre benvoluta dalle tue compagne, ti desse il diritto di fare la sfrontata con la capoturno. Che importanza può avere il fatto che tu -semplice operaia- avessi ragione, quanto sarebbe stato meglio se avessi tenuto la tua lingua a posto, se fossi stata più “disciplinata” sul tuo lavoro.
Eppure tu hai sempre sorriso alla vita con la tua gioia, le tue esuberanze sempre ricambiate dagli altri, almeno così credevi. Non ti mancava niente, un buon lavoro, l’appartamentino nella grande casa di ringhiera, che ti avevano lasciato mamma e papà, tanti vicini di casa, che ti hanno visto crescere. Tutto finito. Lo spasmo della disperazione ti ha ora reso il volto come una specie di ghigno, hai ben compreso come tu debba prepararti a giorni difficili.
Meglio andare a piedi, lungo i binari, risparmiare anche solo il costo del biglietto, con un gelo dentro, atroce come i primi freddi.
La pugnalata più forte l’avevi ricevuta vicino alle Nord, alla Bovisa, quando avevi incrociato l’uomo che ti aveva messo sulla strada, avresti voluto forse implorarlo lì per lì di farti riprendere in ditta, ma ti eri bloccata nel capire come lui neanche ti avesse riconosciuto nel passarti accanto.
A casa ci sei arrivata con il buio. Sei entrata, neanche hai acceso la luce, ti sei appoggiata alla porta e ripreso a piangere, le mani rigide a tormentare le tempie.
§ Marcello e Pierangela
Dal finestrino appannato scorgeva l’ovatta esterna della nebbia.
Come sempre, quell’autunno, come in tutte le stagioni passate nel tornare a casa dopo il lavoro, gli occhi assopiti per il caldo del vagone e la sopraggiunta stanchezza della levataccia mattutina. Sapeva come a Malnate il muro di nebbia sparisse d’un botto, con la strada fino a Varese che si staglia nitida e netta.
Un lavoro importante a Milano, vita da pendolare. Non che gli pesasse la mescolanza con impiegati e operai.
Era abituato a tagliare fuori tutto quello che non fosse lavoro. Non faceva più caso agli sguardi di considerazione -tra il rispetto e la curiosità- degli altri.
Un uomo elegante, un uomo misterioso che fendeva la vita comune senza esserne toccato. Né interessato. Aveva sentimenti?
E’ per questo che tu saprai tramutare il contrattempo in una occasione, una distrazione che in altri avrebbe creato chissà che panico. Semplicemente eri salito a Cadorna sulla carrozza sbagliata del treno: eppure lo sapevi che era a doppia destinazione. Le carrozze insieme per Varese e per Como, che venivano separate una volta raggiunta la stazione di Saronno.
Se solo il controllore…ma sì, distinto come sei non avrà voluto disturbare il tuo pisolino. Appena un attimo di stizza nel ritrovarti nella città lariana, poi ti sei organizzato, avresti passato la nottata a Como, un albergo, una buona cena e dopo due passi sul lungolago, forse con una qualche “signorina”. In fondo è come per il viaggetto che qualche volta ti concedi, ogni tanto in questi anni di brillante carriera stacchi la spina per un fine settimana lontano da casa.
Vivere da solo non ti pesa, ci sei abituato. Ci stai bene oggi come ai tempi di scuola. Pochi rapporti, nessuna vera amicizia. Con le ragazze poi.
Chissà, forse ti facevano paura e forse non ti interessavano, o semplicemente non avevi voglia di avere una “storia”. Ti bastava cercarne una ogni tanto, di quelle donne già fatte, disposte a darti quello che ti serve, quel che ti basta.
Semplice e tranquillo, nessuna complicazione, nessuna distrazione prima sulla strada dei tuoi studi e poi nel lavoro subito trovato, importante.
Oggi, a quarant’anni, stai bene così. Cambiare? Perché?
Trent’anni e qualche mese. Cominciava a lavorare di meno, per quanto lei si tenesse con cura il tempo le era contro. Più di dieci anni di mestiere.
