venerdì 4 gennaio 2013

Cicale al carbonio 19

                                                                         Hotel Campo dei Fiori


   diciannove

       “Ed eccoli passare sotto lo striscione degli ultimi tre chilometri” disse Mauro. “I due eroi del Giro d’Italia se la giocheranno sino all’ultima spanna d’asfalto. Tremila metri alla cima del Campo dei Fiori, poi non ci saranno più salite in questa corsa meravigliosa.”
“Marco Marchi può farcela” disse Paride, che aveva perso lungo le strade del Giro il suo apparente distacco professionale e si stava davvero emozionando, “ma non è più il tempo dei ragionamenti. Ora o mai più. Se il capitano della Toshibas Bike vuole vincere deve dare tutto, strappare con i denti quei trentadue secondi che ancora lo separano dalla Maglia Rosa.”
“Simbolo del primato che Giuseppe Togni sta difendendo come un leone, addirittura davanti a tirare” precisò Mauro, “forse per dimostrare chi è il più forte.”
“Strategia che sinceramente non capiamo” disse Paride. “Tocca al veneto di Lazise stare davanti, dettare il ritmo, se fa così dice al rivale che non ne ha più, che ha finito la benzina.”
“Oppure sta tirando i remi in barca prima della botta decisiva. Riprende fiato prima dell’estremo tentativo di sfilare la maglia dalle spalle del bergamasco.”

*** 

Anche Dimitri Nikanov, il suo ultimo gregario, si lasciò inghiottire dalla fatica. D’un colpo cessò di lottare. Non aveva nemmeno il fiato per urlare a Marco che, da quel bivio alla cima, sarebbe rimasto solo.
Davanti a lui s’apriva una via di duemilatrecento metri, tanto distava il traguardo da quel punto, il bivio delle Ville. Svoltando a destra, per un sentiero di sassi, detto delle pizzelle, si raggiungeva la Madonna del Monte, sul colle sacro.
Il caldo era opprimente. Le moto di testa tagliavano i tifosi come navi rompighiaccio, ma i fanatici si riavvicinavano subito ai loro beniamini. Nel cielo, a bassa quota, ronzava l’elicottero Rai. 
Marco avrebbe voluto dare il cambio a Togni, non era tattica, era fatica. Getti d’acqua e spintonate, urla senza contegno, bandiere dell’Italia, di Varese, scritte sull’asfalto: Marchi non mollare, Marchi in paradiso, Scappa, lepre di Albino, Marchissimo re del Giro, la Maglia Rosa al suo re Beppe.
Marco Marchi non riusciva  a far altro che fissare inebetito la ruota di Giuseppe Togni e ripetersi che solo un infarto lo avrebbe scollato da lì.
Erano rimasti loro due in grado di reggere un trentanove-diciotto. Seduti, poi il male alle cosce e alla schiena li obbligava a salire sui pedali, facendo calare la velocità e aumentare le pulsazioni. Togni si sedeva, Marchi si sedeva; Togni si rialzava, Marchi si rialzava: era il bergamasco che dirigeva le operazioni. Da bere non c’era più nulla ma anche ci fosse stato non restava il tempo per bere. Quegli ultimi duemila metri valevano un Giro d’Italia.
S’entrava di nuovo nell’ombra, leggera curva a destra, zona di Ville. Ebbe un’allucinazione: aveva forato. No, ma avrebbe potuto forare e quel pensiero lo atterrì. I pensieri erano saette, abbagli nella mente stanca più del corpo.
Un tratto di bosco fitto, quasi buio, la folla addosso, erano costretti a  zigzagare. Beppe si voltò, guardò Marco con due occhi tristi, certo chiedeva il cambio, che andasse davanti lui a tirare. O forse studiava il suo stato. Gli rubava lo sguardo per capire. O forse era pronto allo scatto. Un minimo aumento di velocità, un’inezia, e Marco si sarebbe impiantato. Ma Togni non lo capì. Probabilmente era alla frutta.
In fondo, ben visibile, penzolava il triangolo rosso dell’ultimo chilometro. Stava appeso poco dopo il punto dello scatto estremo, in fondo al buio rettilineo, prima di una curva secca sulla sinistra, poco prima di un cartello con la scritta Campo dei Fiori-Comune di Varese.
Se scattava era la fine…perché s’era voltato?…Ce ne aveva ancora…certo che ce ne aveva e sarebbe partito, Dio bono, no, il Giro era suo…perderlo così, sul Campo dei Fiori.
Giuseppe Togni tornò in cima ai pedali, culo a destra, sellino a sinistra, culo a sinistra, sella a destra, valzer del dolore.
Marco lo seguì scollandosi dalla sella, abbassò le mani sotto le corna del manubrio, tirava come avesse preso un toro e lo teneva lontano. Tirava quasi ad incurvare ancora di più il manubrio. Fissava il copertone, non doveva allontanarsi dal suo nemmeno di un centimetro; rischiò di sfiorarlo. La ruota di Togni avanzò di cinque centimetri almeno.
“Parte…cazzo…sta partendo…poca puttana” e non era solo un pensiero disperato, lo urlava in faccia a quei tifosi che non salivano in sella al posto suo, che lo infastidivano e insieme lo esaltavano.
Transitarono sotto il triangolo dell’ultimo chilometro. Pochi metri e l’ultimo cambio di pendenza. O lì o mai più. Ma se moriva a stargli a ruota? Arrivando insieme, Togni l’avrebbe persino fatto vincere. Il Giro a me, a te la vittoria sul Campo dei Fiori: una vittoria peggiore di una sconfitta.
Giuseppe Togni detto Beppe non partì. Si sedette proprio lì, dove la strada s’impennava di qualche grado. Marco, in piedi, reggeva a fatica il diciotto.
Togni smanettò sul cambio. Marco non aveva più occhi per vedere se era un diciotto, un sedici, un venti. La Maglia Rosa rallentò, cercò di rimettersi in cima ai pedali, si risedette, sbandò, perse velocità perché era un venti e non un sedici, lì, nell’ultimo strappo buono. 
Marchi pigiava sul diciotto. Gli passò di fianco, lo superò, abbassò il capo e guardò fra le sue gambe per curare la ruota di Togni, che stava a dieci, poi venti, poi ancora dieci e venti e dieci centimetri dalla sua. Bruciava così le sue ultime forze, poi il distacco, come per un addio lanciato dal ponte della nave. Marco s’era imbarcato, Togni stava solo sul molo, con la bandiera bianca in  mano che sventolava senza allegria.
La folla, ora, giunti all’ultimo chilometro, era stata ingabbiata a bordostrada dalle transenne. Al sorpasso di Marco, i suoi tifosi erano scoppiati come una  bomba. Volavano verso di lui acqua, cappellini, fazzoletti e il vento buono del tifo a favore. Si sedette ma tornò subito sui pedali, pazzo dalla gioia. Restavano almeno ottocento metri e Togni era già dietro di venti, trenta, forse quaranta metri…ma non era fatta, doveva ancora morire prima di risorgere.
Curva secca a destra, strada a serpentina, il cippo alla memoria di Guglielmo Schiavetta, poi di nuovo il buio del bosco. Ce l’avrebbe fatta perché non sentiva più la fatica, perché gli aveva dato già cento metri (non lo vedeva ma lo immaginava) e mancavano ancora cinquecento metri al traguardo.
Raspava come un toro, ringhiava come un cinghiale ma alle sue orecchie era canto. Quell’ultima curva sulla destra non arrivava mai. Arrivò anche quella e gli ultimi duecento metri e gli ultimi cento, cinquanta e il sipario del traguardo e le foto e i pugni contro il cielo di Varese.
Annegò dentro un groviglio di mani e braccia e abbracci. Ma con la testa si girava e cercava il rivale e cercava il tempo che scorreva. Trenta secondi erano ormai passati e Togni non era ancora transitato sotto la ghigliottina dello striscione d’arrivo.

