ottobre
D’ottobre, a Varese, piovono castagne.
No, non vi parlerò di
nonno o nipote, di padre e figlio che se ne vanno per i boschi, in cerca del
frutto ottobrino. Non di quelle belle camminate dalle parti del Poggio, o nei
boschi di Velate, di Brinzio, del Monte Sette Termini. Varese, la mia città, è
per dir così abbracciata dai castani, benefica edere rampicante che avvolge la
periferia, rendendola zuccherina. Non vi narrerò di quel crepitare di foglie
secche, sotto i piedi dei cercatori di castagne, né della perizia necessaria
per sgusciarle, senza trafiggersi i polpastrelli di spine. Non vi descriverò la
soddisfazione di quando si capita sotto un pianta e l’occhio vede subito che è
quella buona: grosse, e già scartate, come caramelle pronte alla degustazione.
E –anche se ne avrei voglia- tralascio il racconto di quando mio padre ed io,
sempre ai primi giorni di ottobre, verso sera, scendevamo di casa, curva a
sinistra, un centinaio di metri ed eravamo in Villa Toeplitz, con i sacchetti
in mano. Il buon vecchio andava sul sicuro: i primi frutti erano là, inesorabilmente
là, vicino alla casupola diroccata, due tre piante note perché erano le prime a
liberarsi dell’acuminato fardello, regalando ai cercatori le perle autunnali.
Dirò solo che lui, papà, mi batteva sempre: un chilo io? Un chilo e mezzo lui.
Due chili nel mio sacchetto? Tre nel suo. Le più grosse me le regalava. Non
visto (così credeva) le infilava nella mia busta di cellophane. Gioiva.
Che vi dirò allora, dell’ottobre
castagnolo?
Scriverò di quel profumo che, a sera,
durante la cena, s’alzava dai fornelli e svolazzava per la cucina. Una mistura
di aroma e di calore, di chiacchiere e di televisore che gracchiava. Un profumo
di castagne che, oggi, cerco di imitare, seguendo la ricetta passo passo, ma
non ci riesco.
Questa la ricetta. Verso le diciannove,
mio padre andava in balcone, prendeva la cassetta dei frutti color cappella di
boletus pinicola, un coltellino con il manico rosso e dava il via al taglio.
“Deve essere lungo” diceva “tanto
quanto la metà convessa. Profondo, ma non tanto da incidere la polpa.” “Se no?”
“Se no la castagna si apre in cottura e non si sbuccia bene.” Aveva, il
vecchio, la mania per il momento –decisivo- della spellatura.
Usava una pentola senza buchi. “Non è
necessaria quella coi buchi, sai? Quella che vendono al mercato, apposta per le
castagne. Noi le facciamo sul fuoco, questa va più che bene.”
Quando s’era detta la preghiera, prima
della cena, mio padre s’alzava e metteva fuoco sotto la pentola, una fiamma
vivace, senza coperchiare i frutti. Non lo ripeteva, perché ormai lo sapevamo.
Ma ripetendolo, avrebbe detto: “La fiamma, in principio, deve essere alta, così
la buccia si apre, la pellicina anche, e si vede il bianco. Più bianco si vede,
meglio verrà la sbucciatura. E girarle spesso, devono prendere il nero, ma solo
sulla buccia.”
Allora, dopo pochi minuti, saliva il
profumo d’autunno, con la fiamma viva che scaldava la piccola cucina.
La cena, per mio padre, era un continuo
alzarsi e risedersi, rimestare e mangiucchiare, in attesa del dolce, alla fine.
“Al momento giusto” diceva le prime
volte “bisogna abbassare la fiamma, quasi al minimo, e mettere il coperchio,
continuando a girare ma con minor frequenza.”
Era questione di metodo e di tempismo.
Qualche attimo prima della frutta, lui s’alzava di nuovo, via il coperchio, su
la fiamma per il tocco finale, l’ultima abbrustolita. Dovevano essere pronte
quando la cena era alla stretta finale. Versava le castagne in un contenitore,
che sistemava in mezzo alla tavola come un trofeo. Quasi a dire: “Mangiatevele,
adesso, che sono perfette!” Perfette, cioè disposte a sbucciarsi con pochi
attriti di polpastrello, prima la scorza grossa, poi la pellicina sottile, che
doveva polverizzarsi senza far penare. Il frutto doveva presentarsi ai denti,
alla lingua, al palato, morbido e insieme caramellato.
“Senza il Lambrusco valgono la metà”
diceva, beandosi per i frutti che avevano obbedito ai suoi comandi,
prendendosela con i ribelli, troppo neri, riottosi alla spellatura, crudi in
più punti.
Si parlava, e nel parlare mio padre
voleva nascondere la sua golosità, che andava dalle castagne (cinque-sei, non
di più) alle noci (le prime, fresche, un paio al massimo, con la pellicina
umida da eliminare) all’uva col pane, alle prugne secche, al caffè coi biscotti,
alla scaglia di cioccolato.
Sarà nel girone dei golosi, il mio
vecchietto. Ma non all’inferno. Credo ve ne sia uno anche in purgatorio. E
perché no? I golosi anche in paradiso. Come artista (delle castagne) e come
cultore del piacere di campare.
Questo racconto è tratto dalla raccolta
Carlo Zanzi 'Una città in cornice' (2004-Macchione editore)
con foto di Carlo Meazza
Questo racconto è tratto dalla raccolta
Carlo Zanzi 'Una città in cornice' (2004-Macchione editore)
con foto di Carlo Meazza
Bello raconto... mi piace tanto...
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