foto carlozanzi
Preghiera all'Ora di Compieta
Signore che stai sopra le nuvole e nei miei pensieri,
fa che possa conservare la fede sino alla fine del viale.
E se dopo la curva Ti troverò, tanto di guadagnato.
Ma se non ci sarai, mi avrai salvato lo stesso.
lunedì 31 marzo 2014
Grazie a Gabriella
Un grazie a Gabriella, moglie di mio fratello Mock, artista. Ha realizzato questa coperta trapuntata per mio nipotina Rebecca, con immagini in rilievo da Capuccetto Rosso. Esperta anche di pelouche, sempre lei ha brevettato la mascotte PeeBee della Piedmont Brothers Band. Bravissima!
Vidoleggiamo e Laura
Dopo l'inaugurazione di stamani, continua domani alla Vidoletti l'iniziativa 'Vidoleggiamo', che prevede fra l'altro una mostra del libro (foto), visitata dagli alunni ma aperta a tutti. Domani, martedì 1 aprile, gli autori Rossana Girotto e Sergio Scipioni incontreranno gli alunni delle terze e quarte elementari, mentre la mia amica e collega Laura Veroni (foto) parlerà della sua esperienza di narratrice alle classi terze della media Vidoletti.
Alla sera, ore 20.45, sempre alla Vidoletti di via Manin 3, a Masnago, proiezione del film 'La mia vita è uno zoo', con dibattito a cura di Vittorio Mastrorilli. Ingresso libero.
domenica 30 marzo 2014
Herbert 50
herbert
di franco hf cavaleri
Racconto romantico: una coppia in giallo
Ferma, stai ferma, non respirare, non ti muovere, non tremare, può vederti e allora…
Era rimasta così, accosciata dietro a uno dei cespugli del lungolago, non riuscendo a frenare i brividi di terrore che l’attraversavano, sforzandosi d’essere statua.
Era come calamitata, le era impossibile non sbirciare, non vedere tra i rami verdi dove aveva cercato rifugio quando aveva compreso l’orrore di quel che stava avvenendo pochi metri davanti a lei.
Non si mosse neppure quando vide la fine, sentì avviarsi il motore e l’automobile andarsene in direzione di Arona, a fari spenti nel buio di quell’inizio d’autunno.
Soltanto quando al tremore della paura si unì il fresco dell’ultima notte riuscì a muoversi, le calze strappate alle ginocchia, mille aghi ad attraversarle i piedi rattrappiti nelle scarpette di boutique. Scappò via ansimando verso casa, la sua villetta lontana dai grandi alberghi, frugò le chiavi, sbattendo il portoncino alle sue spalle. Si buttò nel letto così com’era, il volto affondato nel cuscino di seta.
“Forse non mi ha visto, non mi ha visto. Io non ho visto niente.”
Il cabinato era ancorato a pochi passi dalla riva, illuminato dai riflessi delle luci di strada, in una posizione come se volesse arenarsi, dirimpetto al piazzale dove s’inizia la passeggiata che unisce la stazione di valle della funivia del Mottarone al lungo viale che scorre tra la riva e i grandi alberghi stresiani.
La bambola di donna galleggiava lenta, come se volesse guardare il primo sole nascente, solo una camicetta aperta sul seno nudo, come se per capriccio giocasse sui sassi umidi della riva, che le sue gambe rigide toccavano nel flusso ritmato della leggera risacca. Così la scorsero alle prime luci del mattino la coppia di anziani stranieri usciti dal loro albergo per l’abitudinario passeggio sul lungolago.
Richiamarono urlando il loro barboncino, lasciato senza guinzaglio per correre verso l’acqua e che stava scodinzolando frenetico davanti alla figura inerte.
Un’ora dopo la riva, isolata dai nastri biancorossi, luccicava per i lampeggianti blu delle gazzelle dei carabinieri, con i primi curiosi fermi lì a sbirciare.
Un’ambulanza stazionava in attesa del viaggio alla morgue, dopo i rilevi fatti dal magistrato, tirato giù dal letto e già sul posto. Un’altra si era da poco diretta a sirene spiegate al pronto soccorso, trasportando un uomo in stato di incoscienza che i barellieri avevano portato via dalla barca.
Guardati come sei conciata, sei disfatta. Che t’importa proprio ora, con quello che hai passato, con quell’uomo crudele che hai visto. Che hai riconosciuto.
Pierangela era davanti allo specchio nella sua camera da letto, non aveva chiuso occhio da quando era rientrata stravolta in casa, ora fissava la sua immagine, tremava ancora, sapeva che non era stato un incubo. Le sembrava di essere brutta.
Eppure si era sempre tenuta con cura e per quanto ora si avviasse ai quarant’anni il tempo non le aveva potuto far danno. Era una donna bellissima, come da ragazza.
Al tempo di scuola avrebbe potuto avere tutto, un codazzo adorante di maschi e l’invidia gelosa delle sue compagne.
Il suo era però uno splendore algido, emanava una naturale freddezza che la faceva irraggiungibile. Non che questo le pesasse, tutt’altro.
Solo quell’attimo di follia, dopo la Maturità, le aveva acceso quell’uomo ben più grande di lei prima di scomparire e che aveva così deciso il suo destino.
Pierangela era scesa dall’altare dei sogni e s’era avviata al ruolo di magnifica accompagnatrice, di escort d’altissimo bordo nel mondo diamantato dei vip.
Era rimasta però se stessa, la sua anima e il suo corpo le appartenevano, per nulla scalfiti dal denaro per il quale solamente concedeva attimi di illusione.
Quasi vent’anni di mestiere, un bel gruzzoletto da parte, aveva deciso di smetterla e si era ritirata in quella casetta sul Lago Maggiore, con i suoi mobili, i quadri e i tappeti, gli oggettini cercati a uno a uno: il rifugio dove rinchiudere il suo vero mondo e discreta nasconderlo agli altri, in quella quieta provincia di bellezze fiorite e altre celate, dove il vivere può essere gradevole a chi ci abita.
Donna sconosciuta trovata morta nelle acque del lago, tragico incidente o suicidio? Il mistero di un uomo piantonato in ospedale. Tutti i particolari in cronaca…
Nella caserma di Stresa l’anziano maresciallo era davanti al Pubblico Ministero.
“Signor giudice, sembrerebbe come se avesse cercato di morire, ma non si può escludere la disgrazia, a meno che il giovanotto che abbiamo ricoverato non sia stato lui a combinare il pasticcio con questa donna più grande di lui…”
“Ma lei, caro maresciallo, non me ne pare convinto. Sappiamo almeno chi sono?”
“Su questo ci stiamo lavorando, ma i dubbi sono tanti a cominciare dal motivo di un suicidio, come mai lo avrebbe fatto così invece di cercare un luogo al largo, senza neppure lasciare due righe, un segno, un messaggio qualunque. Vedremo di capirne qualcosa non appena identificati, abbiamo diramato le fotografie. In ogni caso l’autopsia sulla donna ci potrà aiutare, anche se proprio ora il nostro patologo è in ferie e si dovrà attendere che rientri in sede.”
Non tutti i propositi vanno a buon fine.
L’indomani obbligò gli inquirenti a una istantanea accelerazione delle indagini, un fonogramma giunto dal capoluogo aveva svelato il nome della donna, era la moglie di un big della finanza internazionale, che si stava già precipitando a Stresa.
E’ quello che il comandante stava raccontando per telefono al giudice: “Ma allora chi è il giovanotto che era con la donna? Era una tresca?”
“Bene maresciallo, anzi male. Se c’è di mezzo un gigolò dovremo fare le cose alla svelta, cominciando da un controllo discreto, molto discreto delle persone. Intanto l’uomo va interrogato non appena riprende conoscenza e ora partiamo dall’autopsia e questa bisogna averla all’istante, ferie o non ferie.”
Erano rimasti un attimo alla cornetta, in silenzio, poi l’idea: “Se lei, signor giudice, mi autorizza, io farei venire da Milano un mio vecchio amico, un compagno di scuola. Di lui mi fido e non solo come patologo. E’ appena andato in pensione ma potrebbe essere incaricato come esperto esterno.”
“Benissimo maresciallo, lo convochi al più presto e nel frattempo controlli se qualche telecamera in strada ci racconta qualcosa di interessante.”
“Intanto cercheremo di tenere alla larga la stampa, per i cronisti che mi trovo dietro la porta darò la versione ufficiale della disgrazia, ammesso che non si accorgano che li sto prendendo per il naso.”
L’esperto arrivava nel pomeriggio con il Porta Garibaldi-Domodossola, fuori della stazione lo attendeva la macchina dei militari per accompagnarlo in caserma.
Marcello aveva risposto senza esitare alla chiamata del suo vecchio compagno di scuola, forse l’unica persona alla quale si era sentito vicino negli anni di gioventù.
Oggi era un sessantenne elegante, un uomo indecifrabile che fendeva la vita comune senza esserne toccato, né interessato. Vivere da solo non gli era mai pesato, ci stava bene ora, come ai tempi della scuola. Pochi rapporti, nessuna vera amicizia, con le ragazze poi… Chissà, forse gli facevano paura e forse non gli interessavano, non aveva semplicemente voglia di avere una ‘storia’.
Nessuna complicazione, nessuna distrazione sulla strada degli studi e poi nel lavoro. Le camere mortuarie, le autopsie che narravano la vita segreta di uomini e di donne erano il suo mondo, ancora adesso che era andato in pensione.
Era davanti all’uomo in divisa.
“Il fatto lo abbiamo inquadrato ufficialmente come una disgrazia, però potrebbe essere il tragico gesto di una donna molto in vista. Abbiamo anche un giovanotto di cui non sappiamo nulla, pensiamo che sia un amante occasionale. Molte cose non ci convincono e qualcosa di più la vorrei sapere da te, con discrezione assoluta.”
“Su questo stai tranquillo, già ti fidi di me altrimenti non mi avresti certo chiamato. Troviamoci domani mattina alle sette alla morgue e ora lasciami andare, mi sistemo in un albergo e faccio finta di essere un turista.”
Non era facile tenere alla larga i cronisti, men che meno tener loro celato il nome della donna e in modo particolare di chi fosse moglie. Le cronache radiotelevisive e della carta stampata ne parlarono, con tanto di fotografie di lei e di suo marito. Misteriosamente nessuno citò l’altro, il ragazzo era come se non esistesse più. Forse furono quelle telefonate a editori e direttori di notiziari a far sfumare certi contorni.
Pierangela non era più uscita di casa, la paura non l’aveva ancora lasciata, ancora di più dopo che aveva visto in televisione le immagini e le fotografie. Viveva l’incubo, terrorizzata al pensiero che l’assassino l’avesse vista mentre passeggiava per il lungolago e stava nascosta a pochi metri da lui, temeva per la sua vita.
Ancor di più avrebbe tremato se avesse saputo che nel suo correre verso casa più di una telecamera l’avesse inquadrata e che un solerte appuntato l’avesse segnalato al suo superiore: “Signor maresciallo, dalle immagini è tutto quello che abbiamo, questa donna che se ne corre svelta più o meno a quell’ora. L’ho già attenzionata, vive da queste parti, una donna molto discreta e direi molto bella, eccezionale.”
“Allora cosa aspettiamo? Convocatela immediatamente, io l’aspetto nel mio ufficio oggi stesso, verso le undici, intanto andiamo a vedere l’autopsia.”
Marcello non l’aveva atteso, quando il maresciallo arrivò lui era già al lavoro.
“Scusami, ma ho il sonno leggero e allora sono arrivato qua presto. Per farla breve la donna ha consumato un rapporto sessuale, se è stato con quell’uomo trovato in barca il DNA ce lo confermerà, mentre all’esame tossicologico lei è positiva, ipotizzo che ci abbiano anche messo sopra un mucchio di alcolici. Per quanto riguarda il resto, l’esame non ci dice nulla di anormale, tutte cose compatibili con l’età di lei. Non vedo segni di violenza o di una qualche colluttazione.”
“Il mio istinto mi diceva che potrebbe non essersi uccisa, ma che invece lui l’abbia ammazzata. Mi stai spiegando che il mio fiuto ha fatto cilecca?”
“In un certo senso sì, avresti sbagliato, ma anche no perché la logica in questa storia proprio non c’è. Fammi dare ancora un’occhiata.”
Fu allora che un particolare gli diede da pensare.
“Guarda qui, non saprei dirti che significato abbia, ma attento a questo livido tra il collo e il petto della donna, potrebbe essere niente ma anche il segno di un colpo, di una spinta leggera, di una pressione non violenta. Perché? Non lo so proprio.”
“Guarda Marcello che una certa ideuzza questa cosa me la fa venire, per come l’abbiamo trovata potrei pensare che sia stata tenuta a forza sott’acqua e che perciò sia stata affogata, magari dal suo stesso amante in preda a un raptus. Ma non abbiamo trovato nulla che giustifichi questo che ti dico.”
L’appuntato, che era presente all’autopsia, tossì discretamente: “Veramente qualcosa ci potrebbe essere, signor maresciallo lei lo sa che a me piace andare in barca.”
“Non stare a raccontarmi la tua vita, cerca di spiegarti.”
“Ecco, faccio subito. A parte che se ci fosse stato qualcun altro avrebbe fatto sparire qualunque cosa di compromettente, ma non è vero che sulla barca non c’era nulla, c’era il mezzo marinaio che potrebbe lasciare un segno del genere.”
“Ma che bravo! Il tuo ragionamento fila, ma se non troviamo qualche altro aggancio tutto resta sospeso nel nulla. Ne parlo subito con il magistrato, ora comunque dovrei vedere la famosa signora delle telecamere, Marcello che ne dici di venire anche tu?”
