Il
miracolo della pasta e fagioli
di carlozanzi
Quando Chiara arrivò nella piazzetta del paese, e si rese conto che già
una lunga colonna s’era formata fra la sua voglia di pasta e fagioli e i
pentoloni che sfiatavano buon odore, un po’ ci rimase male. Perché faceva
freddo, non aveva voglia di fare la coda e, soprattutto, voleva gustare la
pasta e fagioli. La mangiava una volta all’anno, il sette dicembre, perché in
quella ricorrenza, Sant’Ambrogio, patrono del suo paese, così dettava la
tradizione, che suo padre rispettava, e che lei aveva imparato a seguire come
s’obbedisce ad un segnale che dà luce alla notte.
Unì la sua pazienza a quella di chi lì l’aveva condotta, come ogni
anno, tenendo la pentola in mano, con il coperchio chiuso da due elastici: suo
padre, appunto, un tipo quieto e rispettoso di taluni appuntamenti fissi. Quasi
una manìa, che lei non giudicava tale; anzi, era contenta della pasta e
fagioli, e anche del vin brulè, che non aveva mai assaggiato –data la giovane
età- ma che quell’anno aveva in mente di chiedere, come contropartita alla
pazienza e al freddo.
Chiara non aveva mai messo in bocca pasta e fagioli, se non in
quell’occasione. Ma ne aveva sentito parlare, soprattutto da suo nonno: piatto
unico dei vecchi, roba sostanziosa, completa, e poi allora non c’era altro,
altro che carne, frutta, altro che dolci, caramelle, torroni, televisione,
computer, giochi elettronici. Solo pasta e fagioli, polenta, mandarini per
Natale.
Già…Natale. Il Natale c’era quasi tutto in quella piazza: luci e un bel
presepe, con le statue (solo tre in verità, Maria, Giuseppe e il Bambino) a
grandezza naturale. Ma del Natale c’era l’acquolina in bocca dell’attesa, che
s’univa all’acquolina della pasta e dei fagioli, del vin brulè e del panettone,
che di lì a diciotto giorni avrebbe trovato in tavola.
E anche lì, un’altra tradizione: il suo papà avrebbe messo da parte
l’avanzo del panettone, tagliato al compimento del pranzo (doveva essere
quell’avanzo e non altri), e l’avrebbe ritirato fuori il tre febbraio, San
Biagio, protettore della gola. E lei, quel mattino, si sarebbe trovato vicino
alla tazza del caffèlatte il pezzettino di dolce, da mettere in bocca come una
medicina, a stomaco vuoto e dopo un segno di croce.
Questo era suo padre, che adesso, vicino a lei, parlava con una
compaesana delle solite cose: figli, salute, freddo, neve che ‘verrà o non
verrà?’.
Gli immancabili furbi non rispettavano la colonna. Qualcuno era
rimandato indietro, altri erano sopportati per pietà. Fece caso ad un tipo che
barcollava, piccoletto, malcurato, certo anche un po’ ubriaco, che alcuni
canzonavano soprannominandolo Cù bass. Senza nemmeno cercare di fare il furbo,
forse convinto che la sua indigenza gli desse ogni ragione per saltare la fila,
si portò davanti al pentolone. Non era l’unico che approfittava di quella pasta
e fagioli gratis (in verità si chiedeva un’offerta, ma non vigeva l’obbligo)
per fare la scorta. Famiglie si presentavano con grosse pentole e, magari con
soli cinque euro di offerta, portavano cena per dieci persone. Cù bass allungò
il piatto di plastica, fece cenno che non era abbastanza, fu accontentato,
deriso e compatito. Se ne andò traballando, mettendosi seduto proprio vicino al
presepe. Dopo qualche cucchiaiata si alzò in piedi, si piazzò davanti alla
Sacra Famiglia, fece cenno di allungare il cucchiaio, quasi a voler imboccare
il Gesù infante, sorrise, parlottò fra i denti qualcosa e si rimise seduto,
continuando la cena.
I più consumavano la pasta e fagioli in piedi, appoggiando il piatto da
gettare sopra alti tavolini.
E venne l’ora di Chiara.
“Abbiamo fatto mezz’ora di coda, meno dell’anno scorso” disse suo
padre.
Da un paio d’anni la ragazza preferiva gustarsi il piatto unico non a
casa ma lì, insieme agli altri, anche se al tavolino ci arrivava solo
mettendosi sulla punta dei piedi.
“Attenta a non intingere la sciarpa nel brodo”: era una delle tante
raccomandazioni di suo padre, che con pazienza, stringendo la pentola bollente
(lui la cena l’avrebbe fatta nella cucina di casa) guardava un po’ la figlia,
un po’ la gente e un po’ la luna che, nonostante il gran freddo, pareva
sciogliere le nuvole con il suo tiepido calore riflesso.
“Scotta!” disse Chiara, che era costretta a dover attendere ancora,
quando avrebbe voluto mandar giù a grandi bocconi quella pietanza, attesa da un
anno.
“Adesso va bene, si può mangiare” e Chiara gustò la prima cucchiaiata.
Tradizione rispettata. Ma soprattutto un piacere rinnovato. Era a temperatura
giusta, la pasta né cruda né scotta, i fagioli che parevano polpettine di
carne, non troppo brodosa ma neppure troppo asciutta. Si sentiva profumo di
spezie, un po’ d’oriente in un piatto del nord. Mangiava e frugava fra la
gente. Gli anziani non erano poi molti: la pasta e fagioli piaceva anche ai
quarantenni e ai ragazzini come lei.
Cù bass era già tornato un’altra volta con il piatto allungato, mezza
pasta e fagioli l’aveva rovesciata in terra perché tremava un po’ tutto,
l’altra metà l’aveva mangiata, e adesso tornava alla carica per il vin brulè.
Naturalmente, sul vino, ci furono delle resistenze: “Uno e poi non ti fai più
vedere, te capì?”
“Va ben, ho capì, sun mia ciocch!” si giustificava Cù bass, e intanto
beveva con gli occhi quel vinello caldo, condito con i chiodi di garofano.
Chiara partì alla carica. “Papi, non prendiamo il vin brulè?”
“Sai che non lo bevo…a parte un anno, che ci saranno stati dieci gradi
sotto zero.”
“Dicevo per me” e pronunciò la richiesta con una naturalezza da
diciottenne.
“Hai freddo?”
“Un po’.”
“Se proprio…”
“Sì, proprio…”
Come nelle favole, quando ogni richiesta può venire esaudita, anche in
quella piazzetta di una Castellanza di periferia la voglia di vino caldo di
Chiara trovò soddisfazione.
Tornò il padre. “Un goccio per uno, però.”
“Bene, però parto io” disse Chiara, che volle il bicchierino tutto per
sé, rifiutando che suo padre glielo porgesse alle labbra.
Il profumo era così intenso, che quasi starnutì. Ma il liquido color
sangue era ottimo. Ne bevve poco poco, lo trattenne rimpallandoselo fra i denti
e la lingua, lo fece raffreddare e poi giù, come rosolio. Una, due, tre,
quattro volte, e nel bicchiere non restò che un anello rossastro e un po’ di
vapore al vin brulè.
“E’ un miracolo che mi hai fatto bere il vino” disse Chiara.
“Come…l’hai finito?”
“L’è ‘n miràcul!” diceva un tale (forse uno degli organizzatori della
mangiata) ad un altro. “Gh’eva mia la Juve alla tele? Tè vist la gent?”
questo racconto breve è tratto dalla raccolta 'Una città in cornice' (Macchione editore-2004)
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