Sono
felice che sei qui
di carlozanzi
“Sono
felice che sei qui” disse la vecchia seduta in carrozzina, ben pettinata (era
stata quella mattina dal parrucchiere), labbra screpolate, avanzi di cibo fra i
denti (e chi glieli lavava i denti?).
Lui
sorrise, felice nel sentirsi utile. Felice d’aver reso qualcuno felice.
“Finalmente
hai mosso il culo dalla sedia” disse la vecchia, al che lui trasalì. Non si
aspettava nemmeno la prima, gratificante esclamazione, ma la seconda poi.
Quella vecchia non aveva memoria, capiva sì e no, era piagnucolosa; lui non
andava a trovarla da mesi, sicuramente il suo quadro clinico era peggiorato nel
frattempo, aveva avuto notizie poco rassicuranti a riguardo. Da dove arrivava
una frase così?
La
vecchia, con occhi semichiusi ma illuminati da uno strano fervore, rincarò la
dose: “Finalmente non ti limiti a scrivermi…tre lettere in sette mesi….lettere
di un foglio soltanto…”
Lui
ci rimase male, aveva messo impegno per quegli scritti, brevi sì ma bastanti a rincuorare
una coscienza poco serena. Che era successo all’anziana in carrozza? Era una
lontana parente sempre stata sola e ora, sul limitare del baratro, decisamente
abbandonata in un ospizio, a grattarsi le peggiori croste della vita.
“Senti,
adesso usciamo” disse lui, “non fa freddo, dove trovo uno scialle?”
“Bravo,
sì, buona idea…lì nell’armadio.” Trovò lo scialle e una coperta di lana.
“Prendo anche questa” e la mostrò alla donna, “così ti copro le gambe…bene, si
parte…” intanto immaginò ciò che avrebbe potuto pensare e soprattutto dire la vecchietta
ringalluzzita.
“Sono
felice che sei qui, e che mi porti fuori” disse lei, con un sorriso sdentato.
Presero
uno stretto ascensore, quindi scivolarono lungo uno corridoio, dove una decina
di anziani attendevano la morte dormendo, chiamando la mamma, lamentandosi con
scarsa convinzione, parlando a vanvera. Odore di pulito e occhi sconsolati.
Aumentò il passo, l’angoscia partì dal cuore e gli strinse la gola. Finalmente
uscirono.
Era
un pomeriggio di metà novembre, si stava bene, il sole era velato da nuvole
lisce, senza pancia, l’azzurro era tenue, niente vento, nessun altro ospite
della casa di riposo era sceso in cortile.
Spingeva
la carrozzina, notò tracce di una permanente di poche ore ma non disse nulla,
restò in attesa. E la vecchia parlò: “Ma sei ancora uno scrittore?”
Si
sorprese e pensò fosse lecito restare al gioco, a quel punto: “Certo, ho appena
pubblicato un romanzo.”
“Spero
tu non abbia scritto della sofferenza di noi vecchi al ricovero, della nostra
solitudine….scrivi di tutto ma non del dolore….per quello, datti una mossa e
cerca di rimediare, per come puoi…oggi con me hai rimediato, bravo! Vuoi
davvero il mio parere?”
“Certo
che sì.”
“Meglio
mezz’ora a spingere questa carrozzina che cigola, meglio questo che un romanzo di seicento pagine.”
“Ora
esageri” disse lui.
“Almeno
così sento il tuo profumo” disse la vecchia. “Abbiamo bisogno del profumo degli
altri, e se ci fanno una carezza è anche meglio.”
Restò
di sale. Il discorso si faceva interessante, benché surreale: più volte aveva pensato
ad un sogno. Peccato che la vecchia tornò come avrebbe dovuto essere.
“Ma
chi sta spingendo la carrozzina?” e cercò di voltarsi. “Ma chi sei tu?”
“Come,
non mi riconosci?” disse lui, che fermò il mezzo e si mise ritto in piedi
davanti a lei.
“Zaccaria?”
“Ma
no.”
“Sei
il figlio di Bice di Montecascià?”
“Ma
che dici..dai, sono il marito di Lucia.”
La
vecchia improvvisò un sorriso ebete, come di chi non sa ma ha vergogna di far
sapere che non ha ancora capito e allora finge. “Sono felice che sei venuto,
caro, si sta bene qui fuori, mi porti a vedere il cane bianco? Poverino, non
abbaia mai. E’ così buono.”
“Cane
bianco?”
“Nella
villa fuori, lì” e cercò di allungare il braccio destro anchilosato, indicando
il cancello dell’uscita.
“Va
bene, andiamo dal cane bianco” disse lui.
La
carrozzina tornò a muoversi, ballonzolando sul selciato sconnesso. Vedendo
quella testa dondolante, quei grigi riccioli da permanente, li accarezzò.
Si
sentì bene.
Nessun commento:
Posta un commento