LA
PRIMA NEVE
di carlozanzi
Sto
per morire. Lo sento. I medici dicono di no ma la morte ha un verso che solo
chi muore avverte. E quando non sono semicosciente da farmaci, o immerso nel
dolore da non poter far altro che invocare la fine, quando mi trovo nello stato
di adesso, sostanzialmente bene, moderatamente felice come chi si salva da un
naufragio ma sa che presto ne arriverà un altro, ecco, quando sono in questo
stato provo una profonda delusione.
Guardo
oltre i vetri. Nevica. Neve leggera e fitta, abbondante, che trova terreno
fertile, un fondo gelato che non la fa sciogliere. Una neve che, se andrà avanti
così, s’accumulerà. E la neve mi porta alle grandi delusioni della mia
infanzia: il focoso entusiasmo della novità, i sogni di gloria, la
preparazione, l’azione, l’inconveniente, la delusione, il pianto, la diffidenza
verso una vita che non mantiene le promesse.
Il
ricordo è chiaro come questi fiocchi: un grande prato a non più di cinquecento
metri da casa, neve, un paio di sci di legno pesanti, sporchi, ragnatele negli
attacchi arrugginiti, bastoni di legno lunghi, scomodi, attrezzi
antebellici recuperati con fatica sulla mensola di una cantina buia, che sa di
piscia di gatti. Portavo pantaloni sopra il ginocchio (sempre, anche d’inverno,
sino alla terza media), scarponcini non adatti a quegli attacchi (probabilmente
attacchi a ganascia Luggi combinati con leva Kandahar), calze lunghe, una
giacca a vento abbondante, cappello di lana con ponpon, guanti di lana. Sci in
spalla, avrò avuto undici anni, andavo con i miei fratelli sul prato, cercavo
di agganciare gli sci in qualche modo provvisorio, imitavo sciatori ammirati
alla tele, ero costretto a spingere anche in discese lievi, prendevo velocità
solo quando il pendio era ripido, cadevo dopo pochi metri. Tanta fatica per
risalire. So che vi siete calati nel contesto, avrete intuito che dopo dieci
minuti i piedi erano di ghiaccio, le mani paonazze, i guanti bagnati, le guance
(che allora erano in carne) rossovivo, le ginocchia dolenti, una gran voglia di
tornarmene a casa, il faticoso rientro, passi mesti e disillusi. Quella stessa
via, percorsa all’andata con il fuoco sacro di un’attesa di gioia, pareva ora
un lungo Golgota infantile, attraversato nel pianto trattenuto, pianto
interiore, e poi sbloccato, lacrime calde sopra un volto affranto. L’infanzia
conosce gli estremi, non ha imparato l’arte di parare i colpi.
Sta
smettendo di nevica e io fra poco morirò. Non so, giorni, forse mesi, forse domani.
Sto ultimando la mia esistenza. Vorrei ricominciare tutto da capo. Perché
allora la grande ferita, lo smacco erano sanati da un abbraccio di mamma e da
una cioccolata calda.
Ci
sarà, per me, domani, l’abbraccio di Dio?
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