luglio
di carlozanzi
Era un pomeriggio di luglio. Uno di quei
pomeriggi di vacanza, nei quali si rimpiange il lavoro. Sarà il caldo, che
smolla le forze insieme all’asfalto. Sarà la luce, che uniforma in un abbaglio
gli oggetti e le persone che danno forma al fuori di noi. E dentro una gran
voglia di far niente, che solo il sonno parrebbe soddisfare: né un tuffo in
piscina, né ipotesi di vacanze lontane, né il sesso, non il cibo. Il dolce far
niente diventa fastidioso come una tavola chiodata da fachiro.
Le aveva pensate tutte, qualcuna anche
iniziata, ma s’era dovuto bloccare per inedia. Infine aveva deciso di sbattersi
fuori casa, di nuotare nell’afa abbacinante del centro città, sperando
probabilmente in un incontro, che avrebbe potuto buttargli una secchiata di acqua
gelata su quella faccia inespressiva. Magari un suo amore dimenticato, o
qualche altro niente affatto scordato.
S’era messo a vagare senza meta,
bighellonando nella più inutile delle passeggiate, ma le poche persone dedite
al passeggio come lui parevano del suo stesso umore, perse nella malavoglia,
incapaci di reggere l’un l’altra il peso dell’esistere.
Infine, sul tardo pomeriggio, quando però il
sole –data la stagione- era ancora alto e fastidioso, coi raggi che parevano
alitate pesanti e caldissime, s’era ritrovato dalle parti di un rione di quella
città prealpina, zona che aveva ospitato la sua infanzia e la sua adolescenza.
Subito pensò alla chiesa vecchia, perché se
la ricordava buia e fresca, persino fredda anche d’estate. Aumentò il passo
lungo la stretta via in pavè e giunse alla piazza. Non ci passava da almeno un
anno. La facciata era più pulita di come la ricordasse, tanto che la luce aveva
trovato una superficie quanto mai adatta alla sua voglia di imporsi. Entrò.
Dovette subito stupirsi perché –certo a motivo di un recente restauro- trovò
gli interni (pavimento, pareti, soffitto, panche, confessionali, altare,
tendaggi, paramenti e tutto il resto) come fossero stati almeno un anno in
ammollo. Comunque un po’ d’ombra la si trovava, e soprattutto la temperatura
era gradevole. Dapprima si sedette nell’ultima panca. Poi ragionò: come
condizione spirituale, quel posto andava bene, peccatore inadatto a procedere
oltre. Ma non potendosi giudicare peccatore pentito (caso mai incallito) pensò
che sedersi sulle prime panche non avrebbe cambiato nulla nella sua vita. Sul
fondo della chiesa o in avanti, era entrato senza desideri di conversione, e
così sarebbe uscito.
Non aveva voglia di pregare. Non s’era
scordato le orazioni, ma aveva del tutto perso il gusto di recitarle. Pregare
no, ma ugualmente si piegò in avanti, accolse la sua testa vuota di tutto
dentro le palme delle mani, e si sentì abbracciare da una convincente
sonnolenza. Certo si sarebbe addormentato in pochi tremolii di fiamma di
candela, se non gli fosse venuto in mente, come una meteora, don Tarcisio
Bistoletti. E i ricordi di quel prete della sua infanzia, attor primo in quella
chiesa di periferia, lo accarezzarono come le dita di un’amante.
Dunque, si trattava di tornare agli anni
Sessanta, quando don Tarcisio, parroco di quella comunità di fedeli, già
piuttosto anziano ma incurante delle debolezze del suo corpo, più che coperto
ad ogni vento di novità conciliare, faceva il bello, il cattivo e il mediocre
tempo in quella porzione di Chiesa Cattolica Romana. Ma i guai cadevano
soprattutto sulle gracili spalle del giovane coadiutore, sulle suore, sui
fedeli di età matura, che a quel parroco credevano, e che da quel prete si
facevano modellare come avrebbe fatto un iroso Michelangelo sul marmo di
Carrara: più che altro grandi scalpellate. A loro, ragazzi, spettava la parte
migliore, eccezion fatta per l’obbligo della Compieta a metà pomeriggio
domenicale, obbligo che spesso scantonavano, scappando quando si trattava di
attraversare la via, per recarsi dall’oratorio (delizioso luogo di giochi) alla
chiesa. A loro spettava la parte migliore, cioè le grandi risate, accese per la
percentuale maggiore dalle parole di don Bistoletti, e per una minima parte
dalla compagnia di amici, che per solito rafforza l’ironia, la sorregge e fa da
riparo ad eventuali rimbrotti di chi, quell’ironia, provoca.
Intanto si narrava (ma tale diceria aveva più
i contorni della leggenda) che sua madre l’avesse partorito in ginocchio, a
dire di una donna profondamente religiosa, e
di un figlio che ebbe sempre grande venerazione per questa santa mamma.
