VIVA LA MAMMA
di carlozanzi
Natalia
Sobolòva, infermiera russa di quarantadue anni, era appena stata in bagno:
pipì, aveva fatto scivolare le mutandine lungo le cosce, sistemato il resto
dell’abbigliamento con calma ed era uscita, pensando che avrebbe voluto fare un
regalo a suo figlio. Erano da poco passate le ventuno, le restavano ancora tre
ore di lavoro prima della fine del turno, a mezzanotte. Si sentiva stanca, immaginò
suo marito che veniva a cercarla, palpandola sul seno. Avrebbe dovuto dirle
ancora di no: perché non capiva che, col turno di mezzanotte, non l’avrebbe mai
fatto? Venne chiamata dal medico, un’urgenza, probabile colica renale, l’uomo
si lamentava platealmente, era arrivato in auto, trasbordato su una carrozzina
e ora stava lungo e disteso sopra il lettino mobile, stringendo con la mano il
suo fianco sinistro. Si contorceva, il volto contratto, faceva per sollevarsi
ma una donna, probabilmente la moglie, lo invitava alla calma, lo faceva di
nuovo sdraiare, lo rincuorava, ammesso fosse possibile rincuorare un uomo
morsicato dentro da una colica renale. Questo pensò lei, la donna in camice
verde: bisognava intervenire con la chimica. Altro che parole.
Il
medico diede ordini precisi: prelievo di sangue e una flebo consistente: “Sì,
prepari Rilaten due flaconi più Lixidol un flacone e un flacone di Zantac….ci
mettiamo anche Contramal e Limican in 250 cc.” Mentre preparava la cura sentiva
i lamenti del malato, sulla cinquantina e forse più, i suoi respiri in affanno.
Niente imprecazioni ma ogni tanto diceva: “Mamma mia, mamma mia!”, si girava
sul fianco. L’uomo dolente chiese da bere e la russa disse: “No, non può bere,
se no vomita….ora starà meglio” e arrivò con il trabattello, dal quale penzolava
la flebo con la medicina, una mistura di antidolorifico e calmante, la sola parola
giusta in quel contesto di dolore.
“Vedrà
che fra poco starà meglio” disse lei, e lui la guardò come si guarda la
Madonna.
La
moglie, al suo fianco, gli accarezzava i capelli, lui le prese la mano e gliela
baciò a lungo, la strinse. La lasciò, chiuse gli occhi, si concentrò in profonde
respirazioni, sempre più deboli, tanto che la signora al suo fianco disse: “Ci
sei?” e lo scrollò con delicatezza.
“Tranquilla”
disse lui riaprendo gli occhi, ma l’infermiera capì che quel dire tranquilla a
lui era costato uno sforzo immane.
L’infermiera
guardò l’orologio che teneva al polso, fece quattro conti, ripassò dal malato:
“Vedrà che fra poco starà meglio” disse da convinta ma lui non dava segni di
miglioramento, tanto che ripeteva “Mamma mia, mamma mia…” e guardava con occhi
grandi, asciutti la bella donna che stava alla sua destra, impegnata nei
movimenti e nelle parole che si scelgono, quando si vuole bene.
A
poco a poco la medicina, inventata dall’uomo e –probabilmente- benedetta da Dio
fece effetto, l’uomo smise di lamentarsi, il volto prese colore. Chiese una
coperta e lei gliela portò.
Alle
ventidue e cinque, mentre pensava che mancavano ancora due ore alla fine ed era
felice, perché la flebo stava funzionando, vide da lontano che il malato si era
commosso e che sussurrava alla donna: “Ma piango di gioia.”
Passò
ancora una volta dal lettino a rotelle, lo guardò e lui la guardò. Si
sorrisero.
Lui
le disse: “Lei è mamma?”
“Sì”
rispose.
“Ha
sentito? Chiamiamo sempre voi.”
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