ventidue
Marco uscì finalmente in bicicletta, per un giro di sessanta
chilometri almeno, che moriva aprile dentro una giornata con nuvole di carta
velina. Erano passati undici mesi dal Giro d’Italia dello scandalo. Gli restava
un anno di squalifica. A Beatrice aveva confessato tutto.
Erano tornati qualche giorno dagli amici di Laveno Mombello,
sulle strade della corsa rosa.
Marco voleva starsene solo, lui, la bici, l’asfalto e quelle
gambe che, dopo mesi di astinenza, s’erano fatte smilze, deboli e abbruttite da
lunghi peli neri.
Appena lasciata Laveno, superato il sobbalzo del passaggio a
livello, sentì trasformarsi in nausea la sua debole voglia di tornare in sella.
Nausea dei pedali, disamore per quello sport. Ma non era più questione di
professione. Doveva rimontare in sella alla vita. Tante altre volte era uscito
in bicicletta e tornato indietro; quella mattina col culo sul sellino ci rimase
e volle proseguire. Affrontava un debole falsopiano e gli pareva duro come il
Mortirolo, peggio di quel Cuvignone che s’era messo in testa di scalare. La
stessa salita inserita, e per due volte, nella penultima tappa del Giro della
vergogna. Quella salita lunga dieci chilometri era la sofferenza quotidiana di
Alfredo Binda, campione immortale di Cittiglio, ricordato a Vararo con un
museo, sulla porta del quale avevano appeso una targa con incisa la poesia in
vernacolo di Santino Broggini, poeta di Arcumeggia:
Vàrda i sò man e vàrda giò, i garùn,
pö vàlza 'l cò, al ciel sùra Varàar;
cròdan i gòtt, scarlìgan par la frunt
e brüsa 'l cöör, rabiùus sü la salìda.
"Alfred, in gamba" e batt i man
ul vecc.
"T'è vist ‘ma'l bòfa ul Binda. Pòar
patàn."
Làssa i cà da Varàar, pö tàca 'l bosch,
ga n'è da pedalà p’al Cüvignùun.
Cerca n'òmm la sò vall, in mezz ai frasch;
spera n'òmm la sò cima, e tanta voja
da mett giò ‘l pè, finìla lì la storia.
Spùngian i cramp, sciòpan i garùn,
fadìga dì par dì ‘nà al Cüvignùun
par turnà giò ‘n dul vènt, cuntènt me'n
spùus.
Marco
non aveva studiato le avventure incredibili e vincenti del Binda, né capiva il
dialetto bosino; ora, arrivato a Cittiglio, si trattava di trovare il coraggio
della svolta a sinistra. Ci provò.
Moriva
aprile e lui voleva risorgere. Il sole non dava fastidio, sapeva che avrebbe
incontrato anche ombra e frescura. Subito in piedi l’asfalto, un budello fra
belle ville e il profumo delle prime cascate di glicine. Mise il ventisei
quando in gara aveva spinto un sedici. Ora il giro di pedale era più sciolto.
Un tratto di pendenza più dolce quindi, lasciate le abitazioni, ecco di nuovo
il ripido. Non lo desiderava, ma il ricordo della tappa e della doppia salita,
mese di maggio di un anno prima, tornava impietoso. Era salito in quel tratto con
un diciotto, galleggiava nel cuore del gruppetto di testa, credeva di poter
controllare tutto, scrutava il Togni come un cane da punta. Due cosce sode che
avevano trascinato corpo e bici dal nord al sud dell’Italia, valicato le Alpi,
spinto nelle crono come un motore da cinquanta all’ora.
Cercò
di distrarsi guardando il panorama. Ora poteva permetterselo. In valle
s’allontanava Cittiglio e si vedeva Gemonio, con i suoi colli feriti dagli
scavi di un cementificio. La vallata si inselvatichiva, ombra e il lontano
rumore del torrente San Giulio. A sinistra il Sasso del Ferro nel suo versante
meno nobile; l’altro, a occidente, degradava su Laveno e regalava panorami sul
Verbano. I boschi erano malcurati, soprattutto robinie soffocate dall’edera,
rari faggi, qualche castagno. Arrivò il breve tratto in piano e poi altra
pendenza, con il San Giulio a lambire la strada, anche pini e la casetta con il
cartello: ‘Mulino della Valle-Amici dei funghi-Cittiglio’.
Nuova
salita e più cielo sopra la fronte sudata. Ad un tornante che virava a mancina
vide una cappelletta, con la scritta A.V.I.S. Cittiglio: una bella Madonna con
Bambino. Non l’aveva notata durante la tappa del Giro, coperta dai tifosi,
dalla sua fatica vorace, dall’odore dei freni e delle frizioni delle ammiraglie,
dal gas delle auto e delle moto, dalle bandiere e dalle urla. Ancora un
chilometro, svolta sulla destra e s’aprì il pianoro di Vararo. Varè in
dialetto, poche case annunciate dai campanacci delle mucche. Nemmeno quel
grande prato aveva visto un anno prima, erba nuova e il giallo dei tarassachi,
la cima del Sasso del Ferro, un alpeggio a pochi chilometri dal centro di
Varese.
Prese
fiato ma non era stanco. Sentì in bocca il buono della bici che aveva gustato
da ragazzino ma perso in fretta, nell’impasto di sale e amaro della troppa
fatica: a tutta sempre, anche in allenamento, anche nelle categorie giovanili.
Dopo
la piana di Vararo prese di nuovo il bosco, ora più curato: grossi faggi, una
pineta, un sottobosco ottimo per funghi e la mulattiera, che indicava la via
dei Pizzoni di Laveno. Il passo del Cuvignone lo si vedeva, tre chilometri
verso oriente, e anche la via che tagliava la vegetazione, poco sotto il
profilo delle Prealpi. In basso la Valcuvia, davanti un falsopiano, ai lati
felci e noccioli, piante di basso fusto e sporcizia lasciata dalla gente.
Marco
saliva e la fatica si spegneva, lasciandogli nelle gambe e nella pancia una
bella sensazione. Alzò lo sguardo verso la fine della scalata; più a destra,
fra il Cuvignone e la cima del Monte Nudo, galleggiavano nel cielo tre
parapendii. Uomini appesi a una tela colorata sfidavano il vuoto e la loro
paura. Li seguì nel loro volo lieve, curando con la coda dell’occhio di non
finire nella scarpata, dentro buche o contro i sassi lasciati in strada
dall’inverno. Si sentì leggero e felice. Provò desiderio di un panino al
salame.
***
Beatrice quella stessa mattina prese l’auto e andò a
Cugliate Fabiasco. Lui non c’era, nonostante si fossero dati appuntamento alla
villa. Aveva già deciso, ma avrebbe preferito dirglielo, guardando per l’ultima
volta i suoi occhi. Attese cinque minuti, poi tornò verso Laveno. Alla rotonda
di Ghirla lo vide in moto, velocissimo, affrontare la curva come fosse stato in
gara. Cercava di recuperare il ritardo. Sarebbero arrivati messaggi e
telefonate che s’era imposta di ignorare. Se ne sentiva capace. Marco non
sapeva niente della loro storia.
22-continua
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