Il tuffo
di carlozanzi
M’arrampico sopra la colonnina di cemento, alta più
di me. E’ un pomeriggio di maggio, il giorno non lo so, so che frequento la
terza elementare. Fa caldo, sono sudato eccitato. Impaurito. Salgo sul muretto
e da lì m’arrampico sulla colonna quadrata, che in alto s’allarga in una specie
di piattaforma. Il mio amico Luciano mi ha lanciato la sfida. E’ salito e ce
l’ha fatta. Ora tocca a me. Nel tentare la scalata al blocco di cemento mi
scivolano i piedi (calzo dei sandali con due buchi davanti, quattro occhi che
mi guardano), striscio e torno giù in basso, mi sbuccio le ginocchia. Potrei
mollare. Ma non mollo. Mi sputo sulle mani, mi passo le ginocchia ferite,
strisciate rosse di poco sangue. Non è nulla. Si riparte.
Luciano si è rimesso in ordine la maglietta, Marco e
Roberto forse fanno il tifo per me. Ora sono in cima, mi metto in piedi, mi
gira la testa ma per pochi attimi. Dietro a me il vuoto, sul fianco destro la
strada, sul fianco sinistro il cortile, davanti il mare verde della siepe, piccole
foglie verdescuro al culmine di rametti rigidi, appuntiti. Più che un mare è un
fiume, una stretta piscina. Io sono in piedi sul rigido trampolino che dovrà
provare il mio coraggio. Un coraggio da terza elementare. Un coraggio
irresponsabile e timoroso. So che mia madre non approverebbe, mio padre mi
sgriderebbe ma con meno violenza. Mio padre capirebbe, almeno penso. Ma loro
non ci sono, uno è al lavoro, l’altra è in casa e si fida di me. Non so, forse
si fida o deve fidarsi per forza, non ha tempo né voglia di verificare il mio
comportamento, sta annegando dentro una famiglia di tanti figli. Sta sudando
dentro una vita che probabilmente immaginava diversa. Non so, non sono affari
miei. A me spetta la prova, ora che mi sono arrampicato sin lassù e sei occhi
mi guardano. Otto, perché anche i miei mi osservano.
Luciano dice: “Allora?” Roberto si sta grattando il
pisello, Marco si mette la mano a visiera per ripararsi dal sole di maggio,
convinto e brillante. Marco è il più piccolo del gruppo, credo che il suo cuore
stia battendo forte almeno quanto il mio. O di più. Ma il mio si vede oltre la
camicetta sporca, con due buchi e tanti piccoli elefanti marroni che camminano
su un prato giallo. Ho paura di trafiggermi gli occhi (però basta che li
chiuda), di graffiarmi la faccia (al che la mamma prima, il papà poi mi
‘graffierebbero’ ancora), ho paura di cadere oltre il materasso della siepe, di
finire in strada o sui sassi tondi e lisci del cortile. Ho paura che mi
sfottano. Sono il più vecchio dei quattro. Di pochi giorni, ma Luciano è più
giovane di me e ora mi guarda con due occhi vigliacchi. Lui può solo vincere.
Al massimo pareggiare. Io sono ancora all’inizio dell’avventura. Durerà un
secondo, due, ma i piedi li devo staccare. Devo affrontare il vuoto. Devo volare.
Non l’ho mai fatto da quella torre alta due metri. Luciano ce l’ha fatta. Non
credevo fosse così in gamba. Il suo coraggio mi ha messo nei guai. Il suo gesto
mi obbliga a seguirlo. Ci vuole un eroe per diventare eroi. Il quartiere lo
saprà, nel bene e nel male. Il quartiere non può farsi beffe di me. E allora
capisco che il pensiero mi sta tradendo. Più ci penso più il coraggio si
nasconde, come una femminuccia che si ripara gli occhi da uno spettacolo
sconcio. Il volo richiede dimenticanza.
Non penso più. Mi sbilancio verso
la siepe. Mi pento ma non lo posso più fare. O spingo in avanti o cado come un
goffo pollo spennacchiato. E allora spingo, allungo le braccia, chiudo gli
occhi e mi preparo all’abbraccio pungente. Lancio un mezzo urlo stonato. Sento
un crac di legno e di foglie, un lieve bruciore sul viso, alle braccia, alle
gambe nude. Sprofondo e riemergo.
Marco batte le mani, Roberto dice
“Ora lo faccio anch’io!”, Luciano mi guarda, sorpreso e ferito: “Sono stato più
bravo io, perché sono stato il primo” dice “e ti ho smollato la siepe.”
“Non è vero” rispondo felice,
“era più morbida quando ti sei tuffato tu. Mi hai fatto il buco.”
Luciano non sa cosa dire,
dovrebbe darmi ragione, passa all’attacco: “Prendimi se ci riesci” e parte come
il missile Tor. Roberto reclama: “Non guardate anche me?” Ma la sfida è
lanciata. Il coraggio l’ho già dimostrato. Ormai nessuno mi ferma.
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