Diciannove
“Non urlare” disse
Matilde a Giulio.
“Scusami”
Da via Veratti
svoltarono a destra per via Sacco, attraversarono la strada proprio di fronte
al portone principale. Fecero ingresso
nel cortile di ghiaia, sagrato laico del Palazzo. I loro passi facevano rumore.
Alcuni piccioni si levarono in volo, puntando alla grande aquila sopra la
meridiana, con la scritta MERIDIANVM LOCI HORAEQVE FONS.
“Lì…non c’è
nessuno.” Giulio indicò le quattro panchine, subito entrati sulla destra.
Si sedettero. Il
sole, ancora alto, era alle loro spalle. Videro sedersi sulla panca di fronte a
loro, ad almeno trenta metri di distanza, due giovani. Matilde per un attimo
pensò a Sofia e all’albanese, ma si tenne il dubbio.
Giulio ora
controllava il tono della voce. Doveva sforzarsi, avrebbe gridato. E quando
capiva che il pianto arrivava si lasciava cadere, adagio, sul suo collo, gli
occhi contro la spalla.
Matilde non era
contrariata per quel cambio di programma. Aveva chiamato lo studio
dell’avvocato, s’era giustificata per il contrattempo, aveva concordato che si
sarebbe rifatta viva lei. Aveva anche pensato di cambiare angolo di città o di
tornare a casa ma a Giulio andava bene così.
Lui parlava e lei
ascoltava, gli accarezzava i capelli. “Capisci che non sono preoccupata?” gli
disse, quando stavano seduti lì da almeno mezz’ora.
Parlava e se non
parlava piangeva, e quando smetteva di piangere aveva altro da confidare alla
moglie. Era come se lo avessero spellato vivo: vulnerabile e felice. Le
raccontava di tutto, anche episodi del passato, non solo i fatti di quella
giornata diversa.
Era estate,
l’anno prima. Giulio era sul balcone. I gomiti s’appoggiavano alla ringhiera.
Aveva le braccia piegate. Il sole era caldo, mancava il fiato per l’afa
agostana. Aveva fatto caso alla sua pelle: piegata, raggrinzita all’articolazione.
Una pelle vecchia. Una pelle da vecchio. Non sarebbe ringiovanita più.
Era primavera, un paio d’anni
prima. In moto, Matilde e Giulio. Una delle rare uscite. Giulio,
preferibilmente, sulla moto ci andava da solo, o con qualche amico. Quel giorno
le aveva detto: “Stringiti forte...” ma non aveva aumentato la velocità. Perché
solitamente quando avvisava Matilde di agganciarlo meglio, era perché avrebbe
dato gas. Quella volta aveva quasi rallentato, eppure le aveva detto “Stringiti
forte” perché la strada davanti a lui ballava, intuiva buche che non
esistevano, le sue braccia tremavano, doveva stringere il manubrio con una
forza tale, che gli erano venuti i crampi alle mani.
Erano andati al funerale di un
parente, morto più che novantenne. Ricordava ancora la data: dodici marzo
duemilatré. Se la ricordava perché la sera avrebbe giocato l’Inter contro il
Monaco, per la Coppa Uefa. Davanti alla fossa, mentre i becchini facevano
calare la cassa con le grosse funi e qualcuno gettava manciate di terra sopra
il legno e gli addetti si davano l’un l’altro indicazioni, per evitare di far
cadere con troppa violenza il povero morto, Giulio aveva avuto un giramento di
testa. “Ma stai bene?” gli aveva detto Matilde, che lo aveva sorretto. Senza di
lei, forse, sarebbe scivolato di sotto. S’era messo a pensare, Giulio, che
anche campando a lungo come quel vecchio, metà strada l’aveva già percorsa.
Non erano ancora sposati,
Giulio e Matilde. L’avrebbero fatto l’anno dopo. Passeggiavano sul lungomare,
dopo aver gustato un gelato. Faceva caldo, benché fosse già passata la
mezzanotte. Non c’era molta gente in giro. Erano al limite sud della
passeggiata, dove gli ultimi alberghi lasciavano il posto a terreno mal
coltivato, sino alla foce del fiume. Quattro giovani venivano incontro a loro.
Uno dei quattro aveva salutato la sua ragazza: “Ciao, bella troia”, a voce
bassa. Lui aveva inteso, probabilmente anche Matilde. Poi, qualche istante dopo
(Giulio era girato, non li vedeva, li sentiva), lo stesso di prima o un altro
aveva aggiunto: “Ciao, troiona...con un coniglio così...che ci fai?” Giulio
aveva inteso perfettamente, anche Matilde; s’era fermato, non s’era girato, lei
aveva detto “Lasciali perdere....andiamo” e lui le aveva dato retta.
