Il fuoco di Barbara
Lo
guardò con attenzione. Si convinse che era arrivato il momento.
“Tu sai cos’è la nostalgia, vero?”
L’amico, che ancora stava ravvivando
il fuoco, si girò lentamente, con un sorriso d’intesa.
“Se sei solo t’uccide.”
L’amico non sorrideva più; fece un
cenno col capo e si sedette al suo fianco.
Era un tramonto di inizio settembre
al rifugio Vicenza, casa di pietra fra i due Sassi delle dolomiti,
quello Lungo e l’altro, Piatto. Davanti a loro l’alpe soffiava verso le cime di
dolomia un profondo, fresco respiro.
“Dicevi...la nostalgia ammazza? Tu
non sei solo.”
Il fuoco saliva, scoppiettava,
scaldava e dava luce, una luce utile più tardi, quando il sole sarebbe affogato
oltre lo Sciliar.
Al rifugio erano cinque in tutto,
tre dentro e due fuori, vicino alla fiamma.
“Sei mai stato a donne? Dico... a
puttane?”
L’amico si sorprese per la domanda
ma neanche tanto, conoscendolo; sapendo dei suoi silenzi e delle sue parole
improvvise, delle sue sicurezze e dei suoi abbandoni. “Non si poteva” disse.
“E dopo?”
“Dopo è arrivata Giulia.”
“E dopo?”
“Dopo che?”
“Tua moglie ti basta?”
L’amico s’alzò, mosse la brace, soffiò sul rosso, si scansò e si risedette.
“Io mai...a puttane mai...poi
l’altra sera...”
“L’altra sera?”
“Sì, mercoledì. Era notte, rientravo
da una cena. Mezzanotte o poco più. Ho visto un fuoco al Campaccio, ho pensato
che lì non li avevo mai visti, i fuochi. Pensavo e ho fatto un po’ di strada.
In quel po’ ho visto soprattutto che sarei rientrato a casa, solo. Ho frenato.
Ho girato, mi sono avvicinato. Avevo il cuore a mille. Un abbraccio...per un
abbraccio solo, un corpo caldo, per un bacio sarei andato con
chiunque. Volevo solo una carezza, la nostalgia di una carezza...tu non puoi
capire. Hai detto che Giulia ti basta, non dire di no.”
L’amico non negò.
“Erano in due, una in piedi e
l’altra seduta, vicina al fuoco, maneggiava il fuoco. E cantava. Quella in
piedi trattava ma io ho guardato subito quell’altra. Era più bella...cantava.
Musica straniera, parole straniere. Un canto, triste e allegro.
Riempiva la notte.”
La notte stava scivolando anche lì,
sopra i duemila, ad oscurare un cielo senza un solo ricciolo di nuvola.
“Sai a cosa ho pensato?”
“A Barbara” disse l’amico.
“A Barbara ho pensato, a Barbara.”
Guardò verso l’alpe di Siusi ma in
realtà avrebbe dovuto girarsi, oltrepassare la forcella del Demetz, scendere al
passo Sella e poi a Canazei e correre giù per la val di Fassa e poi la val di
Fiemme e, a Predazzo, svoltare a sinistra su su fino al Passo Rolle e giù giù
fino a San Martino di Castrozza, all’albergo Fratazza, citato da Arthur
Schnitzler nel romanzo ‘La Signorina Else’, perché lì molti anni prima andavano
in vacanza ai monti lui e i suoi amici, anche l’amico che ora lo guardava in
attesa. A San Martino aveva conosciuto Barbara. A San Martino, ai piedi delle
Pale, all’ombra del Velo della Madonna, la Madonna non gli aveva fatto la
grazia. Nessun miracolo per lui.
C’era legna infuocata e nera lì al
Vicenza, altra legna nella bassa padana, dalle puttane, ma fuoco e canti e
calore e gioia e tutta una vita davanti c’erano soprattutto allora, al
Fratazza. C’era una chitarra e chi la suonava, si imparavano canzoni e ce le si
cantava addosso, per dire che non si aveva paura di nessuno, che gli altri
dovevano sentire la loro foga d’esistere, che il canto era solo un pretesto per
ballare, per darsi la mano, per toccarsi e per immaginare il bello del poi.
