La croce
di carlozanzi
Siedo di fronte a mio padre. E’
sdraiato a letto, compirà novant’anni fra tre giorni, sopra di lui un
crocifisso. Osservo la croce e faccio due conti. L’hanno comperata, lui e mia
madre, più di sessant’anni fa, in un negozietto della Val Gardena. Non era
ancora nato ma questo acquisto è stato motivo di molte narrazioni quando,
ragazzi, si mangiava insieme. Ascoltata due o tre volte questa storia del crocifisso
noi avremmo voluto passare ai giochi, sapevamo la trama, che mia mamma
preferiva mettere sopra il letto grande di giovane sposa una Sacra Famiglia e
mio padre una croce, chissà perché. Gli sposi non ancora graffiati
dall’abitudine sanno trovare compromessi, così il compromesso era stato
raggiunto: la Sacra Famiglia sopra la testa di mia madre, la croce sopra il
cuscino di mio padre.
Guardo il muro (che avrebbe
bisogno di una rinfrescata), della Sacra Famiglia si nota solo la traccia,
lasciata dalla luce, il contorno di quel quadro, che mio padre ha riposto non
so dove, dopo la morte di mia madre. Resta la croce.
Non ho mai saputo perché il
vecchio (il vecchio di oggi) preferisse già così giovane quei due legni incrociati,
con il Cristo gardenese che pende in avanti, perfetto nelle proporzioni, un
drappo a coprire le vergogne (ma perché dovremmo aver vergona?), gli occhi
chiusi, nessuna smorfia sul volto. Il loro ripetuto racconto si fermava in
superficie. Oggi, se non avesse l’influenza, glielo chiederei. E molto altro
domanderei a mio padre, ma forse una cosa su tutte, che non è una domanda ma un
imperativo: insegnami a morire.
Lo osservo, respira a fatica ma è
solo influenza, il medico dice che non c’è alcun pericolo, l’uomo che mi
generò, in un abbraccio con la sua donna, ha novant’anni e insieme la gran
fortuna di una salute che gli invidio. Non è certo in pericolo di vita, ma è
cotto dalla febbre e non posso certo domandargli perché mi ha messo al mondo,
costringendomi a morire.
Apre gli occhi, sorride,
tossisce, vuole la mia mano, scotta, la sua mano destra è gonfia, pare un
tizzone che arde.
“Va a ca’” mi dice, poi zoppica in altra tosse, non riesce a
continuare, mi butta in faccia un altro mezzo sorriso e socchiude gli occhi.
“C’è tempo” gli rispondo e
capisco di volergli bene, perché non sto a disagio in quella camera senz’aria.
Mi verrebbe da dire che mi siedo lì volentieri, e lui mi fa pena. Ripeto: non è
in pericolo di vita. Mi fanno pena i suoi pensieri, perché ad altro non può
pensare un uomo della sua età: sta arrivando, ormai. E forse riflette su un
desiderio che oggi è il mio: ‘Devo sapergli regalare questa certezza. L’ho costretto
a vivere, oggi gli dimostro che si può uscire con dignità, soffrendo ma senza
soccombere, vinti dall’angoscia del nulla.’
La vita è questo quotidiano
adattarsi alla morte. E il non pensarci è forse la forma più elementare e
vincente. Ma quando si avvicina e ci presenta il foglio, che attesta la nostra
resa, fingere di non vederla non è distrazione da uomini. A quel punto, quando
i nostri figli ci guardano con le lacrime agli occhi, allora tutti devono dimostrare
di essere eroi. Devono trattenere la paura (almeno una parte), devono soffocare
l’angoscia (o quanto meno la parte peggiore), e noi dobbiamo capire che la
speranza può reggere sino in fondo.
Perché il mio vecchietto scelse
la croce? Per furbizia? Per saggezza? Aveva inteso che era meglio partire per
tempo, giocare in anticipo, prevenire? Regalarsi l’incrocio dello scandalo,
insieme all’ebbrezza della prima nudità condivisa? Goduta?
“Go cald…damm un gott d’aqua…”
S’è svegliato di nuovo. “Tieni” e
gli porgo il bicchiere, lo reggo per la nuca, lui sorseggia, tossisce di nuovo.
Gli tocco la fronte. Brucia. Gli porgo un panno umido, che se lo tenga in
testa, temo che gli vada arrosto il cervello.
“Lasa perd…al servìss a nagòtt”
“Vedi tu” ma forse dovrei essere
più impositivo, obbligarlo nonostante il medico minimizzi. Ma a dispetto
dell’età difende la totale autonomia. Non vuole dar peso ai suoi figli. Sa di
averci messo sul groppone un macigno. Quello basta. Ma il perso non è reggergli
il capo e bagnargli le labbra; pesa che lui è solo un anticipo del nostro
destino. Una prova.
Prende fiato, raccoglie ciò che
resta dell’aria che hanno pensato per lui; la ricaccia di fuori, tramutata in
un lungo sospiro che racconta di risposte impossibili: “Sa te vöratt fa cusè.”
Lo guardo e sorrido: “Già…”
“A cosa pensi?” mi chiede pochi
secondi dopo che la pendola ha battuto i dodici colpi del mezzogiorno e sto
pensando che forse è davvero tempo che vada.
A cosa pensi? Domanda inattesa posta
da lui, tanto rispettoso dei nostri pensieri da sembrare distratto. Glielo
dico? Mi confido? E perché me lo chiede? Mi sono tradito?
“A niente” e subito mi vergogno
di quella menzogna.
“Balòss” fa lui. “Vieni qua” e allunga le braccia.
Mi piego in avanti, lui alza le
braccia e sfiora la croce, che sobbalza sul chiodo e finisce sul letto.
“Ta
vöri ben.”
Vorrebbe piangere ma si trattiene. Un padre non piange davanti ad un figlio.
Non lo può spaventare.
Un padre è un eroe.
Questo racconto breve è tratto dalla raccolta 'Valzer par Varés' (Pietro Macchione editore-2013)
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