mercoledì 2 aprile 2014

Herbert 52


Herbert
di franco hf cavaleri




La donna nello sport: occasione per valere

Ricordo negli anni Settanta una trasmissione televisiva, un dibattito tra il giornalista Indro Montanelli e una rappresentante del Femminismo: l’uno assegnava alla donna un ruolo ben preciso, citando i pionieri e le pioniere del West americano come esempio, l’altra proclamava a gran voce il “senza limiti” nella vita delle donne. Credo sbagliassero entrambi, poichè con punti di vista contrapposti costringevano tuttavia la donna in un modello prefissato.
Personalmente credo nel cammino comune di uomini e donne, come singoli individui non riducibili a categorie standardizzate, pur essendo cresciuto nell’epoca delle scuole (ancora) suddivise per sesso, come i due bei edifici a Milano Bovisa: scuola femminile di qua e scuola maschile di là.
Certo le difficoltà sono sotto gli occhi di tutti, non c’è bisogno di andare fuori dalla nostra concezione occidentale per rendersene conto.
Ho appena sfogliato un bel libro della famosa dinastia dei fotografi Vasconi del lago di Como, testimoni di decenni di storia lariana.
Nel 1931 a Villa d’Este di Cernobbio uno stuolo di soci del Rotary, rigorosamente in scuro, attornia una isolata seppur sorridente Josephine Baker in una fotografia di Piero Vasconi: quasi un trofeo da esibire, piuttosto che un’ospite.
Ma, in un’altra fotografia, quale bella femminilità della Baker, nel suo gesto di zittire la bilancia dove è salita…
Gioco la carta del rapporto donna e moda.
Non è stata un’inglese negli anni Sessanta a inventare la minigonna, perché nel maggio del 1939 ancora a Villa d’Este, alcune fotografie con sfilata di alta moda individuano zatteroni e vestiti che scoprono alcune autarchiche e italianissime gambe.
Certamente allora l’abito serviva a definire la “preda” -o, per meglio dire, l’oggetto- dell’universo maschile, mentre con la Quant l’abito corto assume intenti di affermazione liberatoria della femminilità.
Curiosa una foto, sempre di un Vasconi, che raffigura una sfilata di partigiani il 30 maggio 1945 a Moltrasio: due sole donne, l’una in gonna e l’altra in pantaloni.
L’abito del “sesso debole” indossato da una donna recante la rivoluzionaria bandiera rossa e in pantaloni l’altra, provvista di un ben più conformista vessillo tricolore.
Rientriamo nel nostro campo, quello sportivo.
Credo fortemente che la donna, così come noi uomini, non debba dimostrare nulla, perché fare attività sportiva è una parte della vita di ciascuno e, in quanto tale, ha i suoi tempi e i suoi ritmi particolari, non confrontabili e non riconducibili a tabelle.
In questo senso, provo indifferenza per tutti quegli studi e quelle ricerche, che intendono misurare e dimostrare fino ai millesimali le prestazioni, confrontarle, commentarle. Magari per giungere alla conclusione che un uomo e una donna differiscono in questo e in quello e che magari una campionessa, le cui prestazioni sono mediamente inferiori a quelle di un uomo a parità (sic!) di condizioni, è capace tuttavia di surclassare molti uomini della fascia media…
Credo che la storia delle donne debba procedere passo passo verso l’affermazione del valore femminile, come di quello maschile, a prescindere da confronti e scontri. Questo anche nello sport.
Pericoli di strumentalizzazione sono dietro l’angolo e provengono ancora una volta dal mercantilismo e dalla commercializzazione dell’evento sportivo.
Ricordo negli anni Ottanta una campionessa di ping pong in braccio di ferro con la propria federazione: squalificata di continuo per abbigliamento non regolamentare.
Lei sosteneva di sentirsi a proprio agio solo con alcuni body da lei stessa preparati, la federazione esigeva maglietta e pantaloncini. L’atleta minacciava provocatoriamente dai giornali di volersi cucire maglietta e pantaloncini con una rete da pescatori. Sembra una storia banale, indubbiamente la simpatia è rivolta verso la ragazza, ma… cosa pensare se ci fosse stato da parte della nostra atleta il bisogno inespresso di far affermare una certa linea di prodotti di sartoria?
Il problema si è riproposto ancora, ricordando qualche anno dopo il volley femminile e il diktat poi rientrato della federazione a che le atlete si esibissero in microslip: si stava parlando di praticità di sport oppure di sotterranee esigenze dello sponsor?
Siamo tornati all’abbigliamento, come chiave di lettura dello sport in rosa, sempre ricordando che passo dopo passo la storia rimette con giustizia le cose a posto, anche se qualcuno viene sacrificato e il pioniere, la pioniera paga sulla propria pelle per coloro che verranno.
Se proprio sarà necessario lo scandalo, perché le donne abbiano anche nello sport quanto è loro dovuto, personalmente rinuncio ai glutei delle giocatrici di pallavolo o alle “modelle-sfilata di moda” del tennis.
Trovo ben più interessanti altre immagini, quelle che realmente abbattono tabù e aiutano la crescita nel tempo, di quelle donne che pagano del proprio, come le gambe nude delle atlete nordafricane, che a casa loro rischierebbero il linciaggio, come la scandalosa nudità del volto della ragazzina afgana, catapultata a correre -tra smaliziate star- su una superaccessoriata, occidentale pista di atletica.

52-continua

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