Non che avesse di che lamentarsi, come quelle disgraziate messe sul marciapiede a forza di botte e costrette a tutto pur di non far incarognire il protettore.
Il lungolago sulle belle acque del Lario è pieno di luci, il clima tutto sommato accettabile. Puoi passeggiare tranquilla, come ogni sera.
Vivere da sola non ti pesa, ci sei abituata, hai anche la tua villetta con i tuoi mobili, i tuoi quadri e i tappeti, gli oggettini cercati uno a uno: il tuo rifugio, dove rinchiudere il tuo vero mondo, nasconderlo agli altri.
Il mestiere non lo fai perché ti piacciano troppo gli uomini, sei libera, e non hai nessuno che ti costringa.
Senza amore e senza odio, così ti guadagni da vivere.
Pensare che quand’eri a scuola tu apparivi magnifica e inavvicinabile, una vera e propria icona di fredda bellezza, vanamente divorata dagli occhi di tutti i maschi. Ancora oggi con te perdono l’occasione quei tuoi vecchi compagni di scuola, che vengono a cercarti. Sperano con il darti del denaro in chissà cosa, per non trovare dalla tua indifferenza rivincita alcuna.
Oggi, a trent’anni, è svaporata la follia improvvisa che nell’anno degli esami per la maturità ti accese quell’uomo di fuori, prima di scomparire.
Scesa dall’altare dei sogni, la tua anima e il tuo corpo ti appartengono, per nulla scalfiti dal denaro, per il quale solamente tu concedi pochi attimi di illusione.
§ Incontri
Faceva ben freddo quella sera d’inverno e Giuseppe non vedeva l’ora di arrivare nella solita latteria lungo i Navigli, dove avrebbe consumato il suo abituale pasto caldo, l’unico della giornata, prima di raggiungere casa.
Un saluto educato e formale da rivolgere alla padrona e poi subito in camera.
Comprese che fosse proprio lei, subito, non appena ebbe individuato la figura della ragazza contro la vetrina illuminata della latteria. Le si avvicinò.
Sentì la sua voce parlare; “Scusi, sa, è da un bel po’ che non la vedo sul tram.”
Bravo, Giuseppe. Hai raccolto a piene mani tutto il coraggio che avresti potuto raggranellare, ben sapendo di una occasione forse unica.
Alfonsina si era voltata, lo aveva riconosciuto come quell’uomo silenzioso che incontrava la sera dopo il lavoro, di quando il lavoro c’era. Sussurrò.
“Ho cambiato posto, mi sono trasferita.”
Aveva uno sguardo di fame.
“Come mai sta qui davanti, al freddo?”
“Sono una stupida… ho dimenticato a casa il borsellino, non posso fare spesa.”
Giuseppe non era più lui, con una forza, di cui non si sapeva capace, la fece entrare, la obbligò a comprare la bottiglia di latte, il pane, un boccone di formaggio, pagando lui stesso, con un quieto sorriso.
Non poté convincerla a mangiare insieme.
“Glieli renderò, le porterò i soldi subito, già domani.” Si allontanò di fretta.
Nei giorni a venire, Giuseppe non la ritrovò più.
Era cominciato quella notte d’autunno. Un incontro occasionale, uno dei tanti possibili. Ora lo aspettava, come ogni venerdi sera da qualche tempo.
Come un silente e disincantato appuntamento.
Anche se la cosa sembrava finita lì, il primo in riva al lago non era stato per Marcello e Pierangela un incontro come tutti gli altri, meccanico e impersonale.
Non che ci fosse stato un “qualcosa” di preciso, ma era come se si fossero accorti l’una dell’altro: un avvertire indistinto, un confuso esistere reciproco.
Probabilmente destinato a svanire.
Senza volerlo, senza saperlo lui era tornato qualche settimana dopo, non gli sarebbe dispiaciuto ritrovare quella ragazza, perché no? Lei lo aveva individuato subito, un lontano e piacevole desiderio d’essere ingaggiata.
Era diventata un’abitudine.
Man mano che si andava verso la primavera, all’imbrunire del venerdi sempre più spesso lo vedeva arrivare, con gli occhi cercandola.
