A mamma Ines
RISO E VINO
di carlozanzi
Nella pentola scivolò olio extravergine di
olia.
Accese la fiamma, fece piovere dal
ristretto cielo della sua cucina cipolla tagliata sottile, che trovò il
condimento e cominciò a scaldarsi. Fiamma controllata, era stata lei a
raccomandarsi: “Fuoco basso, la cipolla deve soffriggere adagio. La fretta fa
danni in cucina. Gira con un cucchiaio di legno e aspetta. Si imbiondisce
lentamente.” E lui così aveva fatto, da allora. Guardando sul fondo la rivide.
Ebbe l’idea: due calici, uno per lei e uno per lui, e il Gewurstraminer, il vino che lei amava. La bottiglia era in frigo,
per le occasioni. Quella stava diventando un’occasione. Il vino era fresco, la
cipolla prendeva colore, stappò, versò nei due calici. Li raccolse entrambi,
uno con la destra, l’altro con la sinistra. Fece incontrare i cristalli, che
liberarono il suono della nostalgia. “Alla nostra!” disse guardando il volto
immaginato della persona amata. Bevve il vino nel primo calice, quello di
destra. La cipolla soffriggeva senza annerirsi, sollevò il secondo calice,
disse “Mi manchi” e bevve ciò che spettava a lei, troppo distante.
Era il momento del riso, un bicchiere colmo
“Mi raccomando, che sia Carnaroli” e la qualità giusta volò saltellando e scoppiettando nel soffritto. Seguirono i
cerchi per rimestare con il legno, “Un paio di minuti, massimo tre, poi il
vino” e venne il tempo del Gewurstraminer,
che allagò il riso ma subito scappò dal calore, volgendo a vapore, una nuvola
profumata d’uva che salì dalla pentola con un verso, come il lamento di chi si è
scottato.
A quel punto, lo spazio del vino, avvenne
il miracolo. Non aveva sfregato la lampada di Aladino, ma quel vapore divenne
il genio della sua vita, lei, la madre che lo aveva educato, bambino, nell’arte
del risotto alla milanese. Lei sconfitta dalla vita, vinta dalla morte, sempre
presente nel risotto e nei sogni.
“Davvero speciale questo Gewurstraminer” gli disse, afferrando
con delicatezza il suo calice e chiedendo di nuovo l’assaggio.
“L’ho pagato un cifra ma ne valeva la pena,
se t’ha fatto tornare” disse lui, con emozione stupita.
Cozzò il loro brindisi, mentre il riso
friggeva, povero di vino.
“Il brodo, il brodo” disse la madre. “Ben
caldo, mi raccomando.”
“Naturalmente, lo so molto bene” disse lui.
Dal fuoco di destra raccolse la pentola con
il brodo, versò il liquido sopra il riso, i funghi porcini, una spruzzata di
sale. Allungò il cucchiaio di legno alla madre: “Vuoi fare tu?”
“Vorrei, sai che lo vorrei con tutta me
stessa.”
“Non puoi?”
“Te l’ho insegnato proprio per questo,
perché non ti dimenticassi. E ho fatto bene. Hai buona memoria.”
“Non te ne andare.”
“Aggiungi del brodo, gira adagio il tuo
risotto.”
“Il nostro risotto.”
“Dici bene…il nostro risotto.”
Lui stava nel mezzo, da un lato il profumo
che usciva dal fuoco, dall’altro il profumo della madre amata, due piaceri che
si univano, regalandogli uno spazio di pace. Ma l’incontro non durò a
lungo. E quando non la trovò più, e il
suo chiamarla era una sfida già persa, si sedette, prese la bottiglia di vino e
volle ubriacarsi. Ne bevve a canna, tre sorsi.
Il riso aveva di nuovo sete.
“Il brodo, il brodo” disse. “Non me lo
perdonerebbe.”
Posò la bottiglia, si mise in piedi,
accettò di continuare la sfida: il risotto sarebbe stato la sua quotidiana
resurrezione.
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