Ti sei seduta davanti alla scrivania, le gambe lunghe accavallate. Hai dato fondo a tutto il tuo vecchio mestiere per farti vedere impeccabile, per celare la tua preoccupazione di essere messa in mezzo, perché tu hai visto come sono andate le cose e sai fin troppo bene il potere di quell’uomo, uno dei tuoi ricchi clienti di allora.
Guardandola al maresciallo non restava che pensare due cose, primo che avesse ragione il suo appuntato a dire che la donna era bellissima e per secondo che lei era sull’orlo di una crisi di nervi, per quanto si sforzasse di non darlo a vedere.
Cercò di fare breccia sfruttando quello che il suo intuito e il mestiere di così tanti anni di indagini gli avevano suggerito: “Questa qui sa qualcosa, me lo sento.”
Non ci riuscì, per quante domande e pressioni lui facesse la donna era rattrappita in un unico diniego, ripetuto come una penosa litania: “Non so niente, non so niente. E’ vero che ero in giro quella sera, lo faccio sempre da quando vivo qui, ma non ho visto niente. Se correvo è perché era tardi e volevo rientrare a casa al più presto.”
Mezz’ora dopo il ritornello non era cambiato e il graduato non poteva fare altro che lasciarla andare via nonostante i suoi dubbi, ma non avrebbe saputo in che modo trattenerla e non c’erano prove di un suo coinvolgimento nel fatto.
Pierangela non appena congedata era schizzata via verso la porta e così in subbuglio che non si accorse di Marcello, se non quando andò a sbattergli contro.
Si guardarono, si fissarono come se si fossero all’improvviso accorti l’una dell’altro, come un inaspettato avvertire una sensazione confusa, irresistibile.
Marcello comprese come lei fosse scioccata, fece un qualcosa di cui mai e poi mai si sarebbe creduto capace, le sorrise come per incoraggiarla: “Se mi promette di non agitarsi di più, io la porterei da qualche parte a bere un buon caffè, le farebbe bene.”
Pierangela lo guardò, lui le diede d’istinto sicurezza, i suoi occhi erano limpidi, non avrebbe avuto di che temere, accennò un timido sorriso: “La ringrazio, accetto, mi sta bene ma niente bar, a casa da me, vedrà che come casalinga il mio caffè non è male.”
Ti sei quasi pentita non appena pronunciate quelle parole, ma non ti riuscì di fare marcia indietro, non lo volevi, perché e inspiegabilmente quell’uomo ti piaceva o forse pensavi, speravi che una persona in casa ti potesse dare più sicurezza.
Marcello non aveva esitato un istante per accettare l’invito, il suo mondo di certezze si stava sbriciolando davanti a Pierangela. Non era per la sua bellezza, ma vedeva in lei qualcosa di più profondo, che proprio ora che stava invecchiando lo stravolgeva, era un desiderio fortissimo di starle vicino. Così, all’improvviso.
Non avevano bevuto il caffè una volta giunti a casa di Pierangela, si erano guardati, si erano abbracciati, erano sul letto a fare l’amore. I loro corpi si erano trovati come per un’antica conoscenza, una esaltante abitudine.
Marcello, il distaccato Marcello era ora l’impetuoso e vigoroso amante, come se volesse riscrivere tutti in una volta i suoi anni di monastica solitudine.
Pierangela ne aveva compreso l’inesperienza, ma era così bello e magnifico, si sentiva sopraffatta dal senso inesprimibile di beatitudine che le dava quell’uomo, uno sconosciuto che le stava facendo vivere l’amore, quel sesso che non era per mestiere e che non aveva mai avuto prima, vergine anche lei nei sentimenti.
Era di nuovo mattina, stavano facendo colazione quando Pierangela parlò a Marcello.
“Te lo dico così, con semplicità. Vai in albergo e prendi le tue cose. Ti ospito io, vieni a vivere con me intanto che sei qui.”
“D’accordo, mi fai felice, ma questa mattina devo completare il mio lavoro con i carabinieri per quella brutta storia del cadavere nel lago, io sono qui perché sono un medico, un patologo, uno che tratta con i morti, se la cosa non ti impressiona.”
In caserma si erano ritrovati il Pubblico Ministero e il maresciallo, per gli inquirenti era il momento di fare il punto definitivo, o presunto tale. C’era anche Marcello.
Il giudice era nervoso, troppe interferenze, troppi consigli all’apparenza bonari per fargli chiudere le indagini in fretta e ‘salvaguardando una famiglia per bene’.
Si era rivolto all’uomo in divisa.
“Avete fatto tutto bene, lo vedo dal dossier e mi congratulo. Ora mettiamoci una parola definitiva. Me l’aspetto da lei, comandante.”
Il maresciallo lo guardò perplesso, certo non gradiva che dopo tanti anni di onorata carriera gli facessero fretta, che era quanto coglieva dallo sguardo del Pubblico Ministero. Rispose professionalmente.
“Abbiamo torchiato il ragazzo ma non è mai caduto in contraddizione. Lui giura e spergiura di non saperne niente di cosa possa essere accaduto, ma di essere stato semplicemente ingaggiato per il fine settimana, che i suoi ricordi si fermano al festino e che è felicissimo di essersi ritrovato vivo in ospedale. D’altra parte è pur vero che l’abbiamo recuperato per i capelli, senza l’allarme dei due turisti ancora pochi minuti e sarebbe morto di overdose.”
“Dunque? Andiamo al punto.”
“I fatti certi sono che abbiamo due persone, una donna di mezza età e un uomo molto più giovane che su una barca di lusso hanno fatto un festino a base di sesso, di alcol e di eccitanti. Ipotesi ne possiamo fare a mucchio, almeno due. O erano così fuori di testa che lei è uscita e cadendo in acqua è annegata, mentre lui era mezzo in coma in cabina. Oppure si potrebbe dire che mentre erano incoscienti qualcuno ha fatto in modo che lei cadesse in acqua e ci restasse, lasciando inguaiato il giovanotto. In questo caso dovremmo anche indirizzarci sul marito, capire se c’entri ovviamente per gelosia. Che sia stato questo o quello a spingerla fuori dalla barca, ma non abbiamo trovato niente di niente per dirlo.”
Marcello non potè fare a meno di intromettersi.
“Lasciamo stare la mancanza di segni sul corpo, a parte il livido da pressione che aveva sul petto e che in ogni modo non è così forte da essere un vero colpo. Faccio comunque fatica a credere che dopo che i due hanno avuto un rapporto sessuale e il DNA dello sperma ce lo conferma, mentre sono nello sballo la donna riesce a salire in coperta e a cadere o a buttarsi giù. Non vi pare minimamente illogico?”
Le parole del maresciallo e del patologo per il giudice equivalevano a un attacco d’ulcera, decise di farsi valere, di chiuderla lì per il bene di tutti e soprattutto del suo.
“Parole ne ho sentite tante, ma ora ascoltate me. Noi chiudiamo l’inchiesta con una donna che cade in acqua e annega, con il suo marinaio che dorme e non se ne accorge. Punto. Che vadano al diavolo pure i giornalisti, se non si accontentano.”
In quei pochi giorni di metà autunno la riviera del Verbano era ancora rigogliosa, in fiore, mentre si vide una nuova coppia vivere per il lago.
Pierangela e Marcello parlavano poco, per lo più qualche sguardo a confermare una vicinanza fisica, un confuso star bene che ripagava entrambi dell’altra vita, di una routine in quei momenti lontana, dimenticata.
Di giorno se ne stavano a passeggio tra i turisti, un’uscita qua e là, sulle isole, acquisti nei negozi più di classe, i ristoranti più intimi, qualche cinema, fino a quando non si ritiravano a casa, da lei.
Quando finirono i giorni che Marcello si era concesso, Pierangela ebbe una stretta al cuore, mentre lo vedeva prepararsi la valigia. Temeva un commiato e lo svanire di un sogno. Lui le diede un bacio.
“Devo sistemare delle faccende a Torino, poi andare a Milano per un impegno che ho da tempo, ma per fine settimana torno da te. Ora passo in caserma a salutare.”
Il maresciallo lo abbracciò, tirandolo da parte.
“Guarda Marcello, orso come sei chissà come hai potuto combinare con quella gran bella donna. Il mio obbligo è però di metterti sull’avviso. Durante le indagini lei poteva essere una testimone e abbiamo approfondito la sua posizione. L’unica cosa che ti dico è di stare attento. Da quando è qui non risulta nulla, ma prima… prima faceva il mestiere, insomma era una escort, una accompagnatrice. Mica una di strada, esercitava ai piani alti, con gente danarosa, quindi te lo ripeto da amico, attento!”
Povera Pierangela, ora te ne giri per casa, guardi il tuo letto dove hai trovato una insperata felicità, ma ora lui non c’è e i fantasmi, i demoni ritornano.
Era davanti a un film che non avrebbe mai voluto vedere e che ora riappariva, come lo scaricarsi incontrollabile delle diapositive di un caricatore impazzito. Era lì sulla passeggiata a godersi la sua solitudine, guardando con pigrizia quella barca con le luci ancora accese in cabina. Aveva sentito il rumore di un’automobile giungere sul piazzale, un uomo scendere. Si era nascosta dietro il cespuglio, lo aveva riconosciuto pur nella penombra, era stato un suo cliente importante, un uomo cattivo, che godeva a farle del male. Era il vigliacco che ora recitava la parte di vedovo sconsolato.
Con un salto era andato sulla barca, scendendo sotto coperta.
Pochi minuti, poi l’aveva visto risalire a fatica trascinando il corpo incosciente di una donna. L’aveva fatta scivolare nell’acqua bassa, aveva impugnato il mezzo marinaio e sporgendosi fuori bordo l’aveva tenuta sotto per interminabili minuti, guardandola impassibile mentre lei debolmente si agitava.
Solo quando fu immobile, lui si sollevò, si guardò in giro.
Poco dopo la sua macchina si allontanava.
Una settimana è passata. Uscendo con la sua auto dalla grande città Marcello sentiva già l’umido profumo dell’autunno. Si stava ancora bene per le strade del lago, mentre Pierangela usciva dal parrucchiere tra la gente.
Non aveva preso l’autostrada, lui guidava tranquillo sul Sempione e scivolava lento sul ponte di ferro, l’idea che avrebbe rivisto la sua donna lo prendeva alla gola, la voglia di lei era forte, troppo grande.
Lei girava per le botteghe, faceva la spesa per l’arrivo del suo uomo, un pensiero la rendeva irrequieta perché la riportava alle paure della tragedia e forse sarebbe stato meglio smetterla, dirgli di andarsene via, per sempre.
L’automobile scivolava sotto il San Carlone e via a risalire il lago, forse per lui sarebbe stato meglio piantarla lì, perché impegnarsi così?
Entrò in cucina, aveva voglia di stare ai fornelli, per lui sì, era innamorata e allora non avrebbe dovuto mentire, nascondergli nulla, anche del delitto di cui era l’unica testimone, dirgli: ‘io ero là’. Poi lasciare che le cose succedessero.
Stava parcheggiando davanti alla casa, avrebbe dovuto dirle che sapeva del suo passato e che questo un po’ lo disturbava, o che forse non gliene importava niente.
Aveva acceso le candele sulla tavola apparecchiata, stava alla finestra con la mano tenendo scostata la bella tendina di pizzo, no, lasciamo le cose come stanno.
Che serata sarebbe stata?
Chiuse a chiave la portiera e si avviò: le devi dire che sai di lei o tenertela così?
Lasciò cadere la tendina e si ritrasse: vuoi rischiare, raccontargli tutto del delitto?
Solo un attimo ancora, il suono del campanello.
50-continua
Sara, professoressa di ginnastica
Evviva, la mia ex alunna Vidoletti Sara si è laureata in Scienze Motorie e Sportive: un'altra professoressa di ginnastica! Cominciano ad essere molti i miei ex alunni/e che hanno scelto come professione quella del loro prof Carlo.
Spero mi diano presto una pedata nel sedere, mi mandino in pensione sicché possa lasciare il mio posto alla giovane e bella Sara!
