La tempesta perfetta
A terra
una calza e una ciabatta.
Nel
procedere lungo il corridoio, avvertì un dispiacere. Non avrebbe
voluto, ma gli occhi fecero la curva sulla destra e vide la loro camera: porte
di armadi aperte, un accappatoio verdemarcio a terra, altre ciabatte, un top,
mutande, il tappo di un tubetto di crema, qualche elastico per capelli, una
spazzola, un pigiama invernale, una cintura, altro ancora. Ma non volle
indagare oltre, gli occhi fecero dietro front e tornarono ad affiancarsi al suo
malumore.
Era pronto per uscire. Lui se ne andava di casa, al mattino, sempre prima degli
altri. Affrettò il passo verso la porta ma si fermò: ‘Perché era costretto
a scappare da casa sua?’
La sosta lo indusse a guardare in cucina: avanzi di prime colazioni, una
bustina di te gocciolante s’era afflosciata, esausta come un maratoneta, sul
bordo di un piattino, e poi briciole e macchie di caffèlatte, ancora una
ciabatta e un tovagliolo finito a terra, pirottini di merendine al cioccolato,
vasetti di marmellata aperti, con i tappi lontani almeno tre spanne. Nel
lavandino poche stoviglie, perché la gran parte erano state abbandonate come
relitti sopra il tavolo. E insieme a quello spettacolo di disfacimento
domestico, i primi rimbrotti, le prime minacce, i primi sbuffi e qualche mala
parola, come rumori di un temporale in procinto di far valere la sua
prepotenza.
Con un
atto di coraggio tornò indietro, raccolse qualcosa da terra senza farsi notare,
più che altro per far piacere a lei,
restò in allerta, come un cacciatore che senta odore di preda.
“Porca
puttana, chi ha visto il mio maglione panna?”
Silenzio,
un ronzìo di asciugacapelli, uno sbattere incontrollato di porta, un gracchìo
di televisore mal sintonizzato in cucina.
“Mamma, chi
ci accompagna?”
Ancora
silenzio e un trillo di sveglia nell’appartamento di fianco.
Avrebbe
voluto rispondere con entusiasmo “Io!” perché davvero era ben disposto ad
accontentarle, se avesse avuto a che fare con persone puntuali. Attenderle
significava ritardo sul posto di lavoro, ritardo di molti minuti. Non se lo
poteva permettere, per lui e per loro.
“Il
maglione?”
“Io non
l’ho preso....”
“Porcaporcaporca...”
“Vaffann...con
chi t’incazzi?”
La
tempesta montava, in risalita, in ebollizione, in espansione
esplosiva.
Lei fece
per dir qualcosa, più che altro raccomandazioni e rinforzi a precedenti inviti,
ma venne zittita in malo modo. Volle insistere, ma fu come se dell’altro vento
fosse entrato a dar forza ai vortici depressionari, sibilanti dentro
quella famiglia normale.
E intanto,
fuori, febbraio s’era svegliato con una gran bella giornata di sole,
naturalmente fredda ma senza nubi né nebbia.
Lui
taceva, nemmeno più attonito. Semplicemente abituato, e soprattutto consapevole
che fuggire era pavidità, forse, ma nel contesto di un sano istinto di
sopravvivenza.
Prese a
pedate un asciugamano finito in corridoio, a passo svelto ripercorse la via
verso l’uscita e lasciò la scena senza nemmeno salutare. Probabilmente, a meno
di urlare, non l’avrebbero neppure sentito.
Lungo le
scale notò ancora un vociare a voce alta. Uscì dalla
porta della palazzina. Quell’aria gelida fu come un caldo abbraccio. Se la
respirò tutta, a bocca aperta come un podista allo stremo. Ne trasse beneficio
ma il rimorso per quella fuga gli galleggiava dentro. Anche ad impegnarsi, non
poteva zittirlo. Rimorso che prendeva ossigeno, mutando termine: fallimento. E
quello non lo poteva accettare.
S’aggrappò
come un carcerato senza speranza ad una recinzione in metallo, che dava su
qualche metroquadro di verde. Un praticello condominiale nemmeno in grado di
far giocare un bimbo di pochi anni: una betulla, una pianta di rose, un’altra
di ortensie, una terza di oleandro.
Le vide
come una benedizione. Le vide come un indizio di speranza per il futuro. Poche
primule, venute al sole fra croste di neve e fili d’erba
intirizziti dal gran freddo.
Sostò
appeso alla rete.
Qualcuno lo vide. Pensò dovesse avere più di un problema.
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