Lei s’era accorta di rifiutare quelle sere gli altri uomini.
Lui aveva deciso che quella donna fosse preferibile alle altre.
§ Vita
Porta Romana, Porta Romana… ci son le ragazzine che te la danno, prima la buonasera e poi la mano…e 7 7 7 fa la Volante…
Quante volte Giuseppe s’era dato dello scemo, ma era più forte di lui.
Sarebbe bastato fare due versi alla vedova che lo teneva a pigione, si sarebbe sistemato, non è che lei non glielo avesse fatto, dignitosamente, intendere.
Avrebbe attaccato il cappello e anche risparmiato su quella faccenda della spesuccia mensile, che gli risolveva quel tale “bisogno igienico”.
Solitamente attendeva gli ultimi giorni, poco prima della stringata mesata che le maestranze portavano a casa.
Era il momento in cui alcune, per far quadrare i conti di casa, toglievano il grembiule e scendevano in strada a fare alternativa alle altre del mestiere.
Proprio quelle erano le sue preferite, non belle, spesso rustiche, ma sapevano di casa.
Esattamente ciò cui Giuseppe teneva.
Alfonsina era lì, sul marciapiede.
Gli sembrò di impazzire. La strinse per il polso, la strascinò da una parte: “disgraziata, disgraziata”. La guardava senza più capire.
Si irridigì alle parole stridule di Alfonsina.
“Ma la fame, ma tu lo sai cos’è la fame?”
Fece il gesto di schiaffeggiarla.
“Dimmi dov’è casa tua, che ti ci porto.”
Così fece, senza più una parola tra i denti serrati, artigliando il suo polso illividito.
Sbattè la porta alle loro spalle, la spinse sul letto.
Nello scuro della camera lei si lasciò prendere dalla cattiveria di lui, dalla sua rabbia atroce che pian piano andò smorzandosi in un ritmo dolcemente condiviso.
Come Alfonsina leggeva un tempo nei romanzetti rosa comperati all’edicola, si addormentarono abbracciati, accettandosi l’un l’altra .
Lago di Como, storia e monumenti, grandi ville del passato, bellezze fiorite e altre nascoste, forse scoperte solo dai drappelli dei turisti stranieri, quieta provincia dove il vivere può essere gradevole a chi ci abita.
La riviera lariana cominciava a fiorire, quando Pierangela -quasi a bruciapelo, neanche se n’era accorta di quel che andava dicendo- si sentì di proporre a Marcello: “se vuoi, a casa mia staremmo più comodi.”
Non passò molto tempo quando lui le chiese -pagando, naturalmente- di passare la notte insieme, nella comoda villetta alle spalle del lungolago.
Fu così che si vide una nuova coppia vivere per il lago, il fine settimana, tutti i fine settimana da venerdi a domenica sera, a lunedi mattina.
Marcello e Pierangela parlavano poco, per lo più qualche sguardo a confermare una vicinanza fisica, un confuso star bene che ripagava entrambi dell’altra vita, della routine dei giorni di lavoro.
A passeggio tra i turisti, qualche escursione in motonave, nei ristorantini meno in vista ma più buoni, qualche acquisto nei negozi più di classe, fino a quando non si ritiravano da lei. A casa.
Alfonsina dormiva ancora, quando Giuseppe si era svegliato all’ora solita, dando uno sguardo alla camera fredda e spoglia, ai segni inequivocabili del bisogno e capì, soffrendo per lei. Uscì svelto.
Quando lei si risvegliò, c’era tepore. Giuseppe aveva comprato del carbone e aveva rimesso in funzione la vecchia stufa Argo, sul tavolo aveva lasciato del pane e del formaggio, due bottiglie di latte erano al fresco sul davanzale.
Dire che la buona vedova fosse attonita, è dire poco.
Sconcertata nel vedersi frantumata la speranza di trovare in quel brav’uomo il compagno, di cui aveva necessità. Giuseppe aveva in fretta e furia radunato le sue poche cose, aveva pagato un mese di pigione ed era andato via sfarfugliando parole di incomprensibile spiegazione.