Carlo Porta, 15 giugno anche lui
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Testo originale | Traduzione letterale | |
I putann ai "damm del bescottin" Malarbetti slandrónn del bescottin, tanto ruzz, tant spuell contro i putann! Perché? Perché la dan per pocch lanfànn e la dan minga sott a balducchin? Vergogna! Tasii là ch'el semm anch nun perché cossa bajee; bajee, bajee perché sii vecc strangòsser che morbee, che no voeur refilavel pù nessun. E quand serev bej, gioven e grassott e stagn e prosperos, disii, o damazz, serev allora inscì nemis del cazz? la davev forsi via per nagott? Nagott on corno! i mee delicadonn, domandeghel on poo ai voster servent coss'han spes ogni voeulta a mettel dent in quij vost illustrissem figazzonn. E i palch e i carroccett e i sorbettitt e i faravóst e i scenn e i mascarad e i accòrd e i bigliett e i fest, i entrad, hin danee, facc de porchi! o fasóritt? E poeù gh'avii el mostàcc, veggiann calvàri, de romp el cuu al Governo per fà esclud quij tosann che la dan per on mezz scud? Citto là: sii nanch degn de stagh in pari. | Le puttane alle "dame del biscottino" Maledette donnacce del biscottino, tanto chiasso, tanto fracasso contro le puttane! Perchè? Perchè la danno per poche monete e (non) la danno mica sotto a (un) baldacchino? Vergogna! Tacete là che lo sappiamo anche noi per che cosa abbaiate; abbaiate, abbaiate perchè siete vecchie megere che ammorbate, che non vuol rifilarvelo più nessuno E quando eravate belle, giovani e grassottelle e sode e prosperose, dite, o gran dame, eravate così nemiche del cazzo? la davate forse via per niente? Niente un corno! le mie delicatone, domandatelo un po' ai vostri (cavalier) serventi che cosa hanno speso ogni volta per metterlo dentro in quelle vostre illustrissime figazzone. E i palchi e le carrozzelle e i sorbettini e i ferragosti e le cene mascherate e gli accordi e i biglietti e le feste, le entrate (ai vari spettacoli) sono danari, facce da porche! o fagiolini? E poi ci avete il mostaccio, vecchiacce orribili, di rompere il culo al Governo per far escludere quelle ragazze che la danno per un mezzo scudo? Silenzio là: (non) siete neanche degne di stargli alla pari. |
Commento
Ho scoperto oggi che Carlo Porta, noto poeta dialettale milanese, è anche lui nato il 15 giugno, come me, anche se lui nel 1775 o 1776. Inoltre si chiama come me e il suo cognome è di 5 lettere, come il mio. Anche lui, come me, amava le poesie dialettali, anche se lui è di gran lunga più convincente di me. Speri della Chiesa Jemoli, massimo vate varesino in dialetto, si è certamente ispirato al Porta. Non sapevo poi che Carlo Porta scrivesse senza peli sulla lingua, con linguaggio assai esplicito. Prova ne è questa poesia che ho trovato. Io non sono ancora arrivato alla sua 'spregiudicatezza'!
Herbert 49
Herbert
di franco hf cavaleri
Racconto romantico: due coppie
§ Giuseppe e Alfonsina
Ebbe un soprassalto nello scorgere la figuretta che camminava a fianco dei binari, sembrava proprio lei nel chiaroscuro lattiginoso della serata autunnale.
L’aveva cercata invano sul solito tram che lo riportava a casa dopo il lavoro. Come le altre volte avrebbe desiderato osservarla, come sempre di nascosto, conquistato dal sorriso giovane e allegro di lei, incapace di rivolgerle un cenno, una parola.
Sì, cosa ti aspettavi, povero Giuseppe.
Appena appena la guardavi, sbirciando di nascosto il viso risplendente di lei, che pure ti accendeva ogni volta l’anima.
Non puoi aver dimenticato di come eri lesto a sfuggire il suo, di sguardo, non appena l’avessi incrociato, affascinato da lei senza una sola speranza di colmare lo spazio fisico, che vi separava nel lento sferragliare lungo i viali di Milano.
Sì, Giuseppe. Stavolta lei non c’è.
Così torna al tuo posto, chi vuoi che faccia caso proprio a te.
Potresti anche non presentarti al lavoro, passeresti inosservato lì, come nella tua spoglia vita di tutti i giorni. Da vero “travet”, nessuno scommetterebbe su di te un solo ghello, guardati come sei dimesso nell’aspetto, pauroso non solo nell’affrontare, ma anche semplicemente di parlare con la gente.
Nessuno sa vedere oltre la tua apparenza di “mezze maniche”.
Forse tu stesso hai dimenticato quanta forza di volontà tu avessi avuto e quanti sacrifici tu fossi stato capace di compiere, il primo della tua famiglia a continuare negli studi superiori, addirittura fino al diploma.
Forse non ricordi più, nella povertà della tua gente, dei molti libri che chiedevi in prestito ora a uno, ora all’altro dei tuoi compagni, per poter studiare la sera, per sperare di essere anche tu “uno studente”.
Ora ti lasci vivere giorno dopo giorno, con il tuo piccolo mondo racchiuso nella camera ammobiliata, che ti ha affittato per bisogno una vedova.
Camminava stancamente lungo la stretta direttrice del tram, le guance in fiamme, le lacrime mescolate alle goccioline della prima bruma meneghina.
La sua gioia di vivere si era come frantumata poche ore prima, quando era stata chiamata negli uffici per sentirsi dire che era licenziata dal lavoro, da quel direttore impassibile e freddo, inappuntabile e indifferente.
Lasciata a casa senza una colpa, neanche una spiegazione nel ricevere in mano un foglio di carta che rendeva di botto incerto il suo futuro.
Pensavi forse di essere furba, povera Alfonsina. Credevi che il tuo essere sempre allegra, sempre benvoluta dalle tue compagne, ti desse il diritto di fare la sfrontata con la capoturno. Che importanza può avere il fatto che tu -semplice operaia- avessi ragione, quanto sarebbe stato meglio se avessi tenuto la tua lingua a posto, se fossi stata più “disciplinata” sul tuo lavoro.
Eppure tu hai sempre sorriso alla vita con la tua gioia, le tue esuberanze sempre ricambiate dagli altri, almeno così credevi. Non ti mancava niente, un buon lavoro, l’appartamentino nella grande casa di ringhiera, che ti avevano lasciato mamma e papà, tanti vicini di casa, che ti hanno visto crescere. Tutto finito. Lo spasmo della disperazione ti ha ora reso il volto come una specie di ghigno, hai ben compreso come tu debba prepararti a giorni difficili.
Meglio andare a piedi, lungo i binari, risparmiare anche solo il costo del biglietto, con un gelo dentro, atroce come i primi freddi.
La pugnalata più forte l’avevi ricevuta vicino alle Nord, alla Bovisa, quando avevi incrociato l’uomo che ti aveva messo sulla strada, avresti voluto forse implorarlo lì per lì di farti riprendere in ditta, ma ti eri bloccata nel capire come lui neanche ti avesse riconosciuto nel passarti accanto.
A casa ci sei arrivata con il buio. Sei entrata, neanche hai acceso la luce, ti sei appoggiata alla porta e ripreso a piangere, le mani rigide a tormentare le tempie.
§ Marcello e Pierangela
Dal finestrino appannato scorgeva l’ovatta esterna della nebbia.
Come sempre, quell’autunno, come in tutte le stagioni passate nel tornare a casa dopo il lavoro, gli occhi assopiti per il caldo del vagone e la sopraggiunta stanchezza della levataccia mattutina. Sapeva come a Malnate il muro di nebbia sparisse d’un botto, con la strada fino a Varese che si staglia nitida e netta.
Un lavoro importante a Milano, vita da pendolare. Non che gli pesasse la mescolanza con impiegati e operai.
Era abituato a tagliare fuori tutto quello che non fosse lavoro. Non faceva più caso agli sguardi di considerazione -tra il rispetto e la curiosità- degli altri.
Un uomo elegante, un uomo misterioso che fendeva la vita comune senza esserne toccato. Né interessato. Aveva sentimenti?
E’ per questo che tu saprai tramutare il contrattempo in una occasione, una distrazione che in altri avrebbe creato chissà che panico. Semplicemente eri salito a Cadorna sulla carrozza sbagliata del treno: eppure lo sapevi che era a doppia destinazione. Le carrozze insieme per Varese e per Como, che venivano separate una volta raggiunta la stazione di Saronno.
Se solo il controllore…ma sì, distinto come sei non avrà voluto disturbare il tuo pisolino. Appena un attimo di stizza nel ritrovarti nella città lariana, poi ti sei organizzato, avresti passato la nottata a Como, un albergo, una buona cena e dopo due passi sul lungolago, forse con una qualche “signorina”. In fondo è come per il viaggetto che qualche volta ti concedi, ogni tanto in questi anni di brillante carriera stacchi la spina per un fine settimana lontano da casa.
Vivere da solo non ti pesa, ci sei abituato. Ci stai bene oggi come ai tempi di scuola. Pochi rapporti, nessuna vera amicizia. Con le ragazze poi.
Chissà, forse ti facevano paura e forse non ti interessavano, o semplicemente non avevi voglia di avere una “storia”. Ti bastava cercarne una ogni tanto, di quelle donne già fatte, disposte a darti quello che ti serve, quel che ti basta.
Semplice e tranquillo, nessuna complicazione, nessuna distrazione prima sulla strada dei tuoi studi e poi nel lavoro subito trovato, importante.
Oggi, a quarant’anni, stai bene così. Cambiare? Perché?
Trent’anni e qualche mese. Cominciava a lavorare di meno, per quanto lei si tenesse con cura il tempo le era contro. Più di dieci anni di mestiere.
Non che avesse di che lamentarsi, come quelle disgraziate messe sul marciapiede a forza di botte e costrette a tutto pur di non far incarognire il protettore.
Il lungolago sulle belle acque del Lario è pieno di luci, il clima tutto sommato accettabile. Puoi passeggiare tranquilla, come ogni sera.
Vivere da sola non ti pesa, ci sei abituata, hai anche la tua villetta con i tuoi mobili, i tuoi quadri e i tappeti, gli oggettini cercati uno a uno: il tuo rifugio, dove rinchiudere il tuo vero mondo, nasconderlo agli altri.
Il mestiere non lo fai perché ti piacciano troppo gli uomini, sei libera, e non hai nessuno che ti costringa.
Senza amore e senza odio, così ti guadagni da vivere.
Pensare che quand’eri a scuola tu apparivi magnifica e inavvicinabile, una vera e propria icona di fredda bellezza, vanamente divorata dagli occhi di tutti i maschi. Ancora oggi con te perdono l’occasione quei tuoi vecchi compagni di scuola, che vengono a cercarti. Sperano con il darti del denaro in chissà cosa, per non trovare dalla tua indifferenza rivincita alcuna.
Oggi, a trent’anni, è svaporata la follia improvvisa che nell’anno degli esami per la maturità ti accese quell’uomo di fuori, prima di scomparire.
Scesa dall’altare dei sogni, la tua anima e il tuo corpo ti appartengono, per nulla scalfiti dal denaro, per il quale solamente tu concedi pochi attimi di illusione.
§ Incontri
Faceva ben freddo quella sera d’inverno e Giuseppe non vedeva l’ora di arrivare nella solita latteria lungo i Navigli, dove avrebbe consumato il suo abituale pasto caldo, l’unico della giornata, prima di raggiungere casa.
Un saluto educato e formale da rivolgere alla padrona e poi subito in camera.
Comprese che fosse proprio lei, subito, non appena ebbe individuato la figura della ragazza contro la vetrina illuminata della latteria. Le si avvicinò.
Sentì la sua voce parlare; “Scusi, sa, è da un bel po’ che non la vedo sul tram.”
Bravo, Giuseppe. Hai raccolto a piene mani tutto il coraggio che avresti potuto raggranellare, ben sapendo di una occasione forse unica.
Alfonsina si era voltata, lo aveva riconosciuto come quell’uomo silenzioso che incontrava la sera dopo il lavoro, di quando il lavoro c’era. Sussurrò.
“Ho cambiato posto, mi sono trasferita.”
Aveva uno sguardo di fame.
“Come mai sta qui davanti, al freddo?”
“Sono una stupida… ho dimenticato a casa il borsellino, non posso fare spesa.”
Giuseppe non era più lui, con una forza, di cui non si sapeva capace, la fece entrare, la obbligò a comprare la bottiglia di latte, il pane, un boccone di formaggio, pagando lui stesso, con un quieto sorriso.
Non poté convincerla a mangiare insieme.
“Glieli renderò, le porterò i soldi subito, già domani.” Si allontanò di fretta.
Nei giorni a venire, Giuseppe non la ritrovò più.
Era cominciato quella notte d’autunno. Un incontro occasionale, uno dei tanti possibili. Ora lo aspettava, come ogni venerdi sera da qualche tempo.
Come un silente e disincantato appuntamento.
Anche se la cosa sembrava finita lì, il primo in riva al lago non era stato per Marcello e Pierangela un incontro come tutti gli altri, meccanico e impersonale.
Non che ci fosse stato un “qualcosa” di preciso, ma era come se si fossero accorti l’una dell’altro: un avvertire indistinto, un confuso esistere reciproco.
Probabilmente destinato a svanire.
Senza volerlo, senza saperlo lui era tornato qualche settimana dopo, non gli sarebbe dispiaciuto ritrovare quella ragazza, perché no? Lei lo aveva individuato subito, un lontano e piacevole desiderio d’essere ingaggiata.
Era diventata un’abitudine.
Man mano che si andava verso la primavera, all’imbrunire del venerdi sempre più spesso lo vedeva arrivare, con gli occhi cercandola.
Lei s’era accorta di rifiutare quelle sere gli altri uomini.
Lui aveva deciso che quella donna fosse preferibile alle altre.
§ Vita
Porta Romana, Porta Romana… ci son le ragazzine che te la danno, prima la buonasera e poi la mano…e 7 7 7 fa la Volante…
Quante volte Giuseppe s’era dato dello scemo, ma era più forte di lui.
Sarebbe bastato fare due versi alla vedova che lo teneva a pigione, si sarebbe sistemato, non è che lei non glielo avesse fatto, dignitosamente, intendere.
Avrebbe attaccato il cappello e anche risparmiato su quella faccenda della spesuccia mensile, che gli risolveva quel tale “bisogno igienico”.
Solitamente attendeva gli ultimi giorni, poco prima della stringata mesata che le maestranze portavano a casa.
Era il momento in cui alcune, per far quadrare i conti di casa, toglievano il grembiule e scendevano in strada a fare alternativa alle altre del mestiere.
Proprio quelle erano le sue preferite, non belle, spesso rustiche, ma sapevano di casa.
Esattamente ciò cui Giuseppe teneva.
Alfonsina era lì, sul marciapiede.
Gli sembrò di impazzire. La strinse per il polso, la strascinò da una parte: “disgraziata, disgraziata”. La guardava senza più capire.