C’era Barbara, la sua Barbara.
Soprattutto lei, ora più grande della parete del Sasso Lungo, di tutte le Odle
messe insieme, del Sella e della Marmolada unite in amore; gigantesca anche
allora, la prima volta in val Cismòn, ma a quell’età che si capisce? Si buttano
tesori in latrina; una litigata, una
gelosia da ridere e sei annebbiato, non vedi più niente e
pensi che tanto, a quell’età...di Barbare ne trovi dietro ogni cantone...così
quell’anno, quell’estate, in ordinaria dalla naja a Bassano, era andato proprio
al Fratazza. Aveva scelto una sera di bivacco per fare la stronzata. Stavano
seduti schiena contro schiena, a lui il fuoco bruciava la guancia destra, il
gruppo cantava, fu costretto ad urlare per dirle che ci aveva pensato bene, che
sarebbe stato meglio per tutti e due, che non se la sentiva. Lei s’era alzata
di scatto. Lui aveva perso l’appoggio, era caduto all’indietro, goffo, con un
sorriso ebete. Gli altri cantavano, non Roberto, che la guardava anche sin
troppo, se la godeva già con gli occhi. Barbara non aveva pianto subito, s’era
messa a parlare proprio con Roberto, poi con le amiche. Aveva anche cantato
intorno al fuoco. Le lacrime le aveva regalate al letto, più tardi. La rabbia
gliel’aveva sputata in faccia sul ghiaccio della Fradusta, vento, neve e la
tempesta di lei che montava. E poi lettere, e anche lui scriveva perché era
convinto e argomentava la sua tesi di abbandono. Per il loro bene. L’anno dopo,
a pochi metri dal rifugio Rosetta, la vide per la prima volta mano nella mano
con Roberto. Non provò indifferenza, non provò gioia ma neppure invidia,
rabbia, disperazione...nostalgia...quelle sarebbero arrivate dopo, molti anni
dopo.
“La vedi? Vi vedete qualche volta?”
chiese l’amico.
“L’ho vista nel fuoco, la sera delle
puttane. Vuoi che te lo dica? Eccola, eccola in quelle fiamme” e le indicò. “Ho
le allucinazioni. La nostalgia fa impazzire. E la solitudine...”
Il grande silenzio dei monti
schiacciò le ultime parole. Il gestore del rifugio uscì, il bicchiere di vino
in mano, il mento barbuto teso verso le briciole del tramonto, sciolto nel
buio. “Bel fuoco!” disse, poi alzò il bicchiere come per un ‘alla vostra!’ ma
fece silenzio e gustò la bevanda. Rientrò.
Cominciava a far fresco. Neppure il
fuoco bastava più. Sarebbe stato necessario alimentarlo, accenderne altri ma
l’amico stava seduto, muto come è muta la roccia, che può far urlare.
“Quegli anni...belli le balle! Se
sbagli sei fregato, per la vita, e la vita è lunga, se soffri... la vita non
finisce più. Se sei solo...”
“Non sei un alpinista?” disse
l’amico. “Lupo solitario.” Sperava di dargli un po’ d’aria ricordando le loro
scalate e il capocordata era lui, quell’uomo ora piegato nel tentativo di ridar
fiato al fuoco.
“Entriamo, va là...”
“Hai fretta?” disse l’amico. Non era
ancora il momento. Dovevano stare all’aperto perché il magone potesse
quietarsi. S’alzò, si stirò verso le cime,
buttò un po’ d’acqua sulla brace, a fatica riuscì a distinguere il poco fumo
che scodinzolava verso le stelle, si mollò qualche schiaffetto sulle guance e
prese la direzione del rifugio. L’amico seguì il capocordata.
Nella
sua mente, ora, la camera più bella era pronta per Barbara. Forse l’amore per
le montagne l’aveva fregato. O forse era solo questione di destino, di
sfortuna, di coincidenze o di una frase che si dice in un modo ma si sarebbe
potuta recitare in un altro. E tutta una vita cambia direzione. Un bivio: si
può andare di qua e di là. Prima di chiudersi la porta del
rifugio alle spalle, respirò in un lungo fiato tutta l’aria fresca della val
Gardena. Alla sua Barbara regalò una buona notte speciale.
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