DAVANTI ALLA MIA CASA
Sto fumando una sigaretta. Sto respirando altra morte, oltre a quella
che mi sentivo dentro e che mi ha spinto ad uscire da casa, un istante, il
tempo di un sottile cilindro che va arrosto. Mi sono seduto su una panchina,
oltre la strada. Abitiamo in una villetta, non siamo ricchi, il mutuo non si è
ancora estinto. Sono uscito perché mi ha preso un dolore in fronte, un male che
cola negli occhi, penetra nei bulbi, s’irradia. Ho cominciato a pensare che
quel grido fastidioso era solo l’inizio di un male tremendo, che mi consumerà.
E allora, quando il pensiero scende così in basso, in fondo al pozzo, allora è
meglio che esca di casa e che venga a sedermi qui, sulla panchina.
Non passano molte auto, la strada è secondaria, il paese dove vivo è
minore, tutt’intorno è solo la piatta pianura padana. Maggio muore dentro una
sera che non dovrebbe inciampare mai nella notte, una dolce sera che profuma di
rose. Se guardo nel mio giardino, dieci metri oltre la punta rossa della
sigaretta, vedo rose gialle e rosse. Il profumo, però, non passa la via.
Sto già meglio. E’ sempre così. Questa panchina è meglio del lettino
dello psicanalista. Che strano, il fumo mi intossica eppure riesce a liberarmi
la mente, meglio, riesce ad intossicare solo i pensieri che non lasciano
speranza. Si vede che loro proprio non fumano. Dopo una sigaretta riesco a
ritrovare la gioia di essere padre, due figli, Giorgio, dieci anni, e la
piccola Luisa, cinque. Eccola la mia bambina, è scesa in giardino, ora dirà:
‘Papà, vieni a giocare?’ Una volta diceva: ‘Papà, che fai lì tutto solo?’. Ha
capito che ho bisogno di questo spazio, attende e poi arriva.
“Giochiamo, papà?”
Ecco, lo sapevo: “Un attimo, sali su che arrivo. Prendi il pallone.”
Giorgio, purtroppo, è come me, i pensieri scivolano direttamente dalla
mente al cuore, o restano a ronzare nel cranio, non trovano mai la via della
bocca per sfiatare. Parla con gli occhi e con le labbra. Noi ci intendiamo.
Almeno credo. Gli ho regalato un’eredità pesante, ma che ci posso fare? Devo
farmene una colpa? Ho legioni di sensi di colpa che mi avvelenano, uno più uno
meno.
Luisa è tutta sua madre, per fortuna. Eppure Gloria, mia moglie, dice
che è comunque meglio nascere maschi: tutto più facile. Vorrei regalargliela la
mia facilità, la leggerezza che non ho.
Ora li sento, la mia famiglia è lì, il buono della mia vita sta
compresso in un cinque per sei, la mia piccola sala, dove la televisione è
accesa e vomita le solite disgrazie del mondo. Se sono uscito è anche per non
sentirle.
La sigaretta è consumata, la butto per terra, spengo il mozzicone con
la pianta del piede, poi lo raccoglierò e andrò a buttarlo nel cestino che sta
vicino al mio cancello. Quando risalirò. Luisa può aspettare. Strano che non
sia ancora arrivata con la palla. Ecco, sì, hanno cambiato canale. Ci sarà una
trasmissione che le interessa. Meglio, magari me ne faccio un’altra, di
sigaretta. Ma no, dai, la mia pausa può bastare, ora mi alzo, raccolgo il
muccio, chiamo la bambina.
Perché mi gira la testa? Che sensazione strana, come fossi da un’altra
parte, un sogno, tremo, trema la vista, nausea, miodio ora muoio, non riesco a
correre, un ictus?, vorrei sdraiarmi a terra, in mezzo alla strada, no, ecco
Luisa, corre col pallone in mano ma è come se scappasse, urla papà papà, passa
il cancello, è in strada, ma è il mondo che trema non io, io non sono malato,
guardo verso il cielo e subito scendo al tetto della mia villa, sento urla più
forti del televisore, il camino trema, la parabola che è accanto al camino
balla, sento come un rutto che sale da sotto i miei piedi, il tetto si apre, il
camino e la parabola entrano nelle fauci della mia casa che s’accartoccia,
Luisa è arrivata, salta sopra di me, il pallone rotola e finisce sotto la
panchina, due auto si sono fermate a pochi metri da noi, stringo la piccola
mentre frana per sempre la mia vita.
Ora è solo fumo intorno a noi.
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