L’11
settembre del 2001, a NY, è stato uno dei tanti crolli (clamoroso, esagerato)
del mondo: la casa del nostro ottimismo si sgretola e ci seppellisce. Io, che
amo scrivere, li ricordo così. Uno in particolare, a pochi chilometri dal mio
sorriso di circostanza.
di carlozanzi
A quanti hanno visto e sentito
tremare la notte
UNO
Prima di
insaporirsi, la sua giornata iniziò con uno sbadiglio.
Roberta era
nata a marzo, il diciassette. Mancavano pochi giorni al suo compleanno ma il
pensiero della festa non fu in grado di regalarle la forza per uscire dal
letto. Nella malinconia di un risveglio senza voglie, cercò nel recente passato
qualcosa di bello. Che le desse coraggio.
Il giorno prima
era stata con un’amica sulla sommità del Duomo di Milano. Erano sbucate dalla
galleria Vittorio Emanuele; la candida facciata del Duomo le aveva ricordato le
scogliere di Dover.
Milano, a
marzo, può regalare giornate di vento e di cielo terso. Era stata la sua amica
a proporle la salita fra le guglie.
“Ci sei mai
stata là sopra?”
“Da bambina”
aveva risposto Roberta.
“Ci andiamo?”
“Andiamo.”
“Ci faranno
salire fino alla Madonnina?”
“Non credo.”
Infatti così in
alto non erano arrivate ma si erano alzate abbastanza per poter vedere i tetti
di Milano, i clienti della Rinascente girare fra la merce, i milanesi in piazza
Duomo ridotti a colombi, e i colombi a formiche.
“E’ una figata”
aveva detto Roberta, prolungando lo sguardo sino al Monte Rosa e alle altre
cime innevate, a occidente. E a oriente la Grigna, la Grignetta, il Resegone,
il monte Legnone verso la Valtellina.
Roberta non
conosceva il nome delle vette ma aveva gustato per un attimo il sapore dello
stupore che regala la natura, quando è benigna, resa brillante dal sole e dal
vento freddo di marzo, che si porta via l’inverno rovesciandolo più a nord.
DUE
La prima cosa
che vide, riaprendo gli occhi, fu il calzino bucato e l’alluce nudo.
Romano si era
addormentato, vinto dalla sonnolenza del dopo pranzo. Le mille pagine di ‘Il
petalo cremisi e il bianco’ di Michel Faber gli pesavano sullo stomaco. Aveva
il collo dolorante, da pennichella senza cuscino. Quel pomeriggio di marzo gli
regalò i dialoghi di una fiction televisiva.
“E’ il destino
che ci ha fatti incontrare” diceva la ragazza, abbracciata ad un uomo che
sembrava decisamente più giovane di lei. “Credi al destino?”
E lui, con
disincanto: “Credo alla tua decisione di partecipare al concorso di bellezza.
Lì ti ho vista.”
“Allora tutto è
caso.”
“Caso o destino
cosa cambia?” diceva lui. Appariva più giovane ma dava l’impressione di avere
maggiori certezze. “Sono parole. Conta che siamo qui” e si sigillarono in un
bacio prolungato.
Innervosito dalle sequenze
televisive che ora prevedevano, dopo il bacio, lo spogliarsi e il letto, Romano
cercò sulla coperta il telecomando e spense la tele. Appoggiò il pesante volume
di Faber sul comodino, si mise su un fianco e restò in bilico fra il desiderio
di continuare a dormire e il ripasso di ciò che il pomeriggio gli avrebbe
riservato. Senz’altro del lavoro, ma cosa? Doveva passare al giornale ma era
certo di avere un appuntamento, un incontro mondano in qualche sala di Milano.
Ne fece una questione di principio: non avrebbe dovuto consultare l’agenda.
Alla sua età avrebbe dovuto ricordarselo.
Se lo ricordò.
TRE
La loro storia
cominciò come inizia un temporale buono, che arriva dopo la siccità e porta
umido e fresco, nuvole nere che non annunciano danni ma una momentanea
privazione del sole, per un vantaggio maggiore.
“Ciao” e quello
fu il primo fulmine, dentro il vernissage
della mostra di un’artista dal futuro di probabile insuccesso.
“Ciao” disse
Romano.
“Sei l’amico di
Giorgio?” disse Roberta.
“E tu sei
l’amica di Giorgio?”
“Giorgio ne ha
tante di amiche.”
“Già, e tu
delle tante chi sei?”
“Roberta.”
“Romano” e
fermò al nome la presentazione.
“Allora sei
tu.”
“Cioè?”
“Il
giornalista.”
“Diciamo così.”
Cominciò quella
sera in via Giambellino, galleria Novelle
Vouge, una sera di primavera, a Milano.
“Roberta la
studentessa.”
“Coi libri sono
alla fine, per fortuna.”