Si irridigì alle parole stridule di Alfonsina.
“Ma la fame, ma tu lo sai cos’è la fame?”
Fece il gesto di schiaffeggiarla.
“Dimmi dov’è casa tua, che ti ci porto.”
Così fece, senza più una parola tra i denti serrati, artigliando il suo polso illividito.
Sbattè la porta alle loro spalle, la spinse sul letto.
Nello scuro della camera lei si lasciò prendere dalla cattiveria di lui, dalla sua rabbia atroce che pian piano andò smorzandosi in un ritmo dolcemente condiviso.
Come Alfonsina leggeva un tempo nei romanzetti rosa comperati all’edicola, si addormentarono abbracciati, accettandosi l’un l’altra .
Lago di Como, storia e monumenti, grandi ville del passato, bellezze fiorite e altre nascoste, forse scoperte solo dai drappelli dei turisti stranieri, quieta provincia dove il vivere può essere gradevole a chi ci abita.
La riviera lariana cominciava a fiorire, quando Pierangela -quasi a bruciapelo, neanche se n’era accorta di quel che andava dicendo- si sentì di proporre a Marcello: “se vuoi, a casa mia staremmo più comodi.”
Non passò molto tempo quando lui le chiese -pagando, naturalmente- di passare la notte insieme, nella comoda villetta alle spalle del lungolago.
Fu così che si vide una nuova coppia vivere per il lago, il fine settimana, tutti i fine settimana da venerdi a domenica sera, a lunedi mattina.
Marcello e Pierangela parlavano poco, per lo più qualche sguardo a confermare una vicinanza fisica, un confuso star bene che ripagava entrambi dell’altra vita, della routine dei giorni di lavoro.
A passeggio tra i turisti, qualche escursione in motonave, nei ristorantini meno in vista ma più buoni, qualche acquisto nei negozi più di classe, fino a quando non si ritiravano da lei. A casa.
Alfonsina dormiva ancora, quando Giuseppe si era svegliato all’ora solita, dando uno sguardo alla camera fredda e spoglia, ai segni inequivocabili del bisogno e capì, soffrendo per lei. Uscì svelto.
Quando lei si risvegliò, c’era tepore. Giuseppe aveva comprato del carbone e aveva rimesso in funzione la vecchia stufa Argo, sul tavolo aveva lasciato del pane e del formaggio, due bottiglie di latte erano al fresco sul davanzale.
Dire che la buona vedova fosse attonita, è dire poco.
Sconcertata nel vedersi frantumata la speranza di trovare in quel brav’uomo il compagno, di cui aveva necessità. Giuseppe aveva in fretta e furia radunato le sue poche cose, aveva pagato un mese di pigione ed era andato via sfarfugliando parole di incomprensibile spiegazione.
La decisione di vivere con Alfonsina era stata presa, neanche per un attimo aveva pensato di chiederlo alla ragazza. Era scontato per questo Giuseppe ritrovatosi determinato, tornato padrone assoluto del suo vivere.
Nella casa di ringhiera non ci furono problemi. Per chi sta nel bisogno una certa morale, moralismo da ben pensanti, può anche essere un lusso.
La nuova coppia fu accettata dai vicini e specialmente dalle donne, così semplicemente, anzi con il sollievo di vedere comunque sistemata quella poveretta, alla quale vogliono bene, che conoscono dalla nascita. Solo una beghina andò a tormentare il parroco in sacrestia per i due che vivevano nel peccato. Il vecchio prete lasciò che parlasse, la congedò in qualche modo, poi strinse sconsolato le spalle, ne aveva viste tante nei suoi molti anni di sacerdozio, se quella poveretta aveva trovato un po’ di fortuna, al diavolo le brave donne sempre pronte a ritagliare i panni, andò a cercare il suo Libro per rileggersi il detto della pagliuzza e della trave negli occhi.
§ Amori
Caldo umido a Milano, il soffoco spinge la gente a scappare fuori.
Siccome di soldi ne girano pochi, chi può, manda i figli in colonia, poi spera almeno la domenica di fare un giretto in collina o ai laghi, scampagnata illusoria di buon vivere in attesa del lunedì.
Giuseppe era come rinato, rifiorito nel sentirsi accanto alla ritrovata gioia di vivere della sua donna, di Alfonsina. Sapeva e davvero si sentiva d’essere importante, almeno per quella sua ragazza, che gli aveva rischiarato l’esistenza, che gli dimostrava di averlo accettato per com’era, che lo voleva accanto e non per interesse.
Quella domenica mattina Giuseppe, così stranamente taciturno la sera prima, se ne uscì: “forza, andiamo in gita al lago, prendiamo il treno per Como.”
Era una bella giornata, serena e appena ventilata. Avevano sorpassato la canottieri e la vela, ammirando gli idrovolanti nell’hangar. Stavano mangiando dei panini su una panchina a lago, quando Alfonsina si drizzò, guardando verso una coppietta sottobraccio che si stava avvicinando.
Riconobbe lui, il direttore che l’aveva licenziata, sempre elegante, sempre inappuntabile, con una bella donna, degna di lui.
Si irrigidì solo un attimo, giusto il tempo di realizzare che non provava più dolore nel ricordare quei giorni, ora così distanti. Si accostò a Giuseppe e gli diede una spintarella spalla a spalla. Poi tornò al suo boccone, ridendo all’acqua.
Anche Marcello aveva per un attimo prestato attenzione alla panchina con quella coppietta dimessa e nello stesso tempo piena di serenità.
Gli sembrava di aver visto la ragazza da qualche parte, chissà dove.
Continuarono la loro passeggiata.
Accanto a lui Pierangela era al solito tranquilla. Stava pensando a come ormai da qualche settimana avesse lasciato il mestiere, soldi in banca a garantirle il futuro ne aveva, solo desiderando di godersi casa, il suo rifugio.
Avrebbe tenuto soltanto lui, non avrebbe troncato il rapporto con Marcello.
Non gli aveva detto nulla di questa sua decisione.
A sera Alfonsina e Giuseppe erano rientrati a Milano: “devo parlarti.”
“Da settimana prossima mi hanno comandato in trasferta al centro Italia, devo andarci”. “No, non fare quella faccia. Non ti preoccupare, ti manderò lo stipendio, guarda, ti lascio il mio libretto della posta, usalo e non farti mancare nulla. Saranno solo poche settimane.”
Quella notte Alfonsina gli si strinse contro trattenendo il pianto, come per un’ultima volta. Come non dovesse più vederlo.
§ L’anno che è passato
Era ritornato l’umido profumo dell’autunno, Alfonsina si era appena seduta dopo aver sbrigato le faccende di casa. Guardava le prime fiamme nella stufa.
Sentì la chiave girare nella toppa, lo vide entrare, sembrava smagrito.
Giuseppe chiuse la porta alle sue spalle, appoggiò a terra le due valigie e sussurrò come incerto di essere riaccolto, gli occhi intimiditi.
“Ho finito la trasferta, torno a lavorare in sede a Milano”.
Lei non rispose, il viso improvvisamente in fiamme, scattò verso il comò, aprì un cassetto per tirarne fuori il libretto di Giuseppe, parlava frenetica, gesticolando.
“C’è tutto, non ho toccato una lira, anzi ce ne ho messi soldi dei miei. Lavoro, rammendo, stiro per delle signorone e la padrona di un negozio a Montenapoleone mi porta delle stoffe, che io ricucio come abitini da donna, sapessi a che prezzo li mette fuori, ma mi pagano e anche bene...”
Giuseppe s’era avvicinato a lei, le aveva passato un braccio attorno alla vita, con l’altra mano chiudendole dolcemente la bocca: “Sono qui!”
Gli occhi di Alfonsina ridevano.
Era ritornato l’umido profumo dell’autunno, il treno aprì le porte e scese la fiumana stanca della gente, lui aveva già pronte le chiavi dell’auto.
Si stava ancora bene per le strade del lago, lei uscì dal parrucchiere tra la gente.
Marcello era sulla strada per Como, dibattutto sempre più in pensieri inconsueti, improvvisi, mentre l’automobile risuonava lungo le mura del capoluogo comasco.
Lo era ancora mentre risaliva il lago. Pensava alla donna che lo stava aspettando, come da molto tempo era accaduto. Mentre guidava l’idea l’aveva folgorato, improvvisa. Un dilemma oramai inevitabile. Cosa fare? Forse avrebbe potuto spostarsi a stare da lei, per andare a Milano in ferrovia è lo stesso, avrebbero potuto accordarsi su una cifra per potersi sistemare anche lui nella sua casa. Eppure non era questo, forse avrebbe dovuto chiarirselo meglio, applicare le sue capacità di manager per comprendere i suoi sentimenti, per davvero.
“Forse dovrei piantarla lì. Forse mi sto facendo troppo coinvolgere. Forse no. No, non è questione di soldi, lei mi piace, forse il voler vivere con lei sarebbe a dire che vorrei amarla per davvero. Allora mi sono innamorato? Pierangela potrebbe rifiutarmi e così dovrei troncare con lei, smetterla perché se è amore non può essere a pagamento.”
Non sapeva come anche lei fosse irrequieta mentre girava per le botteghe a fare la spesa per il suo arrivo. Da quando aveva smesso il mestiere c’era stato soltanto Marcello, ma non capiva più che storia fosse. Un cliente ormai diventato troppo
stretto, troppo impegnativo, che le impediva forse di tornare libera alle sue cose, senza più uomini. Smetterla con lui? Allora, perché si stava affannando in cucina, per preparargli qualche “pietanzina”, per gioire nel vederlo contento.
Forse era diverso, forse era il caso di guardare dentro le sue stesse ansie, le sue paure.
“Sì, mi sto innamorando, forse l’amore è proprio questo, forse dovrei chiedergli di venire a vivere con me. Sarebbe un rischio, potrebbe meravigliarsi, andarsene per sempre. Perdendolo, credo ne soffrirei, io non voglio più soffrire, non me lo merito. Allora sarebbe meglio lasciare le cose come stanno ora. Lui è solo un cliente, ma è davvero così? Ora non lo so più.”
Le candele sulla tavola apparecchiata a festa erano accese, le fiammelle tremolavano come i pensieri in tumulto e i dubbi di Marcello e di Pierangela.
Lo vide parcheggiare l’auto al solito posto, chiudere a chiave la portiera.
Lasciò cadere la tendina di pizzo che teneva scostata e si avviò per aprirgli la porta.
Solo un attimo ancora, il suono del campanello.
I loro sguardi si incrociarono in un perplesso sorriso.
No, non sarebbe stata una serata come le altre.
49-continua
di franco hf cavaleri
Racconto romantico: due coppie
§ Giuseppe e Alfonsina
Ebbe un soprassalto nello scorgere la figuretta che camminava a fianco dei binari, sembrava proprio lei nel chiaroscuro lattiginoso della serata autunnale.
L’aveva cercata invano sul solito tram che lo riportava a casa dopo il lavoro. Come le altre volte avrebbe desiderato osservarla, come sempre di nascosto, conquistato dal sorriso giovane e allegro di lei, incapace di rivolgerle un cenno, una parola.
Sì, cosa ti aspettavi, povero Giuseppe.
Appena appena la guardavi, sbirciando di nascosto il viso risplendente di lei, che pure ti accendeva ogni volta l’anima.
Non puoi aver dimenticato di come eri lesto a sfuggire il suo, di sguardo, non appena l’avessi incrociato, affascinato da lei senza una sola speranza di colmare lo spazio fisico, che vi separava nel lento sferragliare lungo i viali di Milano.
Sì, Giuseppe. Stavolta lei non c’è.
Così torna al tuo posto, chi vuoi che faccia caso proprio a te.
Potresti anche non presentarti al lavoro, passeresti inosservato lì, come nella tua spoglia vita di tutti i giorni. Da vero “travet”, nessuno scommetterebbe su di te un solo ghello, guardati come sei dimesso nell’aspetto, pauroso non solo nell’affrontare, ma anche semplicemente di parlare con la gente.
Nessuno sa vedere oltre la tua apparenza di “mezze maniche”.
Forse tu stesso hai dimenticato quanta forza di volontà tu avessi avuto e quanti sacrifici tu fossi stato capace di compiere, il primo della tua famiglia a continuare negli studi superiori, addirittura fino al diploma.
Forse non ricordi più, nella povertà della tua gente, dei molti libri che chiedevi in prestito ora a uno, ora all’altro dei tuoi compagni, per poter studiare la sera, per sperare di essere anche tu “uno studente”.
Ora ti lasci vivere giorno dopo giorno, con il tuo piccolo mondo racchiuso nella camera ammobiliata, che ti ha affittato per bisogno una vedova.
Camminava stancamente lungo la stretta direttrice del tram, le guance in fiamme, le lacrime mescolate alle goccioline della prima bruma meneghina.
La sua gioia di vivere si era come frantumata poche ore prima, quando era stata chiamata negli uffici per sentirsi dire che era licenziata dal lavoro, da quel direttore impassibile e freddo, inappuntabile e indifferente.
Lasciata a casa senza una colpa, neanche una spiegazione nel ricevere in mano un foglio di carta che rendeva di botto incerto il suo futuro.
Pensavi forse di essere furba, povera Alfonsina. Credevi che il tuo essere sempre allegra, sempre benvoluta dalle tue compagne, ti desse il diritto di fare la sfrontata con la capoturno. Che importanza può avere il fatto che tu -semplice operaia- avessi ragione, quanto sarebbe stato meglio se avessi tenuto la tua lingua a posto, se fossi stata più “disciplinata” sul tuo lavoro.
