domenica 23 dicembre 2012

Cicale al carbonio 8

                                                                            Manfredonia



                                               otto


Marco e Beatrice s'erano conosciuti  in mezzo al lago di Garda. Fine di luglio, grigio eternit il cielo, grigio topo le acque, mosse a centrolago, dove le correnti si davano appuntamento. Non minacciava tempesta, quei temporali che, soprattutto in estate, sbuffavano rabbia e sputate di grandine proprio dentro al lago, ma non era il giorno più indicato per la traversata a nuoto Campione-Malcesine. Beatrice, poco più che una ragazza allora, s'era messa in barca con un amico, responsabile del Soccorso. "Dai che ci divertiamo a raccogliere i pesci morti" le aveva detto l'uomo "e se ci va bene, siamo anche utili." Aveva accettato, un diversivo per un sabato annoiato di quell'estate gardesana.
A metà lago, quando non c'è convenienza né a far ritorno né a proseguire, quando molto si è già nuotato ma tanto resta da nuotare, un gareggiante s'era fermato, aveva alzato il braccio e aveva gridato “Aiuto!”, ruotando come una lenta trottola sbilenca e mandando occhiate sperse verso gli altri concorrenti e le barche del soccorso.
"Dai che iniziamo la pesca" aveva detto a Beatrice l'amico, dando gas e dirigendo il gommone verso il naufrago. L'avevano tirato a bordo. Sgocciolava, e un po' sgocciolavano anche gli occhi a quel giovane, mezzo stordito dalla crisi di panico che l'aveva obbligato alla sosta e alla richiesta di soccorso. Ma s'era ripreso in fretta. "Sono stato un pivello" aveva commentato, ancora con il fiato rotto dai rimasugli dell'ansia. "Dovevo fermarmi, non alzare subito il braccio. Mi riposavo un po'...adesso sono pronto, potrei rituffarmi." Ma lo impediva il regolamento. E non lo desiderava la ragazza, incuriosita dal nuovo ospite del natante. Che guardava con invidia i nuotatori, diretti alla spiaggia di Malcesine. Erano dispersi in uno spazio di lago largo almeno duecento metri. Si distinguevano bene perché erano costretti a portarsi appresso una boa gialla. Un gruppo stava puntando decisamente verso sud, altri avevano scelto un percorso più redditizio, sbracciando diretti al traguardo. Qualcuno nuotava di lato. "Pensa te!" aveva commentato il concorrente ormai fuori gara. "Quello sta tornando indietro. Sarà meglio bloccarlo" e aveva invitato il timoniere ad andargli incontro, per avvisarlo dell'errore.
Giunti alla spiaggia di Malcesine, il ragazzo aveva ringraziato, salutato e mandato al diavolo la sua pavidità. Ma intanto Beatrice aveva scoperto di lui nome e cognome (Marco Marchi) e luogo di residenza (Lazise); era un corridore ciclista, con velleità di professionismo, dedito saltuariamente al nuoto per diletto e per avventura.
"L'anno prossimo ci riprovo": queste erano state le ultime parole di Marco.
"Allora, al prossimo anno" aveva concluso Beatrice. Ma non era passato tutto quel tempo, prima che si rivedessero.

***  

Al terzo giorno di Giro, rientrando in albergo, Marco pensò seriamente di ritirarsi. Perché quel giorno di maggio era andato da schifo, e quel suo corpo d'atleta del pedale s'era fatto il suo peggior nemico. Aveva abrasioni nella metà destra del corpo, ginocchio, coscia, fianco, avambraccio e gomito. Sentiva bruciore come se l'avessero passato con un ferro da stiro. Ma le abrasioni erano nel conto di quella vita, che al momento gli pareva la peggiore possibile. La paura folle di fallire era concentrata come un pugnale sullo zigomo destro. Le lastre parlavano di microfrattura, ma il dolore urlava solo bestemmie. Una partenza a Taranto nel diluvio, acqua e freddo e vento e subito una salita, nemmeno il tempo di mandare sangue ai muscoli perché qualche imbecille aveva pensato di approfittarne del tempo guasto, per partire subito. E fra gli imbecilli c'era Moies Aldape, che non si poteva far scappare via così. Poi la corsa s'era quietata, seguendo il ritorno di una condizione meteo più accettabile. Però Marco aveva rischiato di cadere almeno due volte, e mai per sua imperizia.
Passata Barletta, quando al traguardo di Manfredonia mancavano cinquanta chilometri e l'Adriatico del golfo sonnecchiava senza voglie, ecco una prima foratura. Il rientro nel gruppo era stato lento, faticoso, più dispendioso del previsto. Altri venti chilometri di gara, altro buco nella camera d'aria anteriore. Poi l'infelice decisione di approfittare della sosta per urinare con comodo, non seduto con le natiche sulla canna del telaio, in movimento, come d'abitudine. Foratura e sosta che erano coincise con la partenza della fuga più pericolosa della giornata, a trenta chilometri dal lungomare di Manfredonia. Era una tappa per velocisti, ma in quella fuga niente affatto bidone si erano catapultati tutti i suoi potenziali nemici. Si trattava prima di raggiungere il gruppo, quindi di ricucire lo strappo con i fuggitivi. S'erano fermati in quattro della Toshibas Bike, che pedalavano come turbine per agevolare il rientro del capitano. Forse un colpo di vento o la foga di rientrare o la paura non tanto di perdere la Maglia Rosa (era nel conto) quanto di lasciare troppi secondi in quella tappa da nulla, Marco aveva toccato la ruota posteriore di chi lo precedeva. Una strisciata a cinquanta all'ora, l'asfalto come una formaggiera che gli aveva grattugiato gli indumenti, la pelle, la carne viva. E quel colpo tremendo del viso, appena attutito dal caschetto. Non aveva perso i sensi ma l'occhio destro s’era appannato, non riusciva ad aprire la bocca, che andava sporcandosi del sangue delle ferite.
L'avevano rimesso in sella come si rimette in piedi un purosangue azzoppato, buono solo per essere abbattuto sul posto. I colleghi della Toshibas avrebbero pedalato per lui, lo tiravano verso Manfredonia con ogni incitamento possibile. Marco stava assaporando la profondità tremenda del soffrire, un dolore inaccettabile anche per un professionista con ottimo ingaggio. Pensò almeno venti volte di fermarsi. Non sapeva dove raschiare motivazioni. Gli servì anche rivedere immagini di situazioni analoghe, occorse a Fausto Coppi e a Richard Virenque, i suoi eroi di riferimento. Ce la fece, ritrovandosi decimo in classifica, a tre minuti da Moies Aldape, tre e venti da Beppe Togni, tre e quarantadue da Giacomo Casavola. Un distacco importante ma non incolmabile. Questa tesi aveva sostenuto, davanti alle telecamere Rai. Ma ora, dentro i morsi del dolore, pensando alle molte tappe ancora da affrontare, l'ottimismo era calato insieme al sole di quel giorno guasto.
     
                                                                
                                                                                                8 - continua














                                      













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