La magnolia
Voleva un miracolo, anche se non ci credeva. Aveva
bisogno di un Dio ma non sapeva dove cercarlo. Uscì di casa che battevano i
dodici rintocchi di metà giornata. Il soffitto del suo appartamento gli pesava
in testa, l’aria dei suoi locali aveva un cattivo odore, i pensieri intossicati
gli avvelenavano quel poco di felicità che con gran fatica cercava di mettersi
dentro.
Uscì confidando nel sole, che illuminava una dolce
giornata di primavera. Avrebbe potuto svoltare a destra, verso la chiesa, dove
avrebbe però trovato altra ombra, silenzio, avanzi d’incenso e un
inginocchiatoio, sopra il quale piegare la sua sofferenza. Avrebbe potuto
svoltare a sinistra, verso un modesto spazio verde, un giardinetto pubblico con
tre panchine, qualche albero, erba malcurata, un cestino per la spazzatura che
traboccava di avanzi, escrementi di animali.
Mosse due passi a destra perché non gli andava di
incontrare gente: era certo che in chiesa non ci sarebbe stato nessuno. Si
fermò, guardò verso il giardino, gli sembrò sgombro da presenze umane, ci
pensò, andò da quella parte. Solo allora si ricordò della magnolia. Fra le
poche piante che salivano al cielo lì dentro, una era una magnolia. ‘Sarà
fiorita?’ si domandò.
La trovò come sperava, aumentò il
passo, arrivò subito ai suoi piedi, osservò che era al meglio: qualche fiore
ancora in bocciolo, gli altri aperti ma non ancora sfioriti, quando i larghi
petali cadono fra i sassi e vengono calpestati, perdendo tutto il loro fascino,
come la neve non più intonsa.
Vicino al tronco della magnolia
stava una panchina di legno, verniciata di verde scrostato, sporca di terra.
Cercò in tasca un fazzoletto, la pulì, si sedette. Alzò lo sguardo nel cuore
della pianta fiorita, un paracadute bianco e rosa, una doccia calda dal profumo
delicatissimo. Il sole filtrava fra i fiori, non abbagliava, scaldava quel
giusto che gli serviva per stare bene. Si sdraiò. Chiuse gli occhi. Cercò la
posizione migliore per non sentir dolore, almeno quel dolore del corpo avrebbe
potuto mitigarlo con la postura. Per il dolore dell’anima avrebbe pregato e
sperato, ma sapeva che sarebbe stata una lotta ben più aspra.
Tutto il meglio della primavera
lo abbracciò come una donna desiderata da sempre. Il bello della primavera lo
avvolse e provò piacere. Aprì gli occhi, i fiori gli parvero uno sciame di
farfalle allegre, poi fiocchi di neve colorata che restavano sospesi nell’aria.
Il mondo aveva trovato una fetta di perfezione in quell’angusto giardinetto di
cartacce e brutte copie della natura. Quella magnolia stava ritta sopra di lui,
respirando uno stato di grazia che gli trasmetteva con generosità. Cominciò a
credere al miracolo, al Dio della bellezza assoluta.
Richiuse gli occhi e cercò di
addormentarsi.
Lo stato di dormiveglia quanto
durò? Due minuti? Dieci? Si era addormentato? Stava sognando? Di certo avvertì
un pizzicore alla guancia destra, un solletico non fastidioso che lo invogliò
ad aprire gli occhi. Un lungo ramo si era piegato verso di lui e un grosso
fiore si era posato sopra la sua guancia. Spaventato si tirò su, il fiore si
allontanò, il ramo si mosse, lui restò inebetito, per il sonno e per il
risveglio, per ciò che il risveglio gli aveva preparato. Immobile osservò il
fiore, che lentamente tornò verso il suo viso e si adagiò sulla guancia.
Forse era un bacio.
Forse era un sogno.
Forse davvero, questa volta, era
Dio.
Questo racconto
breve è liberamente ispirato alla canzone ‘Il ciliegio’ di Angelo
Branduardi
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