martedì 12 novembre 2013

Il racconto del mercoledì

                                                                                foto carlozanzi


novembre

di carlozanzi

Si giunge ad un’età nella quale, guardandosi indietro o buttando gli occhi in avanti, viene da dire: “Tutto qui?” E vi è un mese votato a dare sostanza a tale domanda: novembre. Un mese che non ha il Natale di dicembre, non è estate, non è primavera, già, è autunno, ma un autunno che, dalle nostre parti, sa di pioggia, di nebbia, di primo freddo che punge. Il “Tutto qui?” vale per ogni mese e stagione, ma calza meglio su novembre. Anche se l’imprevedibilità –nota costante dell’esistere- non risparmia l’undicesimo mese dell’anno. Così l’altro ieri pioveva e pioveva e pioveva, sberle di goccioloni contro le larghe foglie dei platani, schiaffi sull’asfalto, umido e freddo; ieri la nebbia, la poltiglia delle foglie cadute, colori che s’annacquavano sul fondo viscido, e oggi sole, caldo, vento leggero che stacca e regala piroette alle foglie ancora abbracciate ai rami, la luce che attizza la natura non più fradicia, stordita dalla pioggia, risvegliata da un anticipo di primavera. Per fortuna ci sono le stagioni, a dirci che la monotonia è un’invenzione degli uomini.
E il sole di oggi mi ha buttato fuori casa. Ora sto scendendo di buona lena, dopo aver scalato gagliardamente la rizzàda che mena alla Madonna del Monte. Non ho fede. Meglio, non ho certezza di fede, cristiano senza chiesa (direbbe Silone), però quella via di sassi e di cappelle la percorro spesso, non solo perché vietata alle auto.
Ho passato, in caduta libera verso Varese, l’edicola di Oronco con la Madonna del Valtorta, poi la chiesetta di Fogliaro, e ancora la rossa facciata della chiesa (falso romanica) di Sant’Ambrogio. Voglio arrivare in centro, dove abito, senza prendere l’autobus. Voglio esagerare. Una sfacchinata, per dire che il “Tutto qui?” forse è solo probabile. Gustare tutta la luce possibile, anche perché, con l’ora solare, è già buio a metà pomeriggio.
Ora sono nella piazzetta del rione pedemontano, che so dedicata al Milite Ignoto.
Ho una debolezza per gli ignoti soldati, per tutti i militi che sono morti in guerra. Ho il più grande rispetto per quel sacrificio, spesso non voluto, imposto, reso possibile dall’unità di intenti, dalle stesse canzoni, dallo stesso minestrone nella gavetta. Provo disgusto verso chi deride (oggi, pancia piena e ideali vuoti) certe morti in battaglia, affrontate solo perché un ducetto voleva sedersi al tavolo della pace, con mani insanguinate del sangue altrui, purché fosse di italiani, cadaveri da barattare per terra e potere. Ho compassione perché temo che avrei fatto lo stesso, che avrei detto sì, che non avrei capito sino in fondo, che avrei seguito la massa sin dentro l’enorme fossa comune che furono le due guerre mondiali. Ed è questa laica venerazione verso i troppi militi morti che mi blocca il cammino. Per questa ragione, ma anche perché vedo, ai piedi del monumento, una piccola folla. M’accosto, senza entrare nel gruppetto. Noto subito un prete. Non che ce l’abbia coi preti, per carità. Un tempo ero implacabile: mestieranti. Poi mangi pane e debolezza, sale e caducità, quindi capisci, giustifichi, solidarizzi. Questo mi pare un prete canonico, un prete con la faccia da prete, nato per fare il prete. Niente di interessante, dunque. Poche parole e passa il microfono da campo ad un tipo allampanato, anziano ma dritto di schiena; anche qui, non lunghi discorsi, voce un po’ impastata e (capisco che è il politico locale) deposizione di un vaso di crisantemi alla base del monumento.
