martedì 8 ottobre 2013

Il racconto del mercoledì


ottobre


D’ottobre, a Varese, piovono castagne.
No, non vi parlerò di nonno o nipote, di padre e figlio che se ne vanno per i boschi, in cerca del frutto ottobrino. Non di quelle belle camminate dalle parti del Poggio, o nei boschi di Velate, di Brinzio, del Monte Sette Termini. Varese, la mia città, è per dir così abbracciata dai castani, benefica edere rampicante che avvolge la periferia, rendendola zuccherina. Non vi narrerò di quel crepitare di foglie secche, sotto i piedi dei cercatori di castagne, né della perizia necessaria per sgusciarle, senza trafiggersi i polpastrelli di spine. Non vi descriverò la soddisfazione di quando si capita sotto un pianta e l’occhio vede subito che è quella buona: grosse, e già scartate, come caramelle pronte alla degustazione. E –anche se ne avrei voglia- tralascio il racconto di quando mio padre ed io, sempre ai primi giorni di ottobre, verso sera, scendevamo di casa, curva a sinistra, un centinaio di metri ed eravamo in Villa Toeplitz, con i sacchetti in mano. Il buon vecchio andava sul sicuro: i primi frutti erano là, inesorabilmente là, vicino alla casupola diroccata, due tre piante note perché erano le prime a liberarsi dell’acuminato fardello, regalando ai cercatori le perle autunnali. Dirò solo che lui, papà, mi batteva sempre: un chilo io? Un chilo e mezzo lui. Due chili nel mio sacchetto? Tre nel suo. Le più grosse me le regalava. Non visto (così credeva) le infilava nella mia busta di cellophane. Gioiva.
Che vi dirò allora, dell’ottobre castagnolo?
Scriverò di quel profumo che, a sera, durante la cena, s’alzava dai fornelli e svolazzava per la cucina. Una mistura di aroma e di calore, di chiacchiere e di televisore che gracchiava. Un profumo di castagne che, oggi, cerco di imitare, seguendo la ricetta passo passo, ma non ci riesco.
Questa la ricetta. Verso le diciannove, mio padre andava in balcone, prendeva la cassetta dei frutti color cappella di boletus pinicola, un coltellino con il manico rosso e dava il via al taglio.
“Deve essere lungo” diceva “tanto quanto la metà convessa. Profondo, ma non tanto da incidere la polpa.” “Se no?” “Se no la castagna si apre in cottura e non si sbuccia bene.” Aveva, il vecchio, la mania per il momento –decisivo- della spellatura.
Usava una pentola senza buchi. “Non è necessaria quella coi buchi, sai? Quella che vendono al mercato, apposta per le castagne. Noi le facciamo sul fuoco, questa va più che bene.”
Quando s’era detta la preghiera, prima della cena, mio padre s’alzava e metteva fuoco sotto la pentola, una fiamma vivace, senza coperchiare i frutti. Non lo ripeteva, perché ormai lo sapevamo. Ma ripetendolo, avrebbe detto: “La fiamma, in principio, deve essere alta, così la buccia si apre, la pellicina anche, e si vede il bianco. Più bianco si vede, meglio verrà la sbucciatura. E girarle spesso, devono prendere il nero, ma solo sulla buccia.”
Allora, dopo pochi minuti, saliva il profumo d’autunno, con la fiamma viva che scaldava la piccola cucina.
La cena, per mio padre, era un continuo alzarsi e risedersi, rimestare e mangiucchiare, in attesa del dolce, alla fine.
“Al momento giusto” diceva le prime volte “bisogna abbassare la fiamma, quasi al minimo, e mettere il coperchio, continuando a girare ma con minor frequenza.”
Era questione di metodo e di tempismo. Qualche attimo prima della frutta, lui s’alzava di nuovo, via il coperchio, su la fiamma per il tocco finale, l’ultima abbrustolita. Dovevano essere pronte quando la cena era alla stretta finale. Versava le castagne in un contenitore, che sistemava in mezzo alla tavola come un trofeo. Quasi a dire: “Mangiatevele, adesso, che sono perfette!” Perfette, cioè disposte a sbucciarsi con pochi attriti di polpastrello, prima la scorza grossa, poi la pellicina sottile, che doveva polverizzarsi senza far penare. Il frutto doveva presentarsi ai denti, alla lingua, al palato, morbido e insieme caramellato.
“Senza il Lambrusco valgono la metà” diceva, beandosi per i frutti che avevano obbedito ai suoi comandi, prendendosela con i ribelli, troppo neri, riottosi alla spellatura, crudi in più punti.
Si parlava, e nel parlare mio padre voleva nascondere la sua golosità, che andava dalle castagne (cinque-sei, non di più) alle noci (le prime, fresche, un paio al massimo, con la pellicina umida da eliminare) all’uva col pane, alle prugne secche, al caffè coi biscotti, alla scaglia di cioccolato.
Sarà nel girone dei golosi, il mio vecchietto. Ma non all’inferno. Credo ve ne sia uno anche in purgatorio. E perché no? I golosi anche in paradiso. Come artista (delle castagne) e come cultore del piacere di campare.


Questo racconto è tratto dalla raccolta 
Carlo Zanzi 'Una città in cornice'  (2004-Macchione editore)
con foto di Carlo Meazza


1 commento: