martedì 18 febbraio 2014

Il racconto del mercoledì




EGLI DORME
di carlozanzi

Alle due della notte fu finalmente silenzio.
“Dorme?” chiese Mario a Lucia.
“Dorme” rispose Lucia a Mario.
“Che Dio ce la mandi buona.” Mario sussurrò quell’augurio per timore che si svegliasse.
“E’ stata dura” disse Lucia.
“Che gli avrà preso?”
“Forse i denti.”
“O mal di pancia” e Mario scivolò sotto le coperte come una lucertola nel buco del muro. 
“Arrivo” disse Lucia e andò in bagno a svestirsi.
Mario era sfinito ma immaginò che Lucia dovesse esserlo ancora di più.
Era andata così: seguendo i patti, chiari, a lui spettava la prima parte della notte, dalle nove alla una. Se il piccolo s’addormentava lui avrebbe continuato col sonno, al quale si sarebbe aggiunto quello di Lucia. Ma in caso di risveglio nella parte più gustosa della notte spettava a Mario alzarsi per primo, lasciando a Lucia l’agio del sonno almeno sino alle quattro, cinque del mattino.
Il rampollo aveva dormito un paio d’ore e alle dieci aveva deciso di rompere i coglioni, obbligando Lucia alla pazienza. Svegliando Mario, il neonato gli aveva negato la sua porzione di primo sonno. Alla una, cambio della guardia. Negli occhi di Lucia una vorace voglia di dormire, unita al timore che suo marito non sarebbe stato in grado di domare la piccola fiera; per questo aveva deciso di non infilarsi la camicia da notte ma di accontentarsi di stendersi sul divano. Più che fondati i timori della donna, perché Mario aveva retto meno di un’ora, dando segni di impazienza già ai primi tentativi di calmare il bimbo, piagnucoloso, singhiozzante, quieto ma un attimo dopo capace di un pianto ringhioso, una protesta clamorosa contro chi lo aveva messo al mondo.
“Dallo a me” aveva detto Lucia, quando mancava una quarto d’ora alle due. E in quindici minuti la mamma era riuscita dove il padre aveva dimostrato poca attitudine.

Lucia raggiunse Mario nel letto.
“Notte.”
“Notte.”
Respiravano l’occorrente per non morire soffocati. Si abbracciarono, quasi a volersi riparare da un pericolo incombente: il risveglio del figlio, nato dopo dieci anni di matrimonio, tanto atteso quanto, ora, detestato.
“Ma che fai? Tremi?” chiese Mario a  Lucia. “Hai paura?” 
“Tu no?”
“Un po’…ma tremare…”
“Pareva una furia.”
“Non svegliamolo…l’agnellino…”
“Gli tirerei il collo.”
“Non si dice….”
“…fanculo…tanto tocca sempre a me.”
“ssss…zitta….” e si strinsero ancora di più, sigillandosi in un silenzio senza fiato.
Aveva inteso bene…era lui.  Piccoli singhiozzi come ripetute, nevrotiche gocce d’acqua giù dalla bocca del rubinetto che perde e tarla la notte.
“No…dimmi che non è vero” disse Lucia.
“…zitta…mi alzo io” e Mario fu felice per quel gesto generoso.
“Senti…vestiamoci….”
“Dici?”
“Non ne posso più…”
“Ma dai…”
“Non ce la fai…vestiamoci.”

Era giunta l’ora dell’auto. L’ultima spiaggia prima del sonnifero, che Lucia e Mario si rifiutavano di somministrare al bimbo, nonostante le rassicurazioni del pediatra: “Non è poi così dannoso…e poi quando ci vuole…” Non avevano mai voluto arrivare a tanto, soprattutto dopo aver scoperto che una passeggiata in auto era il rimedio estremo, ma efficace, per zittirlo quando tutti gli altri tentativi erano falliti.
Si vestirono lasciandolo frignare, senza degnarlo della minima attenzione. Mario scese in  garage e mise in moto la vettura, Lucia avvolse il figlio in una spessa coperta di lana. L’avrebbe soffocato nel panno anche perché il bimbo ora strillava, quasi si fosse indispettito perché lo avevano fatto uscire dal caldo della culla. E un po’ Lucia fu costretta a tappargli la bocca: i rapporti di buon vicinato la obbligavano a quella modesta violenza verso il piccolo insonne.
Si chiusero le portiere con botti rabbiosi. L’auto scivolò leggera nella notte col suo carico di disperazione. Rampa del garage, via Carlo Poma, semaforo lampeggiante, a destra per via Giuseppe Garibaldi, largo Duca d’Abruzzo, via Giacomo Leopardi, svolta a destra per via Gabriele D’Annunzio, ancora a destra e ancora a destra, ritorno in via Carlo Poma con il completamento della ronda intorno all’isolato. Dopo un giro il bimbo non piangeva più ma gli occhi sgranati significavano, forse, che il ciclo del suo sonno si era già esaurito.
“E’ vispo come un grillo” disse Lucia.
“Non dirmelo” disse Mario.
Due, tre, quattro, cinque giri, e ogni giro regalava altra speranza che sigillasse le palpebre e la finisse di importunare le tenebre. Mario guidava e sbirciava sulla sua destra, la moglie e il bambino: il piccolo che mollava la presa, la donna che ammorbidiva la tensione, che distendeva le rughe, che si riappacificava col mondo. Quando la vide sorridere, capì che il ronzio del motore era servito non solo a sputare piemmedieci nell’universo.
“Che dici? Saliamo?” chiese Mario, sfinito.
“L’ultimo giro” ordinò Lucia.
Fu completato anche quello, la vettura tornò nel garage e Lucia riprese la via delle scale, tenendo il fagotto senza tremare.
Mario si svesti, si rivestì del pigiama e corse nel letto. Si rannicchiò sul fianco destro, si fasciò nelle coperte tenendole strette contro di sé. Gli parve di sentire un rantolo, mise sotto anche la testa, incredulo. Nel terrore.
Interpretando i rumori, capì che Lucia si stava cambiando. Non la attendeva. Voleva solo una boccata di sonno. L’alba era lì, non avrebbe certo riposato abbastanza per reggere il giorno.
“Dorme” disse Lucia.
“Mmmmm” mugugnò lui.
La donna gli si incollò addosso, infilò il suo braccio come cintura intorno alla vita di lui. Il braccio era nudo.
Mario, col braccio sinistro, andò indietro a toccare. Non si era messa il pigiama.
“Non si sveglierà” disse lei, con una voce da bimba.
“Mmmmmm” farfugliò lui.
Silenzio.
Lucia gli accarezzò l’ombelico, ci girò attorno e scese all’elastico dei pantaloni.
“Mmmmmmm” soffiò lui, scrollandosi di dosso quella provocazione.
“Ma dormi sempre….” disse lei, allungando la mano a raccogliere la sottoveste, lasciata a riposo poco più in là.  







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