aprile
In un
tempo che è riuscito a comprimersi fra le diciannove e cinquanta e le venti è successo questo, una sera
d’aprile.
Che
fossero le diciannove e cinquanta posso esserne certo, pur senza verifica
d’orologio, perché quello che faccio tre o quattro sere la settimana (sempre
uguale, a meno di ritardi, cosa che non è successa nel giorno in questione),
quello che faccio in questi tre o quattro giorni settimanali, dicevo, mi
conduce a casa esattamente a quell’ora. Potrei sgarrare di un minuto o due, non
di più.
Sono
rientrato, ho fatto scendere mio figlio dall’auto e ho pensato: ‘La metto in
garage. Non devo uscire dopo cena. Non dovrei accompagnare nessuno e caso mai
la ritiro fuori, se proprio sarà necessario.’ Non sono il tipo che, una volta
calzate le ciabatte, non è più disposto a rimettersi le scarpe per qualche
urgenza. So accettare gli imprevisti (sino ad un certo limite, si capisce).
A volte la
lascio intenzionalmente fuori dal garage perché –da aprile a settembre, cioè
quando il giorno batte la notte uno, due, tre, quattro a zero a seconda del
mese- amo scendere dopo cena, quattro passi e assisto a ciò che invece è
avvenuto, in anticipo, il giorno, meglio, la sera in questione.
Manovre
per far accomodare l’auto nella sua cuccia: retromarcia, curva alla mia
sinistra, spengo il motore (per non intossicare le ortensie), su il freno a
mano, scendo, apro il garage (a volte questa manovra mi è risparmiata se mio
figlio –ma capita due o tre volte l’anno- mi dice vuoi che ti apra il garage? e
io bene, bene, fai pure) risalgo, riaccendo il motore, entro con prudenza (il
garage è lungo e stretto), cerco di non cozzare con il muso dell’auto contro
gli oggetti accatastati alla parete di fondo (ma quasi sempre li urto
delicatamente), spengo, apro, sono costretto a contorsioni per uscire
dall’abitacolo (ho già detto che il garage è stretto, tanto che se ho qualche
oggetto da togliere dal mezzo lo faccio prima e non quando sono già entrato, a
meno che si tratti di qualcosa che ho deposto nel vano posteriore, al quale ho
accesso facilitato, come nel caso della sera che vado descrivendo già da
parecchie righe, forse troppe), guadagno l’uscita, chiudo le porte metalliche e
salgo più o meno felice in casa (ma quasi sempre contento perché si cena e
sono, come si suole dire, una buona forchetta, ma io aggiungo anche un buon
coltello, un buon cucchiaio e un buon cucchiaino, perché amo il dolce e il
caffè).
Come già
anticipato, avevo del materiale riposto nel vano posteriore, ma me n’ero
dimenticato. Così, dopo aver chiuso il garage e fatto qualche metro,
ricordandomi, sono tornato sui miei passi, ho riaperto il garage, sollevato
come un ponte levatoio il portellone posteriore, preso ciò che avevo
dimenticato (due confezioni di acqua minerale, sei bilitri cadauna, ventiquattro
litri in tutto, oltre venti chili di peso, spartiti fra la mano e il braccio
destro e sinistro).
Adesso
vado più rapido nella descrizione, perché si è capito il contesto.
Arrivo
alla porta d’ingresso della mia palazzina con le confezioni plastificate in
mano. Il peso c’è, si sente. La porta è chiusa, l’ho scoperto spingendo con il
piede destro. Chiusa. Le chiavi le ho lasciate in tasca. Dovrei quindi
appoggiare a terra la confezione che tengo con la destra, tirare fuori le
chiavi eccetera. Ma nel pensare ‘Ho lasciato le chiavi in tasca’ alzo la testa,
come per dire ‘Che stupido, non potevo tenerle già fuori?’. Accompagnerei la
domanda anche con un tocco della mano destra sulla fronte (avete presente
quando uno dice che stupido sono stato e si tocca la fronte come per
schiaffeggiare il cervello smemorato), ma non lo faccio perché la mano destra è
già occupata.
Alzo la
testa. E cosa vedo?
Un
tramonto d’aprile.
Il cielo è
tinteggiato d’azzurro pallido. Poche le nuvole, contornate di rosa quasi che il
sole, andandosene, avesse deciso di ricoprile con una coperta sottile, di seta
o di lino. Poche rondini, tornate da poco, galleggiano serafiche nello
spettacolo che mi è dato di ammirare.
Aggiungo
una scia di traiettoria d’aereo, che va sfrangiandosi a partire da oriente. E
aggiungo soprattutto la quiete.
Non sento
baccano di auto lungo la via, né altri rumori molesti. Probabilmente, eccezion
fatta per i primi secondi della mia contemplazione serotina, i rumori ci sono
ma non li sento, né avverto il peso degli oltre venti chili che sollevo da
terra, e che non mi curo di appoggiare sull’asfalto del piazzale.
Respiro
una quiete paradisiaca.
Resto lì,
per un tempo indefinito, con il pomo d’Adamo proteso in avanti, la fronte alta
come fossi contratto in un militaresco aaattenti!, gli occhi curiosi, le due
confezioni di acqua minerale sollevate da terra.
Come un
bamba, direbbe qualcuno.
Sì, come
un bamba felice.
Nessun commento:
Posta un commento