martedì 9 aprile 2013

Il racconto del mercoledì

                                                                                               foto carlozanzi




aprile

In un tempo che è riuscito a comprimersi fra le diciannove e cinquanta  e le venti è successo questo, una sera d’aprile.
Che fossero le diciannove e cinquanta posso esserne certo, pur senza verifica d’orologio, perché quello che faccio tre o quattro sere la settimana (sempre uguale, a meno di ritardi, cosa che non è successa nel giorno in questione), quello che faccio in questi tre o quattro giorni settimanali, dicevo, mi conduce a casa esattamente a quell’ora. Potrei sgarrare di un minuto o due, non di più.
Sono rientrato, ho fatto scendere mio figlio dall’auto e ho pensato: ‘La metto in garage. Non devo uscire dopo cena. Non dovrei accompagnare nessuno e caso mai la ritiro fuori, se proprio sarà necessario.’ Non sono il tipo che, una volta calzate le ciabatte, non è più disposto a rimettersi le scarpe per qualche urgenza. So accettare gli imprevisti (sino ad un certo limite, si capisce).
A volte la lascio intenzionalmente fuori dal garage perché –da aprile a settembre, cioè quando il giorno batte la notte uno, due, tre, quattro a zero a seconda del mese- amo scendere dopo cena, quattro passi e assisto a ciò che invece è avvenuto, in anticipo, il giorno, meglio, la sera in questione.
Manovre per far accomodare l’auto nella sua cuccia: retromarcia, curva alla mia sinistra, spengo il motore (per non intossicare le ortensie), su il freno a mano, scendo, apro il garage (a volte questa manovra mi è risparmiata se mio figlio –ma capita due o tre volte l’anno- mi dice vuoi che ti apra il garage? e io bene, bene, fai pure) risalgo, riaccendo il motore, entro con prudenza (il garage è lungo e stretto), cerco di non cozzare con il muso dell’auto contro gli oggetti accatastati alla parete di fondo (ma quasi sempre li urto delicatamente), spengo, apro, sono costretto a contorsioni per uscire dall’abitacolo (ho già detto che il garage è stretto, tanto che se ho qualche oggetto da togliere dal mezzo lo faccio prima e non quando sono già entrato, a meno che si tratti di qualcosa che ho deposto nel vano posteriore, al quale ho accesso facilitato, come nel caso della sera che vado descrivendo già da parecchie righe, forse troppe), guadagno l’uscita, chiudo le porte metalliche e salgo più o meno felice in casa (ma quasi sempre contento perché si cena e sono, come si suole dire, una buona forchetta, ma io aggiungo anche un buon coltello, un buon cucchiaio e un buon cucchiaino, perché amo il dolce e il caffè).
Come già anticipato, avevo del materiale riposto nel vano posteriore, ma me n’ero dimenticato. Così, dopo aver chiuso il garage e fatto qualche metro, ricordandomi, sono tornato sui miei passi, ho riaperto il garage, sollevato come un ponte levatoio il portellone posteriore, preso ciò che avevo dimenticato (due confezioni di acqua minerale, sei bilitri cadauna, ventiquattro litri in tutto, oltre venti chili di peso, spartiti fra la mano e il braccio destro e sinistro).
Adesso vado più rapido nella descrizione, perché si è capito il contesto.
Arrivo alla porta d’ingresso della mia palazzina con le confezioni plastificate in mano. Il peso c’è, si sente. La porta è chiusa, l’ho scoperto spingendo con il piede destro. Chiusa. Le chiavi le ho lasciate in tasca. Dovrei quindi appoggiare a terra la confezione che tengo con la destra, tirare fuori le chiavi eccetera. Ma nel pensare ‘Ho lasciato le chiavi in tasca’ alzo la testa, come per dire ‘Che stupido, non potevo tenerle già fuori?’. Accompagnerei la domanda anche con un tocco della mano destra sulla fronte (avete presente quando uno dice che stupido sono stato e si tocca la fronte come per schiaffeggiare il cervello smemorato), ma non lo faccio perché la mano destra è già occupata.
Alzo la testa. E cosa vedo?
Un tramonto d’aprile.
Il cielo è tinteggiato d’azzurro pallido. Poche le nuvole, contornate di rosa quasi che il sole, andandosene, avesse deciso di ricoprile con una coperta sottile, di seta o di lino. Poche rondini, tornate da poco, galleggiano serafiche nello spettacolo che mi è dato di ammirare.
Aggiungo una scia di traiettoria d’aereo, che va sfrangiandosi a partire da oriente. E aggiungo soprattutto la quiete.
Non sento baccano di auto lungo la via, né altri rumori molesti. Probabilmente, eccezion fatta per i primi secondi della mia contemplazione serotina, i rumori ci sono ma non li sento, né avverto il peso degli oltre venti chili che sollevo da terra, e che non mi curo di appoggiare sull’asfalto del piazzale. 
Respiro una quiete paradisiaca.
Resto lì, per un tempo indefinito, con il pomo d’Adamo proteso in avanti, la fronte alta come fossi contratto in un militaresco aaattenti!, gli occhi curiosi, le due confezioni di acqua minerale sollevate da terra.
Come un bamba, direbbe qualcuno.
Sì, come un bamba felice.

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