L’EREDITA’
DI CHARLOTTE
di carlozanzi
Un
lampo. Un’apparizione. Lo striscione del traguardo divenne il grande schermo sul
quale si materializzarono immagini di sedici anni prima. E così dopo
duecentocinquantun chilometri di gara, trentaquattro salite, uno sforzo immane
durato sei ore, venticinque minuti e cinquanta secondi, dopo essere scattato
sul Cauberg nel giorno di Pasqua, venti aprile duemilaquattordici, in Belgio,
proprio nell’attimo di alzare verso il cielo di Valkemburg la mano destra con
il numero tre scritto con pollice, indice e medio (in effetti era la terza
volta che vinceva quella gara ciclistica), mentre dietro gli occhiali da sole
due occhi gonfi di fatica e commossi di lacrime guardavano straniti i
fotografi, la linea d’arrivo, il pubblico berciante e la bocca disegnava un
sorriso che pareva una smorfia, in quell’attimo esaltato, che precede la
consacrazione alla Amstel Gold Race, il belga di Verviers Philippe Gilbert
rivede sua zia Charlotte e quell’eredità benedetta. Perché da lì tutto aveva
avuto inizio.
Era
andata così. La vecchia zia Charlotte, zitella secca e sdentata, simpatica, che
gli regalava le banane, era morta lasciando una modesta eredità anche alla sua
famiglia. Papà Francois, amante della bici, che aveva fatto? “Tutti in sella!” aveva imposto, e tutti e
quattro erano saliti su vecchie bici rugginose, mentre la piccola Pauline era
stata alloggiata sul seggiolino (malmesso anche quello) posto sulla bici del
padre. La colonna si era avviata per le vie di Verviers, dove si parla francese
e tutto sommato si vive in pace, sino al rivenditore di biciclette, tale
monsieur Cervini, di origini italiane, amico di Francois Gilbert.
L’ereditiere
allungò i quattrini e Cervini capì che faceva sul serio. “Dacci quattro bici
nuove, queste rottamale, hanno fatto il loro tempo.”
Il
piccolo Philippe, sei anni, veniva per età dopo Michel e prima di Yves e
Pauline. E la colonna era così formata: avanti il capofamiglia con l’ultima
nata, una biondina dagli occhi verdeacqua, a seguire mamma Irène, dietro alle sue
gonne Yves, dietro a Yves Philippe, e ultimo Michel, che pedalava coi piedi
piatti e di malavoglia.
Fu
un lampo, un’apparizione che, unita al ricordo, durò sette secondi, perché il
tempo finale di Gilbert nella Amstel Gold Race del duemilaquattordici fu di sei
ore, venticinque minuti e cinquantasette secondi e dopo quei sette secondi,
tagliato il traguardo (e qui cedo al linguaggio spiccio e scontato del
giornalista), il corridore della BMC annegò nel tripudio. Ma in quei sette
secondi rivide il soldi di Charlotte, riassaporò il sapore di quelle banane,
riprovò la gioia nata dal luccichio delle bici nuovissime, risentì in faccia il
vento tiepido che accompagnò il loro ritorno a casa, dopo l’affare, lungo le
vie di Verviers, un’accogliente sera d’estate del millenovecentottantotto,
quando i suoi piccoli piedi spingevano sui pedali e gareggiava col padre nello
scatto finale prima di casa.
E
Francois, per educarlo alla vita, non sempre lo lasciava vincere.
Rivendicando il diritto alla
piena libertà di espressione, che consente di unire verità e finzione, comunico
che l’unica cosa vera di questo racconto breve è il nome del vincitore
dell’edizione 2014 della Amstel Gold Race e alcuni riferimenti geografici. Per il
resto, ci ho dato dentro con l’immaginazione.
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