***
Giulio avrebbe voluto recuperare
in poche ore inadempienze di anni. Dopo ogni confidenza stava meglio.
Matilde lo ascoltava.
Di Lucia non avevano ancora detto
nulla. Alle diciassette e cinque il cellulare di Giulio suonò. Lui lo spense.
“E’ lei?”
“E’ Lucia.”
Al terzo squillo senza risposta,
il cellulare zittì.
E allora Giulio cominciò a
raccontarle della sua amante.
I bronzi panciuti del vicino
campanile del Bernascone ritmavano i tempi del loro dialogo. I colpi forti
allarmavano i colombi, che frullavano le ali passando di gronda in gronda,
lordando Varese con il loro guano.
***
Era già tardi. Sofia s’era alzata
per verificare se si trattava davvero della sua professoressa. E quando l’aveva
riconosciuta s’era avvicinata per salutarla, ma anche per capire con chi
diavolo stesse parlando da quasi tre ore.
“Conosci mio marito?”
“Non me l’ha mai presentato.”
Poi era tornata da Altin.
“Avremmo potuto già avere una
figlia di quell’età” disse Matilde, guardando Sofia che baciava il suo ragazzo.
L’aveva perdonato? Non l’avrebbe
perdonato mai? Era sarcastica? E lui perché non le chiedeva perdono? Sarebbe
stato, il chiederlo, parte necessaria di quel cambiamento che sentiva di poter
affrontare.
“Ho bisogno del tuo perdono.”
“Lascia perdere.”
Continuò a raccontarsi, così
altro tempo se n’era andato, solo Altin e Sofia sostavano ancora in quel
settore dei giardini di Palazzo Estense.
La sera stava finalmente
regalando alla città un po’ di fresco. Dalla collina di Villa Mirabello
scivolava la brezza. Non era vero, non era possibile, eppure a Giulio parve che
minute gocce d’acqua della fontana in fondo ai giardini, spinte dal debole
vento, arrivassero sin lì a rinfrescarli.
“La vita mi ha preso allo
stomaco” le disse.
“Non ti preoccupare” e gli
accarezzò l’addome contratto. Ad ogni carezza la morsa si quietava.
Giulio sentì fame. “Andiamo a
farci una pizza?”
“Andiamo.”
“Dove?”
“San Gennaro?”
“San Gennaro.”
S’alzarono e si diressero verso
l’uscita, salutando i due ragazzi. A metà del cortile di sassi incrociarono tre
giovani. Bingo, che aveva riconosciuto da lontano la sua insegnante, fece in
modo di non farsi notare. Stavano entrando sotto il porticato e Giulio si
voltò. Forse era il desiderio di rivedere quel luogo, entrato di prepotenza nei
suoi ricordi migliori. Si erano fermati su quella panchina più di quattro ore.
Vide i tre giovani in piedi, davanti a Sofia e all’albanese. Capì subito che
non erano solo amici che si stavano salutando.
“Aspetta” disse a Matilde.
“Che c’è?”
“Guarda là” e indicò la direzione
della panchina. Altin s’era alzato, Sofia stava ancora seduta.
“Saranno loro amici.”
“Non mi pare.”
Il sole al tramonto soffiava
lingue dorate. Giulio non vedeva bene, era controluce, la panchina era
illuminata. Ma non ebbe dubbi: uno dei tre, il più alto, stava sfilando una
pistola a canna lunga dallo zainetto che teneva a tracolla.
“Ma che cazzo sta facendo!” e
nemmeno sentì la voce di Matilde che gli consigliava di non impicciarsi, che
era solo una bravata fra ragazzi.
Si mise a correre nella direzione
dei giovani.
“Sta fermo…metti giù!” gridava
rivolgendosi a Bingo, che drizzava la canna dell’Oklahoma ad aria
compressa, innocua, vicino al naso di Altin.
Bingo si voltò, si girò. Altin fu
veloce a bloccargli il polso, cercando di disarmarlo. Giulio affiancò Bingo,
aiutando l’albanese a far cadere l’arma dalla mano di quel ragazzo. Gli altri
due parevano terrorizzati da un esito imprevisto. E invece il più elegante si
mise in mezzo, tirò fuori un coltello, venti centimetri di lama, e cercò di
difendere Bingo o forse di colpire Altin o di spaventare quell’uomo, arrivato
fra loro come una meteora.
Giulio sentì un bruciore al
fianco destro, poi un calore forte e un dolore pungente che cresceva, che
correva veloce come veloce scorreva ora il suo sangue e batteva il suo cuore e
cresceva la paura. Un dolore impossibile. Provò nausea, intensa. Cadde a terra
picchiando la tempia destra contro lo spigolo della panchina.
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