Quattro
26 maggio 2005
Giulio si svegliò.
Al suo fianco Matilde dormiva con un sibilo leggero. Forse avrebbe russato. I
rimasugli del sogno volarono via. Si girò sulla destra, era già chiaro, accese
la luce e guardò la sveglia: le sei. Non era abituato a farlo ma l’eccitazione
di una nuova giornata lo portò in cucina, per la colazione. Il latte si
scaldava, il caffè brontolava, i profumi s’imponevano e lui perse appetito.
Guardava dentro la tazza e non provava piacere.
Volle mangiare
tutto, anche una fetta di pane abbrustolito, burro, marmellata di fichi, tre
biscotti e una lunga scaglia di cioccolato fondente: la intingeva, la
succhiava. Poi s’alzò, si lavò i denti e tornò in camera.
Ora Matilde
russava, a pancia in su, con le gambe allungate e le braccia incrociate sul
petto.
Si sdraiò al suo
fianco. Quel piccolo rantolo lo innervosiva. La toccò dentro, Matilde liberò un
lamento, disse “Scusami” e cambiò fianco. Poi riprese a sibilare.
Guardò la luce
rigata dalla tapparella, guardò l’orologio, cercò di rileggersi il sogno ma
provò una sensazione nuova: gli occhi aperti perdevano l’aggancio delle cose;
se li chiudeva, sentiva il desiderio di aprirli. Si spaventò. Pensò fosse
meglio alzarsi, definitivamente.
***
Andò in sala, avvolse la
tapparella, con rabbia, velocemente, anche se a Matilde questo non garbava.
Aprì la portafinestra e fu sul balcone. Quarto piano di una palazzina che
mostrava lo spettacolo di una città dove si viveva con piacere.
Era tempo buono. Le foglie nuove
dei platani rabbrividivano alla prima brezza. Poche rondini in cielo e nessuno
per strada. Un gatto panciuto, una marmotta urbana, ballonzolò attraversando il
cortile. Poi passò un’auto e poi Giulio fu costretto a rientrare; aveva visto
le foglie, gli uccelli, il gatto e l’auto ma non s’era distratto. Più si
concentrava per riappropriarsi delle sensazioni rassicuranti d’ogni mattina, più
capiva che la sua mente stava altrove: non all’incontro con Lucia. Quell’amore
segreto si stava frantumando, insieme allo sbriciolarsi del sogno.
Tornò dentro e si sedette sul
divano. Davanti a lui un libro, la biografia di Max Pezzali. Tante foto e poco
testo. Volle concentrarsi sullo scritto. Dopo tre parole doveva tornare da
capo, si smarriva fra le righe. Ad ogni andata e ritorno aumentava la pena.
Stava sudando. Sentì salire il battito del cuore, all’improvviso. Richiuse il
libro e lasciò il sudore della mano sul telecomando. La tele s’accese. Abbassò
il volume, per non svegliarla.
Più che le immagini vedeva la sua
faccia riflessa nel vetro dello schermo. Una macchia colorata, scialba,
tremante. Passava i canali come avesse davanti un unico groviglio di persone,
luci, suoni, parole, spari, auto in fiamme, donne svestite che ammiccavano,
giornalisti in giacca e cravatta. Non ricordava nulla: non un concetto né una
sequenza che durasse più di qualche secondo.
Provò a rinfrancarsi con lunghi
respiri, profondi. E un poco il cuore rinsavì.
***
Ora fissava lo
schermo nero del televisore. Non sapeva dove sbattere i minuti di quel mattino
incredibile. Tutta la vita ancora da vivere, oltre i suoi quarantacinque anni,
gli pareva un compimento impossibile.
Per un attimo,
dopo essersi alzato e aver sommato piccoli passi nella sala, pensò che avrebbe
dovuto tornare a letto, abbracciarla, svegliarla, baciarla, stringerla, rubarle
il segreto della sua quiete, parlarle di quel suo nuovo male, e forse anche dei
suoi tradimenti. Raccontarle del sogno, confessarle di Lucia. Ma respirò a
lungo, si sentì meglio, vide il divano e si distese.
Scoprì il colore
del buio. Chiudeva gli occhi per distrarsi, vedeva il nero. Li riapriva, il
cuore pompava forte la sua ansia, doveva richiuderli ma il buio gli regalava
solo nuovi fantasmi. Cominciò a sentire i contorni del suo cervello, una
presenza che pulsava, un senso di oppressione che lo atterrì. I pensieri
sfilacciati si rincorrevano come minuscoli insetti in agitazione.
Provò con un sorso
d’acqua fresca. Andò in bagno, perché la barba era lunga. Fischiettò, persino
cantò le canzoni di Max ma farfugliava le parole, confondeva i testi. Provò coi
numeri di cellulare che aveva memorizzato. Ogni insuccesso era la conferma che
stava smarrendo il controllo del pensiero. Si stava perdendo nel suo mondo,
nella sua casa, davanti allo specchio che lo aveva riprodotto migliaia di
volte, che lo aveva lusingato, soprattutto ora, dopo la scoperta di Lucia.
***
Tornò in camera.
Matilde dormiva ancora, un sonno senza rumore; non poteva sapere nulla di
quella sua alba. La guardò. Ebbe, chiaro, un pensiero lancinante: non avrebbe
sopportato un suo rifiuto di tenerezza. La vide detentrice di un potere enorme.
Ma che ne poteva sapere lei, di lui?
Scappò di casa. Si
vestì con quel che aveva lì davanti, in fretta.
‘Dai, stai calmo,
respira, pensa a domani, oggi lo facciamo passare, e Matilde? Me ne vado e
quando si sveglia? Le lascerò un biglietto; no, la sveglio; ma vedrà che sono
ridotto da far schifo, chiederà, vorrà sapere...Dio, manca l’aria, devo uscire
ma dove vado? A quest’ora?’
Uscì senza dir
nulla a sua moglie, senza una parola scritta. Scappò come lascia di corsa la
strada intrapresa chi s’accorge che l’allontanarsi non è scoperta ma paura, e
così fa ritorno verso la certezza della vita di sempre: la solita casa dove
Matilde russava, dove non lo accarezzava mai e gli ordinava fai questo e fai
quest’altro sapendo che lui non l’avrebbe accontentata perché lei non
accontentava lui, che lui voleva sesso e più lo cercava meno l’avrebbe avuto.
Chi aveva iniziato questo dilettarsi al suicidio di
coppia?
4 - continua
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