Eppure tu hai sempre sorriso alla vita con la tua gioia, le tue esuberanze sempre ricambiate dagli altri, almeno così credevi. Non ti mancava niente, un buon lavoro, l’appartamentino nella grande casa di ringhiera, che ti avevano lasciato mamma e papà, tanti vicini di casa, che ti hanno visto crescere. Tutto finito. Lo spasmo della disperazione ti ha ora reso il volto come una specie di ghigno, hai ben compreso come tu debba prepararti a giorni difficili.
Meglio andare a piedi, lungo i binari, risparmiare anche solo il costo del biglietto, con un gelo dentro, atroce come i primi freddi.
La pugnalata più forte l’avevi ricevuta vicino alle Nord, alla Bovisa, quando avevi incrociato l’uomo che ti aveva messo sulla strada, avresti voluto forse implorarlo lì per lì di farti riprendere in ditta, ma ti eri bloccata nel capire come lui neanche ti avesse riconosciuto nel passarti accanto.
A casa ci sei arrivata con il buio. Sei entrata, neanche hai acceso la luce, ti sei appoggiata alla porta e ripreso a piangere, le mani rigide a tormentare le tempie.
§ Marcello e Pierangela
Dal finestrino appannato scorgeva l’ovatta esterna della nebbia.
Come sempre, quell’autunno, come in tutte le stagioni passate nel tornare a casa dopo il lavoro, gli occhi assopiti per il caldo del vagone e la sopraggiunta stanchezza della levataccia mattutina. Sapeva come a Malnate il muro di nebbia sparisse d’un botto, con la strada fino a Varese che si staglia nitida e netta.
Un lavoro importante a Milano, vita da pendolare. Non che gli pesasse la mescolanza con impiegati e operai.
Era abituato a tagliare fuori tutto quello che non fosse lavoro. Non faceva più caso agli sguardi di considerazione -tra il rispetto e la curiosità- degli altri.
Un uomo elegante, un uomo misterioso che fendeva la vita comune senza esserne toccato. Né interessato. Aveva sentimenti?
E’ per questo che tu saprai tramutare il contrattempo in una occasione, una distrazione che in altri avrebbe creato chissà che panico. Semplicemente eri salito a Cadorna sulla carrozza sbagliata del treno: eppure lo sapevi che era a doppia destinazione. Le carrozze insieme per Varese e per Como, che venivano separate una volta raggiunta la stazione di Saronno.
Se solo il controllore…ma sì, distinto come sei non avrà voluto disturbare il tuo pisolino. Appena un attimo di stizza nel ritrovarti nella città lariana, poi ti sei organizzato, avresti passato la nottata a Como, un albergo, una buona cena e dopo due passi sul lungolago, forse con una qualche “signorina”. In fondo è come per il viaggetto che qualche volta ti concedi, ogni tanto in questi anni di brillante carriera stacchi la spina per un fine settimana lontano da casa.
Vivere da solo non ti pesa, ci sei abituato. Ci stai bene oggi come ai tempi di scuola. Pochi rapporti, nessuna vera amicizia. Con le ragazze poi.
Chissà, forse ti facevano paura e forse non ti interessavano, o semplicemente non avevi voglia di avere una “storia”. Ti bastava cercarne una ogni tanto, di quelle donne già fatte, disposte a darti quello che ti serve, quel che ti basta.
Semplice e tranquillo, nessuna complicazione, nessuna distrazione prima sulla strada dei tuoi studi e poi nel lavoro subito trovato, importante.
Oggi, a quarant’anni, stai bene così. Cambiare? Perché?
Trent’anni e qualche mese. Cominciava a lavorare di meno, per quanto lei si tenesse con cura il tempo le era contro. Più di dieci anni di mestiere.
Non che avesse di che lamentarsi, come quelle disgraziate messe sul marciapiede a forza di botte e costrette a tutto pur di non far incarognire il protettore.
Il lungolago sulle belle acque del Lario è pieno di luci, il clima tutto sommato accettabile. Puoi passeggiare tranquilla, come ogni sera.
Vivere da sola non ti pesa, ci sei abituata, hai anche la tua villetta con i tuoi mobili, i tuoi quadri e i tappeti, gli oggettini cercati uno a uno: il tuo rifugio, dove rinchiudere il tuo vero mondo, nasconderlo agli altri.
Il mestiere non lo fai perché ti piacciano troppo gli uomini, sei libera, e non hai nessuno che ti costringa.
Senza amore e senza odio, così ti guadagni da vivere.
Pensare che quand’eri a scuola tu apparivi magnifica e inavvicinabile, una vera e propria icona di fredda bellezza, vanamente divorata dagli occhi di tutti i maschi. Ancora oggi con te perdono l’occasione quei tuoi vecchi compagni di scuola, che vengono a cercarti. Sperano con il darti del denaro in chissà cosa, per non trovare dalla tua indifferenza rivincita alcuna.
Oggi, a trent’anni, è svaporata la follia improvvisa che nell’anno degli esami per la maturità ti accese quell’uomo di fuori, prima di scomparire.
Scesa dall’altare dei sogni, la tua anima e il tuo corpo ti appartengono, per nulla scalfiti dal denaro, per il quale solamente tu concedi pochi attimi di illusione.
§ Incontri
Faceva ben freddo quella sera d’inverno e Giuseppe non vedeva l’ora di arrivare nella solita latteria lungo i Navigli, dove avrebbe consumato il suo abituale pasto caldo, l’unico della giornata, prima di raggiungere casa.
Un saluto educato e formale da rivolgere alla padrona e poi subito in camera.
Comprese che fosse proprio lei, subito, non appena ebbe individuato la figura della ragazza contro la vetrina illuminata della latteria. Le si avvicinò.
Sentì la sua voce parlare; “Scusi, sa, è da un bel po’ che non la vedo sul tram.”
Bravo, Giuseppe. Hai raccolto a piene mani tutto il coraggio che avresti potuto raggranellare, ben sapendo di una occasione forse unica.
Alfonsina si era voltata, lo aveva riconosciuto come quell’uomo silenzioso che incontrava la sera dopo il lavoro, di quando il lavoro c’era. Sussurrò.
“Ho cambiato posto, mi sono trasferita.”
Aveva uno sguardo di fame.
“Come mai sta qui davanti, al freddo?”
“Sono una stupida… ho dimenticato a casa il borsellino, non posso fare spesa.”
Giuseppe non era più lui, con una forza, di cui non si sapeva capace, la fece entrare, la obbligò a comprare la bottiglia di latte, il pane, un boccone di formaggio, pagando lui stesso, con un quieto sorriso.
Non poté convincerla a mangiare insieme.
“Glieli renderò, le porterò i soldi subito, già domani.” Si allontanò di fretta.
Nei giorni a venire, Giuseppe non la ritrovò più.
Era cominciato quella notte d’autunno. Un incontro occasionale, uno dei tanti possibili. Ora lo aspettava, come ogni venerdi sera da qualche tempo.
Come un silente e disincantato appuntamento.
Anche se la cosa sembrava finita lì, il primo in riva al lago non era stato per Marcello e Pierangela un incontro come tutti gli altri, meccanico e impersonale.
Non che ci fosse stato un “qualcosa” di preciso, ma era come se si fossero accorti l’una dell’altro: un avvertire indistinto, un confuso esistere reciproco.
Probabilmente destinato a svanire.
Senza volerlo, senza saperlo lui era tornato qualche settimana dopo, non gli sarebbe dispiaciuto ritrovare quella ragazza, perché no? Lei lo aveva individuato subito, un lontano e piacevole desiderio d’essere ingaggiata.
Era diventata un’abitudine.
Man mano che si andava verso la primavera, all’imbrunire del venerdi sempre più spesso lo vedeva arrivare, con gli occhi cercandola.
Lei s’era accorta di rifiutare quelle sere gli altri uomini.
Lui aveva deciso che quella donna fosse preferibile alle altre.
§ Vita
Porta Romana, Porta Romana… ci son le ragazzine che te la danno, prima la buonasera e poi la mano…e 7 7 7 fa la Volante…
Quante volte Giuseppe s’era dato dello scemo, ma era più forte di lui.
Sarebbe bastato fare due versi alla vedova che lo teneva a pigione, si sarebbe sistemato, non è che lei non glielo avesse fatto, dignitosamente, intendere.
Avrebbe attaccato il cappello e anche risparmiato su quella faccenda della spesuccia mensile, che gli risolveva quel tale “bisogno igienico”.
Solitamente attendeva gli ultimi giorni, poco prima della stringata mesata che le maestranze portavano a casa.
Era il momento in cui alcune, per far quadrare i conti di casa, toglievano il grembiule e scendevano in strada a fare alternativa alle altre del mestiere.
Proprio quelle erano le sue preferite, non belle, spesso rustiche, ma sapevano di casa.
Esattamente ciò cui Giuseppe teneva.
Alfonsina era lì, sul marciapiede.
Gli sembrò di impazzire. La strinse per il polso, la strascinò da una parte: “disgraziata, disgraziata”. La guardava senza più capire.
Si irridigì alle parole stridule di Alfonsina.
“Ma la fame, ma tu lo sai cos’è la fame?”
Fece il gesto di schiaffeggiarla.
“Dimmi dov’è casa tua, che ti ci porto.”
Così fece, senza più una parola tra i denti serrati, artigliando il suo polso illividito.
Sbattè la porta alle loro spalle, la spinse sul letto.
Nello scuro della camera lei si lasciò prendere dalla cattiveria di lui, dalla sua rabbia atroce che pian piano andò smorzandosi in un ritmo dolcemente condiviso.
Come Alfonsina leggeva un tempo nei romanzetti rosa comperati all’edicola, si addormentarono abbracciati, accettandosi l’un l’altra .
Lago di Como, storia e monumenti, grandi ville del passato, bellezze fiorite e altre nascoste, forse scoperte solo dai drappelli dei turisti stranieri, quieta provincia dove il vivere può essere gradevole a chi ci abita.
La riviera lariana cominciava a fiorire, quando Pierangela -quasi a bruciapelo, neanche se n’era accorta di quel che andava dicendo- si sentì di proporre a Marcello: “se vuoi, a casa mia staremmo più comodi.”
Non passò molto tempo quando lui le chiese -pagando, naturalmente- di passare la notte insieme, nella comoda villetta alle spalle del lungolago.
Fu così che si vide una nuova coppia vivere per il lago, il fine settimana, tutti i fine settimana da venerdi a domenica sera, a lunedi mattina.
Marcello e Pierangela parlavano poco, per lo più qualche sguardo a confermare una vicinanza fisica, un confuso star bene che ripagava entrambi dell’altra vita, della routine dei giorni di lavoro.
A passeggio tra i turisti, qualche escursione in motonave, nei ristorantini meno in vista ma più buoni, qualche acquisto nei negozi più di classe, fino a quando non si ritiravano da lei. A casa.
Alfonsina dormiva ancora, quando Giuseppe si era svegliato all’ora solita, dando uno sguardo alla camera fredda e spoglia, ai segni inequivocabili del bisogno e capì, soffrendo per lei. Uscì svelto.
Quando lei si risvegliò, c’era tepore. Giuseppe aveva comprato del carbone e aveva rimesso in funzione la vecchia stufa Argo, sul tavolo aveva lasciato del pane e del formaggio, due bottiglie di latte erano al fresco sul davanzale.
Dire che la buona vedova fosse attonita, è dire poco.
Sconcertata nel vedersi frantumata la speranza di trovare in quel brav’uomo il compagno, di cui aveva necessità. Giuseppe aveva in fretta e furia radunato le sue poche cose, aveva pagato un mese di pigione ed era andato via sfarfugliando parole di incomprensibile spiegazione.
La decisione di vivere con Alfonsina era stata presa, neanche per un attimo aveva pensato di chiederlo alla ragazza. Era scontato per questo Giuseppe ritrovatosi determinato, tornato padrone assoluto del suo vivere.
Nella casa di ringhiera non ci furono problemi. Per chi sta nel bisogno una certa morale, moralismo da ben pensanti, può anche essere un lusso.
La nuova coppia fu accettata dai vicini e specialmente dalle donne, così semplicemente, anzi con il sollievo di vedere comunque sistemata quella poveretta, alla quale vogliono bene, che conoscono dalla nascita. Solo una beghina andò a tormentare il parroco in sacrestia per i due che vivevano nel peccato. Il vecchio prete lasciò che parlasse, la congedò in qualche modo, poi strinse sconsolato le spalle, ne aveva viste tante nei suoi molti anni di sacerdozio, se quella poveretta aveva trovato un po’ di fortuna, al diavolo le brave donne sempre pronte a ritagliare i panni, andò a cercare il suo Libro per rileggersi il detto della pagliuzza e della trave negli occhi.
§ Amori
Caldo umido a Milano, il soffoco spinge la gente a scappare fuori.
Siccome di soldi ne girano pochi, chi può, manda i figli in colonia, poi spera almeno la domenica di fare un giretto in collina o ai laghi, scampagnata illusoria di buon vivere in attesa del lunedì.
Giuseppe era come rinato, rifiorito nel sentirsi accanto alla ritrovata gioia di vivere della sua donna, di Alfonsina. Sapeva e davvero si sentiva d’essere importante, almeno per quella sua ragazza, che gli aveva rischiarato l’esistenza, che gli dimostrava di averlo accettato per com’era, che lo voleva accanto e non per interesse.
Quella domenica mattina Giuseppe, così stranamente taciturno la sera prima, se ne uscì: “forza, andiamo in gita al lago, prendiamo il treno per Como.”