Ho già notato, facendo con gli occhi la conta dei presenti, un signore elegante, ottant’anni tutti, soprabito di buona fattura e cappello da alpino, con i fregi da ufficiale. Nella successione degli interventi, tocca a lui. Gesti misurati, modi solenni, intuisco che porta dentro il mio stesso rispetto per i caduti, con l’aggiunta che lui ha visto, c’era, avrà perso amici, conoscenti, parenti. Legge un brano, da un libro (mi sfugge il titolo) di Victor Hugo.
Il vento leggero e tiepido scolla le foglie degli ippocastani, che danzano lievi toccando con rassegnazione i sassolini del selciato. Nella piazza e lungo la via Virgilio auto, gente che passa e urla, che canta e chiacchiera. Intorno al monumento un’isola di silenzio, e le parole scandite con enfasi dal vecchio ufficiale degli alpini. Che mi è simpatico, perché è fuori dal tempo ma è uno che ci ha creduto, e ci crede. Saldo ancora sulle gambe, nonostante l’età.
La modesta commemorazione mi regala la voglia di pregare.
Non è finita. Tocca poi ad un ometto originale, senza capelli, naso importante. E’ il solo che conoscerò per nome –o per soprannome- perché più d’uno lo invoglia: “Dai, Pasqualino…Sì, sì, la poesia…vai…”
Parla sciolto, con voce preparata. Senza allungare il brodo, fa capire che leggerà due poesie, in dialetto milanese, di un certo Carletto Pierotti, a suo dire un ottimo poeta; liriche che, precisa, saranno intonate alla circostanza. Il dialetto mi blocca ancora in quella piazzetta, in piedi, fra gente che non conosco. Il dialetto è la voce della mia infanzia; di più, è lo strumento che più mi approssima a mio padre e mia madre, morti non in guerra, ma sempre prima di quanto mi sarei aspettato; benché fare previsioni sulla morte sia segno di profonda incompetenza.
“La prima si intitola ‘I fior del lager’” dice il signor Pasqualino, e attacca: “In del campett dedree a l’infermeria,/sora la sabbia crèss l’erba gramegna,/la ven su a scepp, anca se gh’è l’ombria,/anca se gh’è nissun che la mantegna./”
Pasqualino prende fiato, segno che è finita la prima quartina. Riesco a distinguere le differenza fra il vernacolo milanese e quello che parlavano i miei. La cosa non mi disturba. E l’ometto prosegue: “I campaninn selvadegh se spanteghen/come on ricamm faa da ona man pietosa,/rampeghen sora i legn, poeu se dondinen/al gioeugh del vent, compagn d’on vell de sposa.” Altra paura. Colpi di tosse, voci lontane. Anche il traffico pare voler offrire un po’ di rispetto ai defunti. “Gh’hann minga de profumm. El so color/l’è smont istess de chi riposa sotta:/ghe fann capì ch’hinn minga deperlor,/anca se sora i cros gh’è scritt nagotta./ Hinn fior miss dal Signor cont el so amor./El nòmm el cunta niente: Lù je cognoss./Hinn fior senza profumm, senza color,/sbiavii de foeura…ma i radis hinn ross!”
Il lettore calca la voce sulla chiusura. Qualcuno accenna un applauso. Altri dicono “Bella!” e trovano, da parte mia, piena condivisione.
Non vi descriverò, riportandola per intero, la seconda poesie di Pierotti, sempre di buona fattura (per quanto possa capirne io di poesia). Dirò in sintesi che è la storia commovente di un padre che ogni giorno, di sera, va alla stazione e si ubriaca, in attesa del figlio che, caduto al fronte, non può più tornare da lui. Ma lui non ci crede. Non può crederci. Perché –questo lo dico io, non il Pierotti- nessuno può credere possibile la morte di un figlio. Nessuno può credere che si possa sopravvivere ad un tale lutto. Eppure i figli muoiono anche prima dei padri, e non tutti i padri muoiono a motivo di tanta sofferenza.

Dirò solo, per chiudere, che il mio volo verso il centro, favorito dalla discesa, è stato comunque molto leggero, sospinto dal vento e dal bisogno di pregare, dentro mulinare di foglie e arcobaleni di luce, nella novità e nella gioia, nella gioia frutto della novità. Pressappoco il contrario di quel “Tutto qui?”, da dove eravamo partiti. 

Questo racconto è tratto dalla raccolta 'Una città in cornice' Macchione editore 2004)         

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