La decisione di vivere con Alfonsina era stata presa, neanche per un attimo aveva pensato di chiederlo alla ragazza. Era scontato per questo Giuseppe ritrovatosi determinato, tornato padrone assoluto del suo vivere.
Nella casa di ringhiera non ci furono problemi. Per chi sta nel bisogno una certa morale, moralismo da ben pensanti, può anche essere un lusso.
La nuova coppia fu accettata dai vicini e specialmente dalle donne, così semplicemente, anzi con il sollievo di vedere comunque sistemata quella poveretta, alla quale vogliono bene, che conoscono dalla nascita. Solo una beghina andò a tormentare il parroco in sacrestia per i due che vivevano nel peccato. Il vecchio prete lasciò che parlasse, la congedò in qualche modo, poi strinse sconsolato le spalle, ne aveva viste tante nei suoi molti anni di sacerdozio, se quella poveretta aveva trovato un po’ di fortuna, al diavolo le brave donne sempre pronte a ritagliare i panni, andò a cercare il suo Libro per rileggersi il detto della pagliuzza e della trave negli occhi.
§ Amori
Caldo umido a Milano, il soffoco spinge la gente a scappare fuori.
Siccome di soldi ne girano pochi, chi può, manda i figli in colonia, poi spera almeno la domenica di fare un giretto in collina o ai laghi, scampagnata illusoria di buon vivere in attesa del lunedì.
Giuseppe era come rinato, rifiorito nel sentirsi accanto alla ritrovata gioia di vivere della sua donna, di Alfonsina. Sapeva e davvero si sentiva d’essere importante, almeno per quella sua ragazza, che gli aveva rischiarato l’esistenza, che gli dimostrava di averlo accettato per com’era, che lo voleva accanto e non per interesse.
Quella domenica mattina Giuseppe, così stranamente taciturno la sera prima, se ne uscì: “forza, andiamo in gita al lago, prendiamo il treno per Como.”
Era una bella giornata, serena e appena ventilata. Avevano sorpassato la canottieri e la vela, ammirando gli idrovolanti nell’hangar. Stavano mangiando dei panini su una panchina a lago, quando Alfonsina si drizzò, guardando verso una coppietta sottobraccio che si stava avvicinando.
Riconobbe lui, il direttore che l’aveva licenziata, sempre elegante, sempre inappuntabile, con una bella donna, degna di lui.
Si irrigidì solo un attimo, giusto il tempo di realizzare che non provava più dolore nel ricordare quei giorni, ora così distanti. Si accostò a Giuseppe e gli diede una spintarella spalla a spalla. Poi tornò al suo boccone, ridendo all’acqua.
Anche Marcello aveva per un attimo prestato attenzione alla panchina con quella coppietta dimessa e nello stesso tempo piena di serenità.
Gli sembrava di aver visto la ragazza da qualche parte, chissà dove.
Continuarono la loro passeggiata.
Accanto a lui Pierangela era al solito tranquilla. Stava pensando a come ormai da qualche settimana avesse lasciato il mestiere, soldi in banca a garantirle il futuro ne aveva, solo desiderando di godersi casa, il suo rifugio.
Avrebbe tenuto soltanto lui, non avrebbe troncato il rapporto con Marcello.
Non gli aveva detto nulla di questa sua decisione.
A sera Alfonsina e Giuseppe erano rientrati a Milano: “devo parlarti.”
“Da settimana prossima mi hanno comandato in trasferta al centro Italia, devo andarci”. “No, non fare quella faccia. Non ti preoccupare, ti manderò lo stipendio, guarda, ti lascio il mio libretto della posta, usalo e non farti mancare nulla. Saranno solo poche settimane.”
Quella notte Alfonsina gli si strinse contro trattenendo il pianto, come per un’ultima volta. Come non dovesse più vederlo.
§ L’anno che è passato
Era ritornato l’umido profumo dell’autunno, Alfonsina si era appena seduta dopo aver sbrigato le faccende di casa. Guardava le prime fiamme nella stufa.