Era una bella giornata, serena e appena ventilata. Avevano sorpassato la canottieri e la vela, ammirando gli idrovolanti nell’hangar. Stavano mangiando dei panini su una panchina a lago, quando Alfonsina si drizzò, guardando verso una coppietta sottobraccio che si stava avvicinando.
Riconobbe lui, il direttore che l’aveva licenziata, sempre elegante, sempre inappuntabile, con una bella donna, degna di lui.
Si irrigidì solo un attimo, giusto il tempo di realizzare che non provava più dolore nel ricordare quei giorni, ora così distanti. Si accostò a Giuseppe e gli diede una spintarella spalla a spalla. Poi tornò al suo boccone, ridendo all’acqua.
Anche Marcello aveva per un attimo prestato attenzione alla panchina con quella coppietta dimessa e nello stesso tempo piena di serenità.
Gli sembrava di aver visto la ragazza da qualche parte, chissà dove.
Continuarono la loro passeggiata.
Accanto a lui Pierangela era al solito tranquilla. Stava pensando a come ormai da qualche settimana avesse lasciato il mestiere, soldi in banca a garantirle il futuro ne aveva, solo desiderando di godersi casa, il suo rifugio.
Avrebbe tenuto soltanto lui, non avrebbe troncato il rapporto con Marcello.
Non gli aveva detto nulla di questa sua decisione.
A sera Alfonsina e Giuseppe erano rientrati a Milano: “devo parlarti.”
“Da settimana prossima mi hanno comandato in trasferta al centro Italia, devo andarci”. “No, non fare quella faccia. Non ti preoccupare, ti manderò lo stipendio, guarda, ti lascio il mio libretto della posta, usalo e non farti mancare nulla. Saranno solo poche settimane.”
Quella notte Alfonsina gli si strinse contro trattenendo il pianto, come per un’ultima volta. Come non dovesse più vederlo.
§ L’anno che è passato
Era ritornato l’umido profumo dell’autunno, Alfonsina si era appena seduta dopo aver sbrigato le faccende di casa. Guardava le prime fiamme nella stufa.
Sentì la chiave girare nella toppa, lo vide entrare, sembrava smagrito.
Giuseppe chiuse la porta alle sue spalle, appoggiò a terra le due valigie e sussurrò come incerto di essere riaccolto, gli occhi intimiditi.
“Ho finito la trasferta, torno a lavorare in sede a Milano”.
Lei non rispose, il viso improvvisamente in fiamme, scattò verso il comò, aprì un cassetto per tirarne fuori il libretto di Giuseppe, parlava frenetica, gesticolando.
“C’è tutto, non ho toccato una lira, anzi ce ne ho messi soldi dei miei. Lavoro, rammendo, stiro per delle signorone e la padrona di un negozio a Montenapoleone mi porta delle stoffe, che io ricucio come abitini da donna, sapessi a che prezzo li mette fuori, ma mi pagano e anche bene...”
Giuseppe s’era avvicinato a lei, le aveva passato un braccio attorno alla vita, con l’altra mano chiudendole dolcemente la bocca: “Sono qui!”
Gli occhi di Alfonsina ridevano.
Era ritornato l’umido profumo dell’autunno, il treno aprì le porte e scese la fiumana stanca della gente, lui aveva già pronte le chiavi dell’auto.
Si stava ancora bene per le strade del lago, lei uscì dal parrucchiere tra la gente.
Marcello era sulla strada per Como, dibattutto sempre più in pensieri inconsueti, improvvisi, mentre l’automobile risuonava lungo le mura del capoluogo comasco.
Lo era ancora mentre risaliva il lago. Pensava alla donna che lo stava aspettando, come da molto tempo era accaduto. Mentre guidava l’idea l’aveva folgorato, improvvisa. Un dilemma oramai inevitabile. Cosa fare? Forse avrebbe potuto spostarsi a stare da lei, per andare a Milano in ferrovia è lo stesso, avrebbero potuto accordarsi su una cifra per potersi sistemare anche lui nella sua casa. Eppure non era questo, forse avrebbe dovuto chiarirselo meglio, applicare le sue capacità di manager per comprendere i suoi sentimenti, per davvero.
“Forse dovrei piantarla lì. Forse mi sto facendo troppo coinvolgere. Forse no. No, non è questione di soldi, lei mi piace, forse il voler vivere con lei sarebbe a dire che vorrei amarla per davvero. Allora mi sono innamorato? Pierangela potrebbe rifiutarmi e così dovrei troncare con lei, smetterla perché se è amore non può essere a pagamento.”
Non sapeva come anche lei fosse irrequieta mentre girava per le botteghe a fare la spesa per il suo arrivo. Da quando aveva smesso il mestiere c’era stato soltanto Marcello, ma non capiva più che storia fosse. Un cliente ormai diventato troppo
stretto, troppo impegnativo, che le impediva forse di tornare libera alle sue cose, senza più uomini. Smetterla con lui? Allora, perché si stava affannando in cucina, per preparargli qualche “pietanzina”, per gioire nel vederlo contento.
Forse era diverso, forse era il caso di guardare dentro le sue stesse ansie, le sue paure.
“Sì, mi sto innamorando, forse l’amore è proprio questo, forse dovrei chiedergli di venire a vivere con me. Sarebbe un rischio, potrebbe meravigliarsi, andarsene per sempre. Perdendolo, credo ne soffrirei, io non voglio più soffrire, non me lo merito. Allora sarebbe meglio lasciare le cose come stanno ora. Lui è solo un cliente, ma è davvero così? Ora non lo so più.”
Le candele sulla tavola apparecchiata a festa erano accese, le fiammelle tremolavano come i pensieri in tumulto e i dubbi di Marcello e di Pierangela.
Lo vide parcheggiare l’auto al solito posto, chiudere a chiave la portiera.
Lasciò cadere la tendina di pizzo che teneva scostata e si avviò per aprirgli la porta.
Solo un attimo ancora, il suono del campanello.
I loro sguardi si incrociarono in un perplesso sorriso.
No, non sarebbe stata una serata come le altre.
49-continua
Vitasnella Cantù-Cimberio Varese:84-68
foto carlozanzi
Insomma, non si fa in tempo a gioire un po' (domenica scorsa) per una vittoria Cimberio, che subito torna la malinconia. Del resto vincere con Cantù, fuori casa, era un sogno: troppo il divario, e al termine del match lo stesso coach Bizzozi lo ha ammesso. Varese senza Clark (ormai fuori squadra) e senza nemmeno il lungo Presidente Linton Jonhson cosa poteva pretendere? Di perdere con meno margine. Ma forse il dato più negativo non è la sconfitta (prevedibile) ma la pessima prestazione del play De Nik e di PolonAir, che tanto erano stati bravi nell'ultimo match. 1 punto a testa, non di più, con percentuali disastrose nel tiro. La cronaca è presto scritta: inizio promettente, con un grande Scekic e Banks che segna, ma già sul finire del 2° quarto Cantù mette paura e la nostra mano trema: 35 a 26 a metà gara. Si riprende e noi prendiamo a malapena il ferro, percentuali di tiro sconsolanti. Si salvano Scekic, Sakota costretto a fare il pivot che prende un po' di rimbalzi e confeziona qualche punto, Ere e il solito Banks: chiuso. E chiusa anche la partita. No problem per la salvezza, addio definitivo ai play-off.
Forza Varese!
Insomma, non si fa in tempo a gioire un po' (domenica scorsa) per una vittoria Cimberio, che subito torna la malinconia. Del resto vincere con Cantù, fuori casa, era un sogno: troppo il divario, e al termine del match lo stesso coach Bizzozi lo ha ammesso. Varese senza Clark (ormai fuori squadra) e senza nemmeno il lungo Presidente Linton Jonhson cosa poteva pretendere? Di perdere con meno margine. Ma forse il dato più negativo non è la sconfitta (prevedibile) ma la pessima prestazione del play De Nik e di PolonAir, che tanto erano stati bravi nell'ultimo match. 1 punto a testa, non di più, con percentuali disastrose nel tiro. La cronaca è presto scritta: inizio promettente, con un grande Scekic e Banks che segna, ma già sul finire del 2° quarto Cantù mette paura e la nostra mano trema: 35 a 26 a metà gara. Si riprende e noi prendiamo a malapena il ferro, percentuali di tiro sconsolanti. Si salvano Scekic, Sakota costretto a fare il pivot che prende un po' di rimbalzi e confeziona qualche punto, Ere e il solito Banks: chiuso. E chiusa anche la partita. No problem per la salvezza, addio definitivo ai play-off.
Forza Varese!
Il carro di Paolo
foto carlozanzi
Siamo in piena quaresima. Oggi domenica del cieco nato, un brano di Vangelo che amo..."Quello andò, si lavò e tornò che ci vedeva..." e poi crede in Gesù, bella forza, era cieco e Lui gli ha regalato la vista!...Già, ma Lui dice: "Beati quelli che, pur non avendo visto, crederanno." Preferirei non essere beato e vedere...Lunga premessa per dire che è quaresima ma torno un attimo al Carnevale bosino, perché devo questa immagine al mio amico Paolo, uno di coloro che più si è dato da fare per realizzare il carro di Avigno, con immagini da Harry Potter. Ci è rimasto un po' male perché quel carro non è stato premiato, "L'unico carro che si muoveva" mi ha detto. In effetti per far girare i due personaggi ci deve aver messo tutta la sua abilità meccanica. Ecco almeno una foto del carro, a lui dedicata.
Siamo in piena quaresima. Oggi domenica del cieco nato, un brano di Vangelo che amo..."Quello andò, si lavò e tornò che ci vedeva..." e poi crede in Gesù, bella forza, era cieco e Lui gli ha regalato la vista!...Già, ma Lui dice: "Beati quelli che, pur non avendo visto, crederanno." Preferirei non essere beato e vedere...Lunga premessa per dire che è quaresima ma torno un attimo al Carnevale bosino, perché devo questa immagine al mio amico Paolo, uno di coloro che più si è dato da fare per realizzare il carro di Avigno, con immagini da Harry Potter. Ci è rimasto un po' male perché quel carro non è stato premiato, "L'unico carro che si muoveva" mi ha detto. In effetti per far girare i due personaggi ci deve aver messo tutta la sua abilità meccanica. Ecco almeno una foto del carro, a lui dedicata.
sabato 29 marzo 2014
Ho già i biglietti
Mercoledì 2 aprile, alle ore 21, al Teatro 'Apollonio' di Varese, prima nazionale del film 'Il pretore', diretto da Giulio Base, tratto dal romanzo di Piero Chiara 'Il pretore di Cuvio', forse il romanzo di Chiara che preferisco. Fra gli interpreti la brava Sarah Maestri, attrice luinese che ha fortemente voluto questo film, ha addirittura fondato una casa cinematografica e ha fatto il diavolo a quattro, riuscendo nel suo intento. Una piccola-grande donna volitiva, che ho avuto il piacere di conoscere. Una donna che ha sofferto, quindi ha una marcia in più. E io mi sono già procurato il coupon gratuito di ingresso (vedi foto). Anche voi potete farlo, recandovi da oggi al Teatro a ritirarlo. Ma fate presto, andranno a ruba!
Vidoleggiamo 2014 con il poster di Sten
foto carlozanzi
Lunedì 31 marzo, alle ore 11, alla Vidoletti di via Manin si aprirà ufficialmente l'edizione 2014 (la sesta) di VIDOLEGGIAMO, una settimana dedicata ai libri, alla lettura, alla scrittura, all'arte. Coinvolta la media Vidoletti e le quattro scuole elementari 'Canetta', 'Settembrini', 'Galilei' e 'Locatelli'. Conclusione in grande stile sabato 5 aprile, con la SERATA DEI TALENTI e il musical 'True love'. Per l'occasione il giovane writer varesino Luca Barachetti detto Sten (scoperto dal prof. di disegno della Vidoletti Salvatore Cuzzupè) ha realizzato un poster in palestra con la scritta Star.
Vi terremo aggiornati su questo evento.
Lunedì 31 marzo, alle ore 11, alla Vidoletti di via Manin si aprirà ufficialmente l'edizione 2014 (la sesta) di VIDOLEGGIAMO, una settimana dedicata ai libri, alla lettura, alla scrittura, all'arte. Coinvolta la media Vidoletti e le quattro scuole elementari 'Canetta', 'Settembrini', 'Galilei' e 'Locatelli'. Conclusione in grande stile sabato 5 aprile, con la SERATA DEI TALENTI e il musical 'True love'. Per l'occasione il giovane writer varesino Luca Barachetti detto Sten (scoperto dal prof. di disegno della Vidoletti Salvatore Cuzzupè) ha realizzato un poster in palestra con la scritta Star.
Vi terremo aggiornati su questo evento.
Rondini
Sono questi per Varese i giorni giusti, fine marzo, inizi aprile. Guardate il cielo. Soprattutto la sera, verso le diciannove, nelle giornate serene. Vedrete le prime rondini. In genere due, tre, le avanguardie. Poi arriverà il gruppo. Direte: ma chi se ne frega delle rondini, con i problemi che abbiamo. In effetti avete ragione anche voi.
Rùndin di carlozanzi
Puntèll da primavera:
ta speci
sura la gesa da Fujèe,
da sira,
dumà mi e ti
i niul e ‘l ciel,
ul su quiétt dul tramùnt;
in umbrìa mi, a vidétt,
sòta, luntan.
E vegnarò incöö, dumàn,
dumàn anmò a che l’ùra;
s’ciòpan i fiùur,
sa scalda l’aria
e valta, puntìn,
te riverèt:
vestì négar,
camiséta bianca da piümm
e vöia da cantà.
