Notte
di Natale
di carlozanzi
Entro
nella pancia della notte di Natale con il malinconico piacere del vittimismo. Sono
da poco passate le ventitré del ventiquattro dicembre. Ho consegnato gli ultimi pacchetti: tortellini, ravioli, pasta al forno,
cannelloni. Il Ciao verdemarcio è in garage. Ho addosso il profumo, infine
nauseante, dopo molte ore, del Pastificio Bolognese di piazza della Repubblica.
Ho salutato il maestro, il Peppino, la Luciana e quel tipo alto e secco, che
tiene i conti con l’orologio di quanto sto al cesso, e se sgarro mi dice: “La
merda si va a farla quando è matura.” Non è che sia un mostro di simpatia ‘sto
tizio, ma alla fine c’è di peggio.
Cammino
nella notte verso casa. Taglio in diagonale piazza Repubblica, alla mia
sinistra il mercato vecchio, i negozietti, il bar Firenze. Fa freddo. Mi fascio
nel cappotto, mi stringo addosso il suo calore, ora vorrei piangere. E così il
vittimismo corre col mio giovane sangue. Credo c’entri il fatto che all’inizio
il Natale è magia, è la festa più desiderabile, è il miracolo possibile e poi
un giorno si scopre che il Bambin Gesù è solo tuo padre, la Madonna tua madre.
Si rimane male. Ci si sente vittime di un tradimento. Si cresce, certo, si
dimentica e si scoprono altre gioie ma la ferita rimane. Per questo cammino
nella santa notte ma non sono felice. Un po’ di zucchero in verità lo gusto,
perché mi hanno tradito, la colpa è loro, non mia, sono innocente, me l’hanno
fatta, è giusto che mi stringa nel cappotto e nella mia malinconia, che mi fa
star bene. Cammino lento, so che ad attendermi a casa non ci sarà nessun Re
dell’Universo che reca doni, in fondo sono triste anche perché ho dovuto
lavorare (io, ancora giovane studente delle medie) sin quasi al colmo della
notte per guadagnare qualche soldo, indispensabile per regali alla mia portata.
Perché i miei fanno regali, certo, ma so già che non arriveranno ai miei
desideri. Non li completeranno. Così ci metto del mio, mi compro ciò che voglio
però non è giusto, sono ancora uno studente, fare lo studente lavoratore pesa,
soprattutto la notte di Natale, quando si vorrebbe precipitare nel magico sonno
che non dorme, e vegli sino al mattino, quando ci daranno il permesso di alzarci
e di continuare a sognare: che si può essere felici.
Cammino
verso casa, nella notte di Natale. Non c’è gran traffico, la Messa della
mezzanotte è ancora lontana, molti siedono a tavola per il cenone della
vigilia, a casa mia niente cena speciale, i miei staranno già dormendo, o forse
li sorprenderò nel goffo tentativo di riproporre un segreto ormai svelato.
Forse ci sarà la porta chiusa con il cartellino: ‘Non si entra in sala’.
Ma
alla fine che voglio? Magari non regali ma un abbraccio, due abbracci e tanti
baci, mamma e papà che mi accolgono, si complimentano “Sei un ometto!”, mi
spianano la rivoltina, mi baciano sulla fronte. O forse non mi sta bene nemmeno
così, perché non potrei più cuocere a fuoco lento in questo senso di dolce
abbandono nella commiserazione, nella contemplazione di una vita ingiusta,
inadatta a come sono fatto io.
Cammino
nella complicazione dell’esistere aumentando il passo, fa freddo, vorrei
scaldarmi, la mia abitazione non arriva mai, ora desidero solo dormire. Un
mendicante cammina strascicato, sta andando verso un vagone alla stazione delle
Ferrovie Nord Milano, lì passerà la notte di Natale. Non mi fa pena. Mi fa
paura. Aumento la frequenza della camminata. Corro. Il mio appartamento modesto
ma riscaldato mi accoglierà. E forse, domattina, al mio risveglio dimenticherò
di essere a metà strada, né bambino né uomo. E i miei diranno: “Alzati,
piccolo, Gesù Bambino non si è scordato di te.”
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