giovedì 27 febbraio 2014
Herbert 24
Herbert
di franco hf cavaleri
“Ma io mi sento di appartenere a voi, voi e la mamma siete l’unica cosa che è veramente parte di me. Dicono che si chiami amore, a volte fa anche soffrire. Mi troverete sempre. Papà.”
Eppure con Grace, da scrivere non poteva avere proprio nulla, se così avesse fatto sarebbe sembrato a Herbert come di tradirla, di sconfessare tante e tante cose sentite e vissute assieme, spalla a spalla ogni giorno, anno dopo anno.
Com’è che diceva quel proverbio? “Un maccherone e una lasagna, Dio li fa e poi li accompagna…” In affetti e dopo quarant’anni di vita assieme, che aggettivi puoi mai trovare per un rapporto di coppia? Non ce ne sono di bastanti, né servono. Dire che tu sei sempre stato prepotente e che lei ti ha accettato per com’eri? Dire che ci sono state liti e incomprensioni? Dire che il vostro amore è una “cosa grande”?
Sarebbero comunque parole inadeguate per una storia bella, profonda, solida.
Forse si potrebbe parlare di intensità e di passione, come di bollicine effervescenti in un qualche calice di spumante messo a costellare e a scandire momenti particolari, ma ricordando che ben più importante è il gustare tutti i giorni la meravigliosa normalità di un bicchiere di buon vino rosso.
C’era già stato, un lontano ieri, il dramma a metà vita, quand’era incappato in quel bruttissimo incidente mentre era per lavoro a Londra, da solo e dovendo ricorrere alle cure abbastanza pesanti dei dottori.
In ospedale l’avevano ricucito, era stato veramente un morire e un rinascere con quei giorni in cui aveva Grace vicino, lei era volata in fretta e furia a sostenerlo e solo quando s’era rimesso un po’ in sesto era tornata a casa, in attesa che anche lui rientrasse in patria, ristabilito.
Proprio allora, proprio in quel tempo Herbert aveva avuto la prova di come l’amore potesse arrivare a essere inspiegabile, a creare misteri della psiche, a seminare dubbi di un qualcosa che va oltre.
Chissà, neppure serve il ragionarci sopra. Va accettato, punto.
Herbert era nel suo letto nella clinica londinese, quel giorno che Grace stava tornando in aereo a casa. C’era anche lui con lei, lo sapeva come le fosse davvero seduto a fianco. Sentiva il suo spasimo mentre l’apparecchio sorvolava in circolo l’aeroporto, sapeva come lei che non sarebbe atterrato subito, né altri aerei l’avrebbero fatto.
Girando in tondo attendevano il termine di uno sciopero degli uomini del soccorso.
Herbert era con la sua donna, mentre Grace scandiva il lento passare dei minuti, l’accumularsi del ritardo nel prendere la via di terra, poi il barlume che attenua l’ansia mentre il comandante annuncia l’approssimarsi della manovra di atterraggio, ecco le ruote che toccano terra, il tuo sospiro di sollievo, la paura che si scioglie nella fretta di essere fuori dall’aereoporto.
Herbert tutto questo sentiva mentre stava nel suo lettino straniero, attimo per attimo in simultanea con lei e quando lui potè telefonarle e la sentì, già sapeva di quanto Grace gli stava raccontando. Aveva guardato l’orologio, eppure era successo, tutto coincideva fatto per fatto, sensazione per sensazione, frazione per frazione anche nel fissare lo stesso momento nel differente fuso orario.
Come lo vuoi chiamare? Forse amore.
24-continua
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