Quest’ann al puntéll ga sarò,
e l’ann ca vegn e n’àltar
anmò,
e sèmpar ga sarò, anca alùra,
ti e mi, tutt düü
dent i niul e ‘l su
a cantà insiema
ca sa möör pü.
primavera 2001
Rondine
Appuntamento di primavera:
ti aspetto
sopra la chiesa di Fogliaro,
di sera,
solo io e te
le nuvole e il cielo,
il sole quieto del tramonto;
in ombra io, a vederti,
sotto, lontano.
E verrò oggi, domani,
domani ancora a quell’ora;
scoppiano i fiori,
si scalda l’aria
e alta, puntino,
arriverai:
vestito nero,
camicetta bianca di piume
e voglia di cantare.
Quest’anno all’appuntamento ci sarò,
e l’anno che viene e un altro ancora,
e sempre ci sarò, anche allora,
tu ed io, tutte e due
dentro le nuvole e il sole
a cantare insieme
che non si muore più.
Herbert 48
Herbert
di franco hf cavaleri
Amore grande
§1 La veglia
Lo rassicurò il respiro leggero, a tratti arrochito, di lei che gli dormiva accanto.
Rivide ancora le immagini della donna piangente, bella e discinta, i vestiti strappati con violenza, circondata dalla gente ostile, picchiata, incapace di difendersi.
Una storia che sembrava di molti anni prima.
La calda tranquillità della sua donna gli permise di rilassarsi nel lettone.
Sì, era il consueto sopraggiungere -nel dormiveglia- di pensieri in libertà.
Gli succedeva, ormai spesso, di addormentarsi presto la sera e di chiudere il primo sonno con un tenue risveglio fantasticheggiante, poco prima che albeggiasse.
Sprazzi di storie possibili, diapositive di racconti non raccolti.
A volte erano bastanti per immaginare un inizio e una conclusione.
§2 L’amore
Lo guardava appisolato a ridosso dell’albero, abbracciata con stupore ansimante a lui, forestiero non più estraneo. Gli si rovesciò sopra per prendergli la sigaretta che gli era rimasta accesa tra le dita. Fumarla non sarebbe stata l’unica, impensabile trasgressione per lei, figlia sottomessa di quella chiusa landa del Meridione.
Aveva voglia di sospendere all’infinito quel momento, il bruciante amore clandestino, che li aveva colti all’improvviso, una folgore negli occhi.
Dunque l’amore era questo, esaltante sensazione di star bene, desiderio di stargli vicino, come due anime che si incontrassero, due corpi che si fossero ritrovati.
Niente a che vedere con gli animaleschi, sbrigativi assalti di suo marito.
Non poteva non accadere, con quest’uomo gentile, venuto da fuori a farle scoprire tutto un mondo nuovo, come una amicizia gelosa da nascondere agli altri.
Avevano trovato il tempo per parlare, eppure era stato così strano il loro inizio, quando lui le aveva chiesto di leggergli dei dati su una mappa, mentre lavorava un po’ discosto. Al suo rossore aveva intuito come lei non sapesse leggere, né scrivere.
L’aveva avvicinata e con i suoi modi garbati l’aveva convinta a prendere un libricino, a compitarne i segni in parole. Era diventato un appuntamento.
Lei ricordava bene tutti gli attimi che lui le dedicava, l’universo mai immaginato che le veniva aperto grazie all’istruzione che man mano riceveva. Non poteva non accadere e forse era scritto nelle stelle fin dal loro primo incontrarsi, fatto solamente di sguardi di simpatia e quasi di reciproca comprensione, come per due essenze che vibrando si riconoscessero.
Se a casa avessero saputo di questo suo aprirsi a una vita nuova, al dare confidenza a estranei... Picchiata, sarebbe stato il meno.
Eppure non poteva fare a meno di parlare, apertamente parlare, essendo considerata alla pari, trovando gentilezza in quegli uomini stranieri, di passaggio.
Con quell’uno in particolare.
Nel cantiere aperto sulla montagna per esplorazioni geologiche, a pochi passi dal paese, lei aveva ricevuto l’incarico di preparare da mangiare al personale, solo di mezzogiorno, lasciando vivande per la sera, quando lei non poteva che essere rientrata a casa. Sarebbe altrimenti stata una ferita all’onore della famiglia.
L’onore prima di tutto, ma il vecchio parroco s’era imposto. Avevano bisogno di un po’ di soldi per campare loro tre, il marito disoccupato e semplicemente un perditempo, lei e la suocera affannate a trovare da vivere giorno per giorno.
Era per questo che al capocantiere il prete aveva prospettato la soluzione di una cuoca, quando erano arrivati una mattina, preceduti da un chiacchiericcio a mezzo tra la curiosità e il sospetto, sbirciati da lontano e con il codazzo invadente dei monelli.
Venivano dal nord, a “fare cose strane” per i loro boschi e le loro rocce.
Tutti alti, tutti belli e gentili. Anche lei li aveva scorti, mai immaginando che da lì a poco li avrebbe avuti vicini, compreso quell’uomo verso cui il suo sguardo furtivo s’era diretto ben presto.
§3 La gelosia
Anche suo marito era stato a guardare l’arrivo dei forestieri, con ostilità, come se togliessero proprio a lui quel lavoro che non aveva e che mai era stato a cercare.
Rientrato a casa con il nervoso, s’era scaricato della propria sorda frustrazione con sua moglie, i soliti urlacci accompagnati dai soliti schiaffi da marito-padrone.
Era uno dei “riti” tribali di quella famiglia e di quello sperduto paese, gli uomini fuori e le donne in casa. Quando suo padre era morto, lui aveva voluto liquidare il campo, vivendo del ricavato, finché era durata. Poi era toccato alle due donne di sbarcare il lunario, spigolando per le terre altrui e cercando erbe selvatiche da mettere in pentola.
Intanto lui se ne stava in giro, trascinando pigramente giorni sempre uguali.
Proprio per questo non aveva avuto dubbi il parroco nell’indicare nella giovane donna la persona ideale a far da cuoca in cantiere. Il rifiuto del marito era stato secco, parlava di onore per la moglie, dimenticandosi della propria di reputazione.
Solamente l’intervento della vecchia madre era riuscito a sbloccare quel no, facendogli tra l’altro intendere l’importanza dei soldi in arrivo.
Per la madre aveva ancora del rispetto, non poté rifiutarsi e per sua moglie s’iniziò l’avventura lavorativa al cantiere, mai sospettando dove ciò l’avrebbe condotta.
Lui aveva ben compreso come con quei soldi avrebbe potuto fare bella vita nel paese, facendo rivalsa della poca e nulla considerazione che vi godeva. Nello stesso tempo cresceva in lui, sfogandola in casa la sera, la rabbia e la gelosia per quel possesso di sua moglie, che avrebbe voluto esclusivo e che stava venendo meno.
Tanto più sorda era la sua ira, quanto più cresceva la personalità di lei, la vedeva gioiosa, si espandeva luminosa per orizzonti di vita che fuori di casa intravvedeva.
Non era estraneo a ciò proprio quel forestiero che l’aveva interpellata quel giorno, chiedendole una cosa forse banale, ma per lei impossibile: leggere.
La gioia di comprendere quei segni, di riprodurli, di comprenderli.
Pian piano si stava svolgendo il quadro tra lei e l’uomo venuto da fuori.
Del cambiamento s’era accorto il marito, tentando di recuperare il suo predominio con il raddoppio delle botte e degli insulti.
Sapeva, l’aveva compreso, che qualcosa stava cambiando in lei, era già cambiato.
Quando la vide rientrare, quel giorno, il viso splendente per l’amore vissuto come per una prima volta, fece in fretta a comprendere il tradimento. L’aggredì.
§4 Il dramma
Il primo colpo al viso la colse di sorpresa, aveva ancora gli occhi accesi d’amore.
Lo sguardo incattivito di lui le diceva che aveva capito.
Sibilò: “sei una zoccola, troia, mi hai fatto cornuto.”
Tentò di negare, sconvolta, il sangue gelato nelle vene: “no, mai! Mai.”
Prese a picchiarla senza più controllo, pugni e calci mentre lei cercava di proteggersi, piangendo mentre continuava a negare.
Lui non sapeva, non voleva più fermarsi, la tenne ferma, le strappò il vestito, la prese per i capelli e la strattonò fuori di casa tra le balze rocciose del paese.
Trascinandola ormai seminuda per le strette vie sconnesse, verso lo slargo che faceva da piazza, urlava richiamando i paesani, stridulo davanti alla folla crescente:
“tutti devono sapere.”
S’era zittita sotto i colpi violenti, il volto tumefatto, il corpo a pezzi, inerte e vuota ascoltava le grida di lui rimbalzare aspre tra le pietre del paese.
Tutti guardavano.
Gli uomini ghignando all’insperata visione delle giovani carni della donna, le altre donne inveendole contro come fosse una donnaccia.
Tra la gente si fece largo il parroco per tentare di salvarla.
Come fosse una sfinge, anche la suocera giunse, senza una parola.
§5 Il colpo di scena
Improvviso, l’urlo acutissimo della giovane donna sovrastò tutti: “no, è menzogna!”
Si era come risvegliata, con le braccia nascondendo il corpo nudo.
Accusò il marito: “disgraziato!” In ginocchio davanti alla suocera muta urlò ancora: “mi voleva puttana, mi comandava di farmi dare i soldi da quelli.”
Poi si alzò in piedi, incurante ora del suo essere nuda, rimase di fronte al marito che le ghignava contro, incredulo per le sorprendenti parole: “giuro davanti a Dio che ho detto la verità, giuro che sono rimasta onesta.”
Poi svenne, mentre lui rideva: “non le crederete a questa qua!”
La suocera si avvicinò lenta al figlio, lo guardò cupa, lo sorprese schiaffeggiandolo.
La mano sulla guancia che brucia, si guardò attorno, vedendo solo volti improvvisamente ostili.
Fuggì urlando, come un pazzo. Come un pazzo lo scansarono tutti.
Si mossero e con i loro scialli le donne vestite di nero nascondono la donna svenuta, la trasportano nella chiesa vicina precedute dal parroco.
Una di loro porta correndo una gonna e un corpetto a rivestire la giovane.
Insieme pregano a lungo.
Come riavendosi, la ragazza si mise uno scialle in testa, gli occhi bassi sottobraccio alla suocera tornò a casa, senza più parlare, mentre gli uomini, ancora vergognandosi, al loro passaggio si toglievano il berretto in segno di ossequioso rispetto.
§6 Il dopo
Qualche mese è passato, i forestieri hanno lasciato il cantiere e il paese, del marito si sono perse le tracce, forse morto buttato in qualche forra. La donna chiede alla suocera di poter trasferirsi al nord entrando, grazie al prete, in un convento.
Si fece in fretta ben volere dalle suore, mai rifiutando d’eseguire un solo lavoro tra i più umili che le venivano richiesti per il mantenimento nel sacro luogo.
Aveva scelto bene, proprio la città che sapeva del forestiero amato.
Fece ricerche, lo rintracciò, poterono parlarsi nelle poche volte che lei usciva per il disbrigo di qualche commissione, con il cuore in gola, con gioia.
§7 L’amore ritrovato
Giunse un giorno la notizia della morte di sua suocera.
Scrisse al parroco di vendere la casa e di tenere il ricavato per le necessità della parrocchia nel provvedere ai poveri del paese.
Uscì dal convento con la piccola valigia, suonò al campanello del suo uomo avendo abbandonato e cancellato la sua vecchia vita e il ricordo sbiadito dei suoi parenti.
Nella sua nuova casa, mentre lui era al lavoro, ricominciò a studiare e a perfezionare il suo essere donna, con l’avidità di un lungo tempo da recuperare.
Fu l’inizio della loro vita di coppia, che li ha portati alla vecchiaia… ora sereni sulle ceneri dimenticate del dramma un tempo vissuto.
§7 L’amore vincente
Questo era dunque accaduto, che una donna qualunque, allevata e cresciuta nella sottomessa accettazione del suo piccolo mondo, questa donna avesse abbattuto, infranto ogni regola della sua società, infischiandosene di qualunque legge.
Avesse, questa donna, avuto la forza di storcere anche il senso di Dio a un suo scopo, fingendo, negando verità, creando falsità.
Avesse questa donna ottenuto ciò che aveva alla fine desiderato: un amore grande.
§8 Il sonno
Sì, tra il sonno e la veglia le immagini sognate avevano questa volta trovato un loro principio e la loro conclusione. Accanto a lui la donna dormiva tranquilla, girata su un fianco verso di lui, avvolta come sempre nei molti anni della loro vita in comune nella camicia da notte con la quale lui l’aveva sempre voluta, osteggiando caparbio la freddezza di un pigiama.
Sentiva ritornare la voglia di sonno.
Spinse pigro la mano tra le gambe della sua donna. Sapeva bene come lei fosse capace di permettergli di continuare, come in un gioco. Oppure di allontanarlo con uno strappo brusco.
Come un gioco, di cui lei era padrona.
Sì, tanti anni insieme.
Era lui a decidere nelle cose di tutti i giorni, il lavoro, i figli, la spesa, gli amici.
Lui a proporre nel letto, a condurre i momenti di passione.
Si volevano bene, vivendo come “incorporati” l’uno con l’altra.
48-continua
di franco hf cavaleri
Amore grande
§1 La veglia
Lo rassicurò il respiro leggero, a tratti arrochito, di lei che gli dormiva accanto.
Rivide ancora le immagini della donna piangente, bella e discinta, i vestiti strappati con violenza, circondata dalla gente ostile, picchiata, incapace di difendersi.
