La grande nevicata del
duemilatredici
di carlozanzi
Incontrò un suo coetaneo.
Da lì partì l’idea della preghiera e tutto il resto. Era il ventidue febbraio
del duemilatredici, un caldo fuori stagione, venti gradi e le prime, temerarie
cavolaie a regalare zigzaganti giallotenui ai giardini tardoinvernali.
“Chi si vede.”
“Eccolo qua…come te la
passi?” disse lui.
“Ma lo senti che
caldo?” e una scrollata di capo. “Oimè…”
“Oimè?”
“Siamo in inverno. Ma
le belle nevicate di una volta? Te le ricordi?”
“Certo, ma…”
“Neve su neve” e fece
il segno con la mano, fermandosi all’altezza dell’ombelico.
“Bè, non esageriamo…”
“Vedo che perdi la
memoria. Battaglie a palle di neve, scuole chiuse…le stagioni erano stagioni,
quattro stagioni belle nette, definite…e quelle nevicate!” e rifece il gesto
con l’altra mano, arrivando sino ai capezzoli.
Si salutarono. A lui
rimase una diffusa amarezza, che lo condusse nella vicina chiesa parrocchiale.
Si inginocchiò. Pregò:
“Signore che governi
gli elementi, Dio della natura e delle nevicate di una volta, ti prego. Non lo
dico per la neve, che pure amo, e lo sai, lo dico per tutti i cinquantenni che
sono intossicati dalla nostalgia del tempo che fu. Non hanno sessant’anni e
campano di ricordi. Si precludono il futuro. Stanno sprecando ciò che resta
loro da vivere. Questo non lo sopporto. Signore, se ci sei, manda una bella
nevicata di una volta. Avrei una prova
inconfutabile del tuo esistere – per me sarebbe essenziale - e potrei
raccontare ai miei coetanei che il futuro può essere promettente. Mi dirai –Ma
fuori ci sono venti gradi e le magnolie hanno fretta, pretendi un po’ troppo-
So che lo puoi fare, mio Dio. E così sia.”
Uno scarabocchio di
segno di croce e uscì nell’abbaglio di un ventidue febbraio certamente estivo.
Attese. Già la sera si
rannuvolò. Brusco cala delle temperature il giorno dopo, ventitré febbraio, con
cielo sbarrato da una compatta controsoffittatura grigiastra. La sera, dopo il
tramonto, i primi fiocchi.
La notte non dormì,
meglio, dormì male, si alzò a più riprese a vigilare, scrutando fra le
fenditure della tapparella. Nella luce del lampione trovava conferma del suo
sogno, i fiocchi scintillavano, si rincorrevano, festeggiavano il loro ritorno.
Nevicò a larghe falde, ininterrottamente, il ventiquattro e il venticinque febbraio,
sino alle sedici e trenta. Ottanta centimetri ne nevicarono dal cielo, di
quella neve bella, candida e leggera, che s’aggrappa anche al più esile
filamento, che pittura di biancolatte ogni sporgenza, stucca ogni fessura,
gelida farina setacciata dall’immenso setaccio mosso dalle mani di quel Dio che
l’aveva accontentato.
Lo videro l’ultima
volta il venticinque febbraio, verso le diciassette, andare incontro al
tramonto in un pubblico parco cittadino, saltellando nella neve intonsa, talvolta rotolando, rialzandosi, spolverandosi
via la fiocca, e poi di nuovo la danza della festosa allegria per una neve di
quelle di una volta. Chi lo conosceva bene disse che probabilmente aveva fatto
una scoperta importante, non era sufficiente la nevicata a giustificare tanta
euforia. Forse, finalmente, aveva incontrato Dio.
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