Sentì la chiave girare nella toppa, lo vide entrare, sembrava smagrito.
Giuseppe chiuse la porta alle sue spalle, appoggiò a terra le due valigie e sussurrò come incerto di essere riaccolto, gli occhi intimiditi.
“Ho finito la trasferta, torno a lavorare in sede a Milano”.
Lei non rispose, il viso improvvisamente in fiamme, scattò verso il comò, aprì un cassetto per tirarne fuori il libretto di Giuseppe, parlava frenetica, gesticolando.
“C’è tutto, non ho toccato una lira, anzi ce ne ho messi soldi dei miei. Lavoro, rammendo, stiro per delle signorone e la padrona di un negozio a Montenapoleone mi porta delle stoffe, che io ricucio come abitini da donna, sapessi a che prezzo li mette fuori, ma mi pagano e anche bene...”
Giuseppe s’era avvicinato a lei, le aveva passato un braccio attorno alla vita, con l’altra mano chiudendole dolcemente la bocca: “Sono qui!”
Gli occhi di Alfonsina ridevano.
Era ritornato l’umido profumo dell’autunno, il treno aprì le porte e scese la fiumana stanca della gente, lui aveva già pronte le chiavi dell’auto.
Si stava ancora bene per le strade del lago, lei uscì dal parrucchiere tra la gente.
Marcello era sulla strada per Como, dibattutto sempre più in pensieri inconsueti, improvvisi, mentre l’automobile risuonava lungo le mura del capoluogo comasco.
Lo era ancora mentre risaliva il lago. Pensava alla donna che lo stava aspettando, come da molto tempo era accaduto. Mentre guidava l’idea l’aveva folgorato, improvvisa. Un dilemma oramai inevitabile. Cosa fare? Forse avrebbe potuto spostarsi a stare da lei, per andare a Milano in ferrovia è lo stesso, avrebbero potuto accordarsi su una cifra per potersi sistemare anche lui nella sua casa. Eppure non era questo, forse avrebbe dovuto chiarirselo meglio, applicare le sue capacità di manager per comprendere i suoi sentimenti, per davvero.
“Forse dovrei piantarla lì. Forse mi sto facendo troppo coinvolgere. Forse no. No, non è questione di soldi, lei mi piace, forse il voler vivere con lei sarebbe a dire che vorrei amarla per davvero. Allora mi sono innamorato? Pierangela potrebbe rifiutarmi e così dovrei troncare con lei, smetterla perché se è amore non può essere a pagamento.”
Non sapeva come anche lei fosse irrequieta mentre girava per le botteghe a fare la spesa per il suo arrivo. Da quando aveva smesso il mestiere c’era stato soltanto Marcello, ma non capiva più che storia fosse. Un cliente ormai diventato troppo
stretto, troppo impegnativo, che le impediva forse di tornare libera alle sue cose, senza più uomini. Smetterla con lui? Allora, perché si stava affannando in cucina, per preparargli qualche “pietanzina”, per gioire nel vederlo contento.
Forse era diverso, forse era il caso di guardare dentro le sue stesse ansie, le sue paure.
“Sì, mi sto innamorando, forse l’amore è proprio questo, forse dovrei chiedergli di venire a vivere con me. Sarebbe un rischio, potrebbe meravigliarsi, andarsene per sempre. Perdendolo, credo ne soffrirei, io non voglio più soffrire, non me lo merito. Allora sarebbe meglio lasciare le cose come stanno ora. Lui è solo un cliente, ma è davvero così? Ora non lo so più.”
Le candele sulla tavola apparecchiata a festa erano accese, le fiammelle tremolavano come i pensieri in tumulto e i dubbi di Marcello e di Pierangela.
Lo vide parcheggiare l’auto al solito posto, chiudere a chiave la portiera.
Lasciò cadere la tendina di pizzo che teneva scostata e si avviò per aprirgli la porta.
Solo un attimo ancora, il suono del campanello.
I loro sguardi si incrociarono in un perplesso sorriso.
No, non sarebbe stata una serata come le altre.


49-continua

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