Ancora si diceva che don Tarcisio facesse il bagno vestito, indossando
un’apposita tunica, per non venire in contatto diretto con la sua carne. Fatti
incredibili che lui non aveva potuto verificare, che comunque giudicava
probabili. Ma soprattutto ciò che lui aveva visto e udito tornò dentro quella
sua siesta pomeridiana. Quell’insistere di don Tarcisio proprio sulla carne
come materia di perdizione, scomodo abito di un corpo che –probabilmente-
avrebbe voluto di solo spirito, ma che –non essendo angelo- era costretto a
subìre, carne che oltretutto a lui abbondava, data la sua pancia fuori misura.
Guardò l’altare e se lo rivide lì. “E tu,
donna, sorella in Cristo, adesso andrai in vacanza, perché arriva l’estate. E
ti abbronzerai il nudo corpo.” E, con l’indice puntato verso la malcapitata, ma
insieme verso tutte le donne presenti in chiesa e più alla larga verso tutte le
femmine del mondo: “Abbrònzati l’anima, alla luce di Cristo Sacramentale!”
Questo era un imperativo classico, come ricorrente era la celebre predica del
venerdì santo, che si ripeteva sempre uguale, compreso l’epilogo, che giungeva
dopo non meno di venti minuti di omelia. “Fratelli, conchiudendo…” e giù a ridere,
per quell’atteso svarione, e insieme in trepida attesa per le tre frasi latine:
“Vide pendente! Aude loquente! Adora moriente!”
Poi c’erano i pezzi unici, che ancora
rammentava. Come quello capitato durante un mese di maggio di molti anni prima.
Don Tarcisio era un cultore del rosario, che
consigliava e propagandava in ogni maniera. Quella volta disse: “Il rosario
preserva da ogni peccato, il rosario preserva dai pericoli, preserva dalle
tentazioni, dai vizi della carne.” Poi un attimo di sospensione, quasi dovesse
pesar bene le ultime parole, o forse insospettitosi che la rima avrebbe fatto
cilecca. Ma don Tarcisio partì lo stesso: “Il rosario è il preservativo della
Madonna!”
A quei ragazzi non sembrò possibile una simile
chiusura, parve inverosimile che il prelato non avesse potuto accorgersi di
quel clamoroso svarione, ma lo stesso lo tennero per buono, conservandolo come
la più riuscita delle barzellette.
In chiesa era solo, quindi non cercò di
trattenere le risate, che gli gorgogliavano dentro come una quarantina di anni
prima. Si era completamente risvegliato dal torpore di luglio. Poi ebbe un moto
di serietà: non era eccessiva quell’ironia alla sua età, se non veneranda
almeno più che matura? E non era dissacrante quel suo pensare a don Tarcisio come
ad un attore comico? Eppure, se esistevano delle ‘ipsissima verba Christi’, lui
avrebbe potuto testimoniare che erano state pronunciate ‘ipsissima verba
Bistoletti’.
Ma don Tarcisio era stato anche altro. Così
nella memoria vinse l’imparzialità e tornò anche l’ultimo don Bistoletti,
quello più conciliante, uomo di Dio che proprio lui vide morire in ospedale,
con rantoli e forse un’ultima invocazione
a Dio, alla Madre Maria e a sua mamma.
Don Tarcisio aveva sempre disprezzato i beni
materiali, e la riprova venne quando, dopo la morte, fu possibile accedere in
tutti i locali della sua abitazione. Indossava vesti logore, quando ne
possedeva di nuove. Tutto ciò che aveva ricevuto in dono nei suoi molti decenni
di parroco (dalle bottiglie di vino agli ombrelli alle borse ai biscotti agli
oggetti di gran pregio) stava accumulato in quelle stanze, spesso ancora
impacchettato: neppure s’era premurato di aprirli, soffocando quel minimo di
curiosità che è anche degli uomini, oltre che –più abbondante- delle donne.
Anche quello era stato il curato Bistoletti,
un prete fuori dal tempo, inadatto a modellarsi alle novità di una Chiesa
rinnovata, rigido nei suoi principi inossidabili.
Don Tarcisio gli aveva risolto l’epilogo di quel giorno senza sale.
Sentì addirittura la voglia di pregare. Lo faceva per porre rimedio agli
eccessi dei suoi ricordi? Un chieder perdono al vecchio parroco? O a Dio, per
quell’assenza, magari giustificata, ma comunque troppo lunga? Ritrovò vecchie
domande e nuovi dubbi. Preferì arrangiarsi con un segno di croce, un
pateravegloria, un requiem e poi fuori di nuovo, nel calore soffocante del
mondo laico. 'Una città in cornice' dicembre 2004 (Macchione editore)
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