Un amore
L’ho visto arrivare con il suo
Morini quattro tempi a benzina, bianco e rosso. Sapevo che era lui già da
lontano: urlavano il suo nome i quattro cilindri nascosti dentro la testata
d’argento di quella sua moto superba. Gliela invidiavo dal vetro del fanale
anteriore al catarinfrangente sul parafango posteriore, invidiavo i suoi
capelli tirati su dal vento e il suo possedere la velocità. Franco era il più
ricco fra noi, la sua moto lo testimoniava. Avevamo l’età del cinquantino, non
di più, ma i quattro tempi regalavano a quel Morini la dignità di una moto da
adulti.
Franco è arrivata nel nostro
cortile, senza casco, con aria distratta, superiore, come di chi non sa che se
gli eravamo tutti attorno era per il suo mezzo di trasporto. A noi restavano
bici senza cambi e tante moto cavalcate di notte, sdraiati nel letto, dentro un
sonno da figli del dopoguerra.
Noi intorno alla moto di Franco,
e Franco a sorridere, portando la buona novella: “C’è una partita di calcio
alla chiesa…ci aspettano.”
Il campo della chiesetta. Di
campi da pallone ne avevamo almeno cinque: il cortile di casa mia, l’oratorio,
il castello, il pratone e quello della chiesa di San Celso, che non era il più
bello ma sempre meglio di un sagrato di casa popolare, con sassi e terra.
Mi stavo dirigendo in cantina per
recuperare la bicicletta quando la voce di Franco, roca come avesse imparato
l’intonazione del Morini, mi ha preso per il bavero: “Salta su” mi ha detto
“Vieni con me.”
Era la prima volta su quel
sellino.
“Grazie” gli ho risposto e mi
sono accomodato.
Volavamo Franco ed io verso il
campo della chiesa, lui sicuro nella guida, con
accelerate da spavaldo, io intimorito ed estasiato, dentro un pomeriggio
d’estate che mi aveva fatto sudare e che adesso, nel fresco del viaggio in
moto, trasformava il sudore in piacevole frescura intorno al corpo.
“Ti sta aspettando una
ragazza…vuole vederti” ha detto Franco ad un certo momento, quando mancavano
ancora cinque minuti di viaggio. Dentro quell’aria in movimento e il ruttare
del motore Morini, quella notizia mi ha fatto impazzire il cuore. Volavamo
verso il paradiso io e Franco, un eden popolato ora non dalla disfida
calcistica, ma dall’immagine di una ragazzina (che Franco aveva definito
carina) che mi stava attendendo vicino alla chiesa. Una donna interessata a me,
che mi voleva vedere, che mi avrebbe parlato perché –non potevo dubitarlo-
certamente le piacevo, mi aveva incontrato chissà dove, o aveva saputo di me da
qualche altra ragazza.
In quei pochi minuti ho ripassato
ogni volto probabile e assaporato le più invitanti emozioni. Me la immaginavo
bella, bionda, occhi chiari, perché uno non può prevedere di essere accolto da
una ragazza brutta, cioè non degna di una simile attesa. Il cuore cantava, mi
mancava il fiato, appoggiavo la guancia sulla schiena di Franco, lo cingevo
alla vita grassoccia e sognavo quel sogno finalmente reale. Un sogno meno
illuso e più vero.
Il solo fatto d’aver suscitato un
interesse femminile mi inebriava. Mi sentivo sicuro e interessante, avrei
affrontato l’incontro con inevitabile emozione ma sarei stato in grado di
reggere il confronto, di offrirle il mio meglio.
“Ma tu la conosci?” ho urlato a
Franco, senza ottenere risposta.
Silenzio, mi frullavano immagini
condite da gioie mai assaporate, un languore amoroso che mi struggeva. Il
pallone non aveva più senso, meglio, la partita sarebbe stata momento di gloria
per sorprenderla col mio gioco, affascinarla perché era risaputo che ero fra i
primi (se non il primo) ad essere scelto, quando si faceva bimbumbam e ci si
spartiva per squadre.
Così siamo arrivati al campo
della chiesa: poca erba e molta polvere, un sole allo zenith che abbagliava,
radi alberi che proiettavano ombre striminzite.
Franco si è diretto verso un
tiglio: “La posteggio qui sotto” mi ha detto. “Salta giù.”
Sono sceso di sella, accompagnato
dagli ultimi rutti del motore. Ma prima avevo già perlustrato la zona, da tempo
indagavo sulle presenze in quel luogo. A bordocampo nessuno, mentre sul terreno
di gioco era già in corso una partita. La palla volava e strisciava, rimbalzava
e saltellava senza un lamento, nonostante tutti quei pedatoni.
Non s’era mai vista una ragazza,
e più ancora una bella ragazza, giocare a pallone coi maschi. Ma se non era là
in mezzo, nella terra e nel sole, dov’era?
Allora ero ingenuo ma lo sono
anche adesso, a voler raccontare una storia di poco interesse. E allora ho
sofferto quando ho notato che lì, vicino alla chiesa, si contavano solo
ragazzi, sudati e sporchi, agitati e col solo interesse di fare un gran gol,
quando Dio aveva creato la donna per regalare paradisi terrestri.
E’ arrivato Franco, non alto ma
grasso, non bello ma ricco, ancora innocente a quel punto.
“La ragazza?” gli ho chiesto.
“La ragazza….ah, già, la
ragazza…” e si è messo a ridere.
Franco non era mio amico. Forse
lo sarebbe diventato. Ci stavo pensando quando, insieme, cavalcavamo sopra la
groppa del Morini. Non so perché ha inventato quello scherzo, perché ci ha
messo di mezzo l’amore, il soffrire d’amore. Eppure aveva un anno più di me e sbaciucchiava
le ragazze più belle. Doveva sapere. Immaginare. Prevedere la mia tristezza
insanabile. O forse i soldi rendono lecito far piangere un compagno di giochi,
dopo averlo trastullato nell’illusione più atroce.
Ho dato un solo pugno sinora. A
Franco. Quel giorno. Sul naso. E se sangue c’è stato, non mi ha mai fatto
pena.
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