Una storia che sembrava di molti anni prima.
La calda tranquillità della sua donna gli permise di rilassarsi nel lettone.
Sì, era il consueto sopraggiungere -nel dormiveglia- di pensieri in libertà.
Gli succedeva, ormai spesso, di addormentarsi presto la sera e di chiudere il primo sonno con un tenue risveglio fantasticheggiante, poco prima che albeggiasse.
Sprazzi di storie possibili, diapositive di racconti non raccolti.
A volte erano bastanti per immaginare un inizio e una conclusione.
§2 L’amore
Lo guardava appisolato a ridosso dell’albero, abbracciata con stupore ansimante a lui, forestiero non più estraneo. Gli si rovesciò sopra per prendergli la sigaretta che gli era rimasta accesa tra le dita. Fumarla non sarebbe stata l’unica, impensabile trasgressione per lei, figlia sottomessa di quella chiusa landa del Meridione.
Aveva voglia di sospendere all’infinito quel momento, il bruciante amore clandestino, che li aveva colti all’improvviso, una folgore negli occhi.
Dunque l’amore era questo, esaltante sensazione di star bene, desiderio di stargli vicino, come due anime che si incontrassero, due corpi che si fossero ritrovati.
Niente a che vedere con gli animaleschi, sbrigativi assalti di suo marito.
Non poteva non accadere, con quest’uomo gentile, venuto da fuori a farle scoprire tutto un mondo nuovo, come una amicizia gelosa da nascondere agli altri.
Avevano trovato il tempo per parlare, eppure era stato così strano il loro inizio, quando lui le aveva chiesto di leggergli dei dati su una mappa, mentre lavorava un po’ discosto. Al suo rossore aveva intuito come lei non sapesse leggere, né scrivere.
L’aveva avvicinata e con i suoi modi garbati l’aveva convinta a prendere un libricino, a compitarne i segni in parole. Era diventato un appuntamento.
Lei ricordava bene tutti gli attimi che lui le dedicava, l’universo mai immaginato che le veniva aperto grazie all’istruzione che man mano riceveva. Non poteva non accadere e forse era scritto nelle stelle fin dal loro primo incontrarsi, fatto solamente di sguardi di simpatia e quasi di reciproca comprensione, come per due essenze che vibrando si riconoscessero.
Se a casa avessero saputo di questo suo aprirsi a una vita nuova, al dare confidenza a estranei... Picchiata, sarebbe stato il meno.
Eppure non poteva fare a meno di parlare, apertamente parlare, essendo considerata alla pari, trovando gentilezza in quegli uomini stranieri, di passaggio.
Con quell’uno in particolare.
Nel cantiere aperto sulla montagna per esplorazioni geologiche, a pochi passi dal paese, lei aveva ricevuto l’incarico di preparare da mangiare al personale, solo di mezzogiorno, lasciando vivande per la sera, quando lei non poteva che essere rientrata a casa. Sarebbe altrimenti stata una ferita all’onore della famiglia.
L’onore prima di tutto, ma il vecchio parroco s’era imposto. Avevano bisogno di un po’ di soldi per campare loro tre, il marito disoccupato e semplicemente un perditempo, lei e la suocera affannate a trovare da vivere giorno per giorno.
Era per questo che al capocantiere il prete aveva prospettato la soluzione di una cuoca, quando erano arrivati una mattina, preceduti da un chiacchiericcio a mezzo tra la curiosità e il sospetto, sbirciati da lontano e con il codazzo invadente dei monelli.
Venivano dal nord, a “fare cose strane” per i loro boschi e le loro rocce.
Tutti alti, tutti belli e gentili. Anche lei li aveva scorti, mai immaginando che da lì a poco li avrebbe avuti vicini, compreso quell’uomo verso cui il suo sguardo furtivo s’era diretto ben presto.
§3 La gelosia
Anche suo marito era stato a guardare l’arrivo dei forestieri, con ostilità, come se togliessero proprio a lui quel lavoro che non aveva e che mai era stato a cercare.
Rientrato a casa con il nervoso, s’era scaricato della propria sorda frustrazione con sua moglie, i soliti urlacci accompagnati dai soliti schiaffi da marito-padrone.
Era uno dei “riti” tribali di quella famiglia e di quello sperduto paese, gli uomini fuori e le donne in casa. Quando suo padre era morto, lui aveva voluto liquidare il campo, vivendo del ricavato, finché era durata. Poi era toccato alle due donne di sbarcare il lunario, spigolando per le terre altrui e cercando erbe selvatiche da mettere in pentola.
Intanto lui se ne stava in giro, trascinando pigramente giorni sempre uguali.
Proprio per questo non aveva avuto dubbi il parroco nell’indicare nella giovane donna la persona ideale a far da cuoca in cantiere. Il rifiuto del marito era stato secco, parlava di onore per la moglie, dimenticandosi della propria di reputazione.
Solamente l’intervento della vecchia madre era riuscito a sbloccare quel no, facendogli tra l’altro intendere l’importanza dei soldi in arrivo.
Per la madre aveva ancora del rispetto, non poté rifiutarsi e per sua moglie s’iniziò l’avventura lavorativa al cantiere, mai sospettando dove ciò l’avrebbe condotta.
Lui aveva ben compreso come con quei soldi avrebbe potuto fare bella vita nel paese, facendo rivalsa della poca e nulla considerazione che vi godeva. Nello stesso tempo cresceva in lui, sfogandola in casa la sera, la rabbia e la gelosia per quel possesso di sua moglie, che avrebbe voluto esclusivo e che stava venendo meno.
Tanto più sorda era la sua ira, quanto più cresceva la personalità di lei, la vedeva gioiosa, si espandeva luminosa per orizzonti di vita che fuori di casa intravvedeva.
Non era estraneo a ciò proprio quel forestiero che l’aveva interpellata quel giorno, chiedendole una cosa forse banale, ma per lei impossibile: leggere.
La gioia di comprendere quei segni, di riprodurli, di comprenderli.
Pian piano si stava svolgendo il quadro tra lei e l’uomo venuto da fuori.
Del cambiamento s’era accorto il marito, tentando di recuperare il suo predominio con il raddoppio delle botte e degli insulti.
Sapeva, l’aveva compreso, che qualcosa stava cambiando in lei, era già cambiato.
Quando la vide rientrare, quel giorno, il viso splendente per l’amore vissuto come per una prima volta, fece in fretta a comprendere il tradimento. L’aggredì.
§4 Il dramma
Il primo colpo al viso la colse di sorpresa, aveva ancora gli occhi accesi d’amore.
Lo sguardo incattivito di lui le diceva che aveva capito.
Sibilò: “sei una zoccola, troia, mi hai fatto cornuto.”
Tentò di negare, sconvolta, il sangue gelato nelle vene: “no, mai! Mai.”
Prese a picchiarla senza più controllo, pugni e calci mentre lei cercava di proteggersi, piangendo mentre continuava a negare.
Lui non sapeva, non voleva più fermarsi, la tenne ferma, le strappò il vestito, la prese per i capelli e la strattonò fuori di casa tra le balze rocciose del paese.
Trascinandola ormai seminuda per le strette vie sconnesse, verso lo slargo che faceva da piazza, urlava richiamando i paesani, stridulo davanti alla folla crescente:
“tutti devono sapere.”
S’era zittita sotto i colpi violenti, il volto tumefatto, il corpo a pezzi, inerte e vuota ascoltava le grida di lui rimbalzare aspre tra le pietre del paese.
Tutti guardavano.
Gli uomini ghignando all’insperata visione delle giovani carni della donna, le altre donne inveendole contro come fosse una donnaccia.
Tra la gente si fece largo il parroco per tentare di salvarla.
Come fosse una sfinge, anche la suocera giunse, senza una parola.
§5 Il colpo di scena
Improvviso, l’urlo acutissimo della giovane donna sovrastò tutti: “no, è menzogna!”
Si era come risvegliata, con le braccia nascondendo il corpo nudo.
Accusò il marito: “disgraziato!” In ginocchio davanti alla suocera muta urlò ancora: “mi voleva puttana, mi comandava di farmi dare i soldi da quelli.”
Poi si alzò in piedi, incurante ora del suo essere nuda, rimase di fronte al marito che le ghignava contro, incredulo per le sorprendenti parole: “giuro davanti a Dio che ho detto la verità, giuro che sono rimasta onesta.”
Poi svenne, mentre lui rideva: “non le crederete a questa qua!”
La suocera si avvicinò lenta al figlio, lo guardò cupa, lo sorprese schiaffeggiandolo.
La mano sulla guancia che brucia, si guardò attorno, vedendo solo volti improvvisamente ostili.
Fuggì urlando, come un pazzo. Come un pazzo lo scansarono tutti.
Si mossero e con i loro scialli le donne vestite di nero nascondono la donna svenuta, la trasportano nella chiesa vicina precedute dal parroco.
Una di loro porta correndo una gonna e un corpetto a rivestire la giovane.
Insieme pregano a lungo.
Come riavendosi, la ragazza si mise uno scialle in testa, gli occhi bassi sottobraccio alla suocera tornò a casa, senza più parlare, mentre gli uomini, ancora vergognandosi, al loro passaggio si toglievano il berretto in segno di ossequioso rispetto.
§6 Il dopo
Qualche mese è passato, i forestieri hanno lasciato il cantiere e il paese, del marito si sono perse le tracce, forse morto buttato in qualche forra. La donna chiede alla suocera di poter trasferirsi al nord entrando, grazie al prete, in un convento.
Si fece in fretta ben volere dalle suore, mai rifiutando d’eseguire un solo lavoro tra i più umili che le venivano richiesti per il mantenimento nel sacro luogo.
Aveva scelto bene, proprio la città che sapeva del forestiero amato.
Fece ricerche, lo rintracciò, poterono parlarsi nelle poche volte che lei usciva per il disbrigo di qualche commissione, con il cuore in gola, con gioia.
§7 L’amore ritrovato
Giunse un giorno la notizia della morte di sua suocera.
Scrisse al parroco di vendere la casa e di tenere il ricavato per le necessità della parrocchia nel provvedere ai poveri del paese.
Uscì dal convento con la piccola valigia, suonò al campanello del suo uomo avendo abbandonato e cancellato la sua vecchia vita e il ricordo sbiadito dei suoi parenti.
Nella sua nuova casa, mentre lui era al lavoro, ricominciò a studiare e a perfezionare il suo essere donna, con l’avidità di un lungo tempo da recuperare.
Fu l’inizio della loro vita di coppia, che li ha portati alla vecchiaia… ora sereni sulle ceneri dimenticate del dramma un tempo vissuto.
§7 L’amore vincente
Questo era dunque accaduto, che una donna qualunque, allevata e cresciuta nella sottomessa accettazione del suo piccolo mondo, questa donna avesse abbattuto, infranto ogni regola della sua società, infischiandosene di qualunque legge.
Avesse, questa donna, avuto la forza di storcere anche il senso di Dio a un suo scopo, fingendo, negando verità, creando falsità.
Avesse questa donna ottenuto ciò che aveva alla fine desiderato: un amore grande.
§8 Il sonno
Sì, tra il sonno e la veglia le immagini sognate avevano questa volta trovato un loro principio e la loro conclusione. Accanto a lui la donna dormiva tranquilla, girata su un fianco verso di lui, avvolta come sempre nei molti anni della loro vita in comune nella camicia da notte con la quale lui l’aveva sempre voluta, osteggiando caparbio la freddezza di un pigiama.
Sentiva ritornare la voglia di sonno.
Spinse pigro la mano tra le gambe della sua donna. Sapeva bene come lei fosse capace di permettergli di continuare, come in un gioco. Oppure di allontanarlo con uno strappo brusco.
Come un gioco, di cui lei era padrona.
Sì, tanti anni insieme.
Era lui a decidere nelle cose di tutti i giorni, il lavoro, i figli, la spesa, gli amici.
Lui a proporre nel letto, a condurre i momenti di passione.
Si volevano bene, vivendo come “incorporati” l’uno con l’altra.
48-continua
venerdì 28 marzo 2014
Defibrillatore salvavita
Una notizia davvero triste oggi. Un alunno di prima media di una scuola di Solbiate Olona ha avuto un arresto cardiaco durante l'ora di educazione fisica; nonostante l'intervento dei docenti e la chiamata al 118 è stato necessario l'elisoccorso, che ha portato il ragazzo all'Ospedale di Bergamo, dove si trova in gravi condizioni. La notizia naturalmente mi ha scosso, il mio mestiere contempla questi rischi, l'arresto cardiaco non è mai prevedibile. L'articolo che ho letto fa cenno alla mancanza del defibrillatore in quella scuola, quasi fosse la norma averlo. E invece averlo è l'eccezione, non so quante scuole della nostra Provincia ne siano fornite. Con 1.500 euro si può avere un buon defibrillatore, utilizzabile anche da personale non medico. Certo, un minimo di corso ci vuole, anche perché bisogna saper fare il massaggio cardiaco e poi saper utilizzare lo strumento. Ma può salvare una vita.
Brama la distrazione
BRAMA
LA DISTRAZIONE
di carlozanzi
Brama
la distrazione,
allontana
il pensiero pesante,
come
l’alito puzza,
sa
di ciò che saremo
e
non vorremo.
Godi
dell’emozione
di
una vita leggera,
in
compagnia.
Il
pensiero profondo
tocca
il fondo,
zavorra,
non
risali alla vita.
Il
Dio che preghi
sia
la carne che abbracci,
un
bicchiere che allunghi,
una
carezza, un grazie.
28
marzo 2014
giovedì 27 marzo 2014
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