Sono padre. Sono cosa significa
l’angoscia per il destino di un figlio. Sono un nuotatore con una certa
pratica, e mi sono trovato un paio di volte in mezzo ad un lago (quello di Como
e il Maggiore) con il timore d’annegare. Un panico che ti annichilisce,
nonostante nel mio caso vi fossero a disposizione mezzi di soccorso,
trattandosi di una gara. Per questo credo di intuire una briciola di ciò che
hanno vissuto Renzo e Livio Visintini, figlio e
padre, annegati nel lago di Varese il giorno di Ognissanti. Mentre il
percorso seguito da quasi tutti i media locali si è indirizzato verso la
disamina delle inadempienze (erano morti che si potevano evitare) io, da
subito, ho pensato ad altro. Ho cercato di rivivere il dramma di questi miei
concittadini, di stare accanto a loro, di immaginare gli attimi che hanno
preceduto una morte indescrivibile. E perché mai? A che serve ripercorrere
istanti di dolore? Molto meglio partire da quel dolore per coglierne l’insegnamento:
ci vogliono più prevenzione, più mezzi di soccorso, più lavoro d’equipe, più
competenza. E poi certe sequenze sono improponibili. Non possiamo sostare più
di qualche attimo sulle immagini di un bimbo di sette anni, solo, nel lago
diventato, fra soffi di tramontana, un nemico invincibile. Non le reggiamo.
Ritardando la chiusura degli occhi, arriveremmo a non poter perdonare più Dio.
Livio Visintini aveva più o meno la mia età. Mi auguro che sia annegato subito,
senza avere il tempo di pensare troppo al figlio Renzo, di avvertire in fondo
allo stomaco la morsa di una seppur minima colpevolezza. O, forse, nella
certezza che il suo ragazzo non ce la poteva fare, ha preferito non lottare
più. O forse se n’è andato convito che almeno lui, Renzo, col giubbotto, ce
l’avrebbe fatta. So che era assai esperto sui monti, ma ignoro quanto avesse
dimestichezza con l’acqua. I funerali in San Vittore, solenni, hanno radunato
sabato scorso nel cuore di Varese tutta la nostra povertà di uomini, coinvolti
nel rapporto con la natura (matrigna o benigna secondo i casi) tanto quanto i
nostri progenitori. E’ giusto, dobbiamo fare il possibile perché non si anneghi
più, così, nel lago di Varese; il fatalismo non è una virtù, tutto l’umanamente
possibile va messo in campo, contro una natura che giganteggia. Ma a capo
chino, con la pazienza (e il coraggio) di sostare sul nostro limite: per
pregare, non solo per prevenire.
2 novembre 2006
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