Ieri è arrivata a Varese la reliquia con il sangue del beato Papa Giovanni Paolo II. Si fermerà una settimana. Almeno 1000 varesini erano presenti nella basilica di San Vittore, stando alle cronache locali. Io non c'ero. Ho profondo rispetto per tutti coloro che trovano in questi segni conforto e ragioni in più per credere. La mia fede, invece, non ne ha beneficio. Voglio ricordare però il grande pontefice polacco con questo pezzo, che scrissi nella rubrica Pensieri & Parole sul quotidiano La Prealpina nel 2005.
IL MIO KAROL
Il mio Karol Wojtyla inizia nell’inverno (o primavera) del
1978, sotto le scure volte della piccola chiesa dell’Università Cattolica di
Milano. Ci andavo spesso. Quel giorno dissero che si sarebbe celebrata una
Messa. Entrò un vescovo, riferirono il nome (o forse no, dissero solo che era
l’arcivescovo di Cracovia), mi fermai. Della predica ricordo poco: sono certo
però che non mi venne mai da sbadigliare. Poi arrivò il 16 ottobre del 1978,
stesso anno. Faceva freddo a Merano, la prima neve sulle colline e il clima
ridanciano e ‘svaccato’ della caserma Rossi. Fra epiteti poco lusinghieri,
scarsa fede (soprattutto nella Chiesa Cattolica) e anche qualche bestemmia
seppi che avevano eletto il nuovo Papa. Vedendolo alla tele, dissi: “Ma quello
lo conosco!” e, come molti, mi commossi al suo “Voi mi corrigirete!” Poi il mio
Karol proseguì nella primavera del 1980 quando, per il decennio della Comunità
Shalom di Biumo Inferiore, andai in piazza San Pietro e gli sfiorai la mano.
Fra quel 1980 e il 1981 del novello Papa ebbi modo di conoscere (non senza
qualche difficoltà di comprensione) i suoi testi, in particolare ‘Amore e
responsabilità’, un tomo che il nostro sacerdote don Angelo Morelli consigliava
a chi s’era incamminato sulla via del matrimonio. Seppi dell’attentato in
piazza San Pietro di ritorno dal viaggio di nozze, maggio 1981: entrato in un
bar, sfogliai un quotidiano e vidi il Santo Padre in foto, accasciato e
sofferente. Quindi Giovanni Paolo Secondo venne a Varese, 2 novembre 1984. Mia
mamma Ines era morta da un paio di mesi, troppo giovane per andarsene. M’era
rimasto dentro un senso di smarrimento e di paura, non così determinante da
impedirmi però di salire lungo la rizzada che conduce alla Madonna del Monte.
Ore di attesa e, finalmente, il passaggio del baldanzoso Karol. Scattai una
foto, ma saliva troppo in fretta e venne mossa. In effetti ricordo che mi
impressionò il suo fisico atletico, il suo procedere lesto (si era ormai quasi
al Mosè) e l’assenza di fiatone, benché fosse lui a scandire le Ave Maria.
Ventun anni sono poi ruzzolati via come una grossa palla di piombo su un piano
inclinato. E oggi, venerdì primo aprile 2005, risalendo lungo le sacre pietre
del Santo Colle varesino -sassi che hanno sopportato il peso di secoli di
pellegrini, roccia che è sopravvissuta a loro, a Karol e che invecchierà meglio
di me- ho pregato per Giovanni Paolo Secondo. E mentre pregavo, il Papa ha
perso conoscenza ed è entrato in agonia. Sì, il mio Karol è soprattutto questo,
senza enfasi mediatiche: un pellegrino in salita, con i grani del rosario che
scivolano da un dito all’altro, gli occhi fiduciosi verso l’apice del campanile
della Madonna del Monte, e ancora più in alto.
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