domenica 9 febbraio 2014
Herbert 7
Herbert
di franco hf cavaleri
Finiva di imbrunire quando se ne uscì sotto i loro occhi per una pigra passeggiata.
Le due impiegate lo videro allontanarsi con passo lento oltre la vetrata.
“Ma stavolta è solo? Senza la sua bella mogliettina, non sarà che…”
“Già, è venuto da solo. Ha un’aria così sbattuta.”
“Strano, cosa sarà successo? Sembrava una coppia così affiatata. Ma oggi, chissà.”
“Cosa vuoi che ti dica, di questi tempi si fa in fretta a mollarsi.”
“Se è diventato single, gli sto dietro io…”
“No, bellina mia. Se tu vuoi, prendi il numerino e mettiti in fila.”
Era ormai venuta sera tardi, in quel ristorante Herbert era stato bene a pranzo, aveva voglia di tornarci per la cena e chiudere la chiacchiera con il cameriere.
“Caro Domenico, mi verrebbe voglia di chiedere un bel piatto di baccalà alla fiorentina, ma ho mangiato troppo a pranzo, andiamo con la zuppa di cipolle, vedo che l’avete battezzata con il nome della “carabaccia”, vergogna rubare la ricetta ai nostri vicini francesi.”
Domenico su queste cose non accettava scherzi.
“No, le cose stanno proprio al contrario, sono i francesi con la loro “soupe à l’oignon” che ci hanno copiato. Siamo stati noi a portagliela, la nostra ricetta che è rinascimentale, della cucina dei Medici. Fu la nostra Caterina che, sposando il secondogenito del Re di Francia, se la portò via, insieme con artisti, artigiani e cuochi fiorentini. La ricetta l’è nostra, l’è di Firenze.”
“Allora mangiamocela questa benedetta zuppa, però mi dovrà dare anche la vostra ricetta, siamo d’accordo?”
“Bisogna saperla fare, ci vogliono cipolle rosse, una bella pentola di coccio, della farina tostata, brodo vegetale e parmigiano, con del vero pane toscano, ma che sia abbrustolito a puntino…”
Lo interruppe: “Versare la zuppa guarnendo con mandorle tostate e servire calda, direi di più… caldissima.”
“Ma allora mi vuole scherzare, già la conosceva, non sarà mica della concorrenza?”
“Tranquillo, nella vita faccio tutt’altro, ma a casa mia cucino io e nessuno ha mai avuto da ridire su quello che metto nei piatti. Allora la mangiamo questa benedetta “carabaccia” genuina di Firenze?”
“E la chiuderemo con due cantucci nel vin santo.”
Herbert stava tornando in albergo, fumandosi lungo la strada la vecchia pipa prediletta. Lo scosse la voce rauca della mendicante, la riconobbe, era la vecchia del mattino, accovacciata sul marciapiede.
“Allora, bel signore, lei che ne ha tanti, che mi regala un soldino?”
“Guarda guarda, la nostra vecchiaccia. Cosa ci farai col soldino, te lo berrai?”
“Mi ci voleva proprio, proprio un signorino che mi facesse la predica. Sai che ti dico? Un mi garba punto questa tua superbia. Se vuoi darmi qualcosa, sennò… via!”
Herbert la fissò, lentamente le si sedette accanto, ripulì la pipa battendola sulla pietra.
“Scusami, vecchia. Hai ragione tu. Ma a volte, a volte io e tu e gli altri, si potrebbe cambiare la nostra vita.”
La donna gli rispose, parlava ora come un libro stampato, con sussiego.
“Caro il mio signore, questo va bene per te, io non più. Tu lo sai, la vita che tu dici è come un vaso. Puoi averlo di porcellana o di ceramica, di nobile metallo, così come di terracotta. Dipende dalla sorte, o dalle stelle chissà. Dentro ci sta la tua esistenza: amore, amicizia, famiglia, lavoro, povertà e ricchezza, fede, odio, gioia e dolore, salute o malattia, rabbia o serenità, morte. Un tanto di tutto, o di questo o di quello.
Se sei fortunato, misceli un po’ e la tua vita è piena. Non sempre è così. Ci sono i poverelli, che dalla loro vita hanno solo una cosa, i dolori. Io sono una di quei disgraziati, nel mio di vaso cosa vuoi che resti, soltanto un po’ di vino e il tuo soldino, se davvero me lo vuoi dare…”
Non ebbe la forza di replicarle e frugò una banconota dal portafoglio.
Svelto se ne tornò in albergo e d’improvviso percepì tutto il peso della sua crisi, della sua fuga da casa, di tutti i fantasmi che da qualche giorno gli squassavano il cervello, di quell’annuncio di una gravissima malattia quasi senza scampo, del dolore di non sapere, per la prima volta in tantissimi anni, come parlare con la sua donna. Dell’angoscia di lei, che non l’aveva visto tornare a casa, di non averne notizie.
Dopo quarant’anni, di non dormire insieme.
Ora stava allo scrittoio, fissando il vuoto della parete e i suoi pensieri.
“Devo scriverle, spiegarle d’averla lasciata. E’ il momento.”
Dovrà essere una lettera lunghissima, come lunghi e belli sono stati gli anni con la tua donna, che senti come fosse lì, vicino a te.
Lei che dovrai abbandonare, quando il male ti ucciderà.
7-continua
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