EGLI DORME
di carlozanzi
Alle due della
notte fu finalmente silenzio.
“Dorme?”
chiese Mario a Lucia.
“Dorme”
rispose Lucia a Mario.
“Che Dio ce la
mandi buona.” Mario sussurrò quell’augurio per timore che si svegliasse.
“E’ stata
dura” disse Lucia.
“Che gli avrà
preso?”
“Forse i
denti.”
“O mal di
pancia” e Mario scivolò sotto le coperte come una lucertola nel buco del
muro.
“Arrivo” disse
Lucia e andò in bagno a svestirsi.
Mario era
sfinito ma immaginò che Lucia dovesse esserlo ancora di più.
Era andata
così: seguendo i patti, chiari, a lui spettava la prima parte della notte,
dalle nove alla una. Se il piccolo s’addormentava lui avrebbe continuato col
sonno, al quale si sarebbe aggiunto quello di Lucia. Ma in caso di risveglio
nella parte più gustosa della notte spettava a Mario alzarsi per primo,
lasciando a Lucia l’agio del sonno almeno sino alle quattro, cinque del
mattino.
Il rampollo
aveva dormito un paio d’ore e alle dieci aveva deciso di rompere i coglioni,
obbligando Lucia alla pazienza. Svegliando Mario, il neonato gli aveva negato
la sua porzione di primo sonno. Alla una, cambio della guardia. Negli occhi di
Lucia una vorace voglia di dormire, unita al timore che suo marito non sarebbe
stato in grado di domare la piccola fiera; per questo aveva deciso di non
infilarsi la camicia da notte ma di accontentarsi di stendersi sul divano. Più
che fondati i timori della donna, perché Mario aveva retto meno di un’ora,
dando segni di impazienza già ai primi tentativi di calmare il bimbo,
piagnucoloso, singhiozzante, quieto ma un attimo dopo capace di un pianto
ringhioso, una protesta clamorosa contro chi lo aveva messo al mondo.
“Dallo a me”
aveva detto Lucia, quando mancava una quarto d’ora alle due. E in quindici
minuti la mamma era riuscita dove il padre aveva dimostrato poca attitudine.
Lucia
raggiunse Mario nel letto.
“Notte.”
“Notte.”
Respiravano
l’occorrente per non morire soffocati. Si abbracciarono, quasi a volersi
riparare da un pericolo incombente: il risveglio del figlio, nato dopo dieci
anni di matrimonio, tanto atteso quanto, ora, detestato.
“Ma che fai?
Tremi?” chiese Mario a Lucia. “Hai
paura?”
“Tu no?”
“Un po’…ma
tremare…”
“Pareva una
furia.”
“Non
svegliamolo…l’agnellino…”
“Gli tirerei
il collo.”
“Non si
dice….”
“…fanculo…tanto
tocca sempre a me.”
“ssss…zitta….”
e si strinsero ancora di più, sigillandosi in un silenzio senza fiato.
Aveva inteso
bene…era lui. Piccoli singhiozzi come
ripetute, nevrotiche gocce d’acqua giù dalla bocca del rubinetto che perde e
tarla la notte.
“No…dimmi che
non è vero” disse Lucia.
“…zitta…mi
alzo io” e Mario fu felice per quel gesto generoso.
“Senti…vestiamoci….”
“Dici?”
“Non ne posso
più…”
“Ma dai…”
“Non ce la
fai…vestiamoci.”
Era giunta
l’ora dell’auto. L’ultima spiaggia prima del sonnifero, che Lucia e Mario si rifiutavano
di somministrare al bimbo, nonostante le rassicurazioni del pediatra: “Non è
poi così dannoso…e poi quando ci vuole…” Non avevano mai voluto arrivare a
tanto, soprattutto dopo aver scoperto che una passeggiata in auto era il
rimedio estremo, ma efficace, per zittirlo quando tutti gli altri tentativi
erano falliti.
Si vestirono
lasciandolo frignare, senza degnarlo della minima attenzione. Mario scese
in garage e mise in moto la vettura,
Lucia avvolse il figlio in una spessa coperta di lana. L’avrebbe soffocato nel
panno anche perché il bimbo ora strillava, quasi si fosse indispettito perché
lo avevano fatto uscire dal caldo della culla. E un po’ Lucia fu costretta a
tappargli la bocca: i rapporti di buon vicinato la obbligavano a quella modesta
violenza verso il piccolo insonne.
Si chiusero le
portiere con botti rabbiosi. L’auto scivolò leggera nella notte col suo carico
di disperazione. Rampa del garage, via Carlo Poma, semaforo lampeggiante, a
destra per via Giuseppe Garibaldi, largo Duca d’Abruzzo, via Giacomo Leopardi,
svolta a destra per via Gabriele D’Annunzio, ancora a destra e ancora a destra,
ritorno in via Carlo Poma con il completamento della ronda intorno all’isolato.
Dopo un giro il bimbo non piangeva più ma gli occhi sgranati significavano,
forse, che il ciclo del suo sonno si era già esaurito.
“E’ vispo come
un grillo” disse Lucia.
“Non dirmelo”
disse Mario.
Due, tre,
quattro, cinque giri, e ogni giro regalava altra speranza che sigillasse le
palpebre e la finisse di importunare le tenebre. Mario guidava e sbirciava
sulla sua destra, la moglie e il bambino: il piccolo che mollava la presa, la
donna che ammorbidiva la tensione, che distendeva le rughe, che si
riappacificava col mondo. Quando la vide sorridere, capì che il ronzio del motore
era servito non solo a sputare piemmedieci nell’universo.
“Che dici?
Saliamo?” chiese Mario, sfinito.
“L’ultimo
giro” ordinò Lucia.
Fu completato
anche quello, la vettura tornò nel garage e Lucia riprese la via delle scale,
tenendo il fagotto senza tremare.
Mario si svesti, si rivestì del pigiama e corse nel
letto. Si rannicchiò sul fianco destro, si fasciò nelle coperte tenendole
strette contro di sé. Gli parve di sentire un rantolo, mise sotto anche la
testa, incredulo. Nel terrore.
Interpretando
i rumori, capì che Lucia si stava cambiando. Non la attendeva. Voleva solo una
boccata di sonno. L’alba era lì, non avrebbe certo riposato abbastanza per
reggere il giorno.
“Dorme” disse
Lucia.
“Mmmmm”
mugugnò lui.
La donna gli
si incollò addosso, infilò il suo braccio come cintura intorno alla vita di
lui. Il braccio era nudo.
Mario, col
braccio sinistro, andò indietro a toccare. Non si era messa il pigiama.
“Non si
sveglierà” disse lei, con una voce da bimba.
“Mmmmmm”
farfugliò lui.
Silenzio.
Lucia gli
accarezzò l’ombelico, ci girò attorno e scese all’elastico dei pantaloni.
“Mmmmmmm”
soffiò lui, scrollandosi di dosso quella provocazione.
“Ma dormi
sempre….” disse lei, allungando la mano a raccogliere la sottoveste, lasciata a
riposo poco più in là.
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