***           

“Sono la moglie, fatemi passare, per favore” e Beatrice sventolava davanti agli occhi di chi le impediva di scendere in strada il pass con foto e nome.
“Non si può…ah, lei è la moglie…se trova un varco, veda un po’…”.
Beatrice corse verso Marco, che era sotto la catasta dell’euforia collettiva.
‘Di qui non passo…giro di là…” e Beatrice cercò altre vie per raggiungerlo.
Da soli o a gruppi di due, tre, quattro, i corridori transitavano oltre la linea del traguardo. Erano paonazzi, senz’aria, impresentabili. Avevano la maglietta aperta, intrisa di sudore.
Una cinquantina di metri oltre lo striscione d’arrivo chiedevano da bere agli addetti al rifornimento. C’era rabbia nei loro occhi, pretese che andavano subito soddisfatte. Qualcuno buttava la bicicletta contro la transenna, come fosse una maledizione, una bestia immonda dalla quale liberarsi al più presto, uno strumento di tortura, reso incandescente dal sole dei mille metri. Un ragazzino fece per sfilare la borraccia da una bici, lasciata cadere a terra. Il corridore gli bestemmiò contro e fece il gesto di tirargli il caschetto in faccia. Il ragazzo scappò ma inciampò su un’altra bici e si mise a piangere, guardandosi il ginocchio ferito.
“Fatemi passare, sono la moglie di Marchi…devo andare da mio marito…”. Riuscì a vederlo, aveva un microfono vicino alle labbra, stava bevendo da una borraccia gialla, qualcuno gli aveva sfilato il caschetto e lo aveva obbligato a mettere in testa il cappellino con gli sponsor. Marco parlava al microfono ma guardava tra la folla. Forse cercava Beatrice. Intanto lo spintonavano verso il palco.
Beatrice guadagnava terreno, temette di cadere, di essere schiacciata dalla calca dei tifosi ma intanto si avvicinava al suo uomo.
Marchi si fermò, un tifoso gli aveva strappato di testa il berretto, non reagì, gliene portarono subito un altro. “Marco, Marco…” e finalmente la sentì. La vide. Cinque metri non di più.
Si abbracciarono. Beatrice si lasciò bagnare dal suo sudore. Lui sentì il suo profumo e la telecronista che commentava: “L’abbraccio con la moglie aggiunge altra gioia a Marchi, che oggi corona un sogno inseguito da anni.”
“Sei stato grande” gli urlò nell’orecchio Beatrice.
Marco non disse nulla. La felicità lo aveva ammutolito. 
  
                                                                                                            19-continua 

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