Romano le stava
di fronte, un calice nella destra, un pasticcino nella sinistra. C’era gran
ressa in quel paio di locali senz’aria, luce forte e un fastidioso rumorio di
sottofondo. Dovevano urlare.
“Alla fine?”
“Laurea
magistrale in lettere, due esami e la tesi.” Anche Roberta teneva un calice in
mano.
“Alla laurea” e
Romano alzò lo stretto bicchiere, qualcuno lo urtò, gocce gli finirono sui
capelli: “Cazzo” disse.
Roberta sorrise
e alzò il calice.
“Senti, ci
spostiamo? Si soffoca.”
“E dove?”
“Che buco di
galleria. Ci vieni spesso?”
“Mai.”
“Però Giorgio
ti ha trascinata?”
“E’ un amico,
sa quando ho bisogno di uscire.”
“E ti porta
qui?”
“Mi ha detto
che avrei incontrato gente interessante.”
Romano la
studiava, ogni nuovo dato confermava la prima impressione, la rendeva sempre
più vera. Gli era piaciuta al primo sguardo. Una dolce emozione che cresceva
lentamente. E non capiva come Giorgio avesse potuto parlare di Roberta (a lui,
più volte) come di una ragazza solo interessante, solo carina, in crisi per la
fine di un amore durato anni. Quella sua bellezza senza eccessi, che Giorgio
aveva definito trasandata, gli entrò dentro come una lama. In piedi, con il
calice a mezz’aria e in bocca un sapore dolciastro di vino e di ansia, Romano
era intimidito.
“Là c’è un po’
di spazio” disse Roberta.
“Va bene,
spostiamoci.”
Era tutto un
gran parlare; pochi, in silenzio, allungavano sguardi interessati verso i
quadri. Un tale, che ostentava un vezzo da intenditore, sfilò gli occhiali e
andò con la punta del naso a sfiorare la tela, ma i convenuti stavano per lo
più ammassati nel mezzo, lasciando sottili corridoi ai lati. Due camerieri si
incuneavano nella ressa alzando vassoi e offrendo vino e dolci.
Trovarono un
angolo libero, almeno un paio di metri fra lo spigolo e i quadri. Si
appoggiarono di schiena, per guardarsi dovevano girare la testa.
“Allora,
Giorgio ti avrebbe parlato di gente interessante.”
“Già.”
“E anche di un
giornalista.”
“Non di uno
solo.”
“E di Romano
cosa dice?”
Roberta abbassò
lo sguardo, appoggiò il lungo tacco dello stivale destro contro la parete,
tacco e suola, rigirò lo spumante nel calice e ne bevve un sorso. “Che è un
tipo interessante.”
“Tutto qui?”
“Ti sembra
poco?”
Con i tacchi
era alta come lui, un metro e ottanta scarso. I capelli erano tinti con
moderazione, un rosso castano che gli regalarono un’immagine nota, Angelina
Jolie: labbra carnose, occhi limpidi come il mare di Villasimius. Ma a
differenza dell’attrice, Roberta li aveva scuri, e forse la scelta del colore
dei capelli era per star bene con quegli occhi. “Conosci Alison Krauss?” disse
Romano.
“No. Chi è?”
“Una cantante
americana. Le somigli.”
“Di solito
ricordo la Jolie, almeno così dicono.”
“Sì, ma sei
identica a Alison Krauss.”
“Se lo dici tu.
Mi informerò.” Roberta si guardò la punta dei piedi, allungò il bicchiere: “Me
ne porti un altro? Ti scoccia?”
“Vado,
aspettami.”
Tornò ma
Roberta non stava più contro il muro, all’angolo. Si era spostata di un paio di
passi, parlava con Giorgio e due altre ragazze.
“Ecco” disse
Romano.
“Grazie.”
“Romano è un
mascalzone” disse Giorgio a Roberta. “Se ti chiede l’amicizia su facebook non ci cascare.”
Romano pensò
che se Giorgio avesse cambiato aria insieme alle due amichette, avrebbe trovato
in seguito il modo per ringraziarlo. Lavoravano per lo stesso giornale.
“Ricordati le
cinquanta righe” disse Giorgio.
“Devo?”
“Devi.”
“E cosa
scrivo?”
“Hai parlato
con l’artista?”
“No.”
“Vacci.
Aspettano il pezzo prima delle dieci.”
“Mi tocca” e
guardò Roberta.
“Buon lavoro.”
Si salutarono.
Romano usci
dalla galleria alle venti e quaranta, dopo aver intervistato la pittrice e aver
chiesto a Roberta il numero di cellulare. Fra il chiaro e lo scuro di un
tramonto ancora in corso, cavalcò il suo scooter
e tirò a manetta fino a casa, un bilocale che divideva con Carlo. Accese il
notebook; nell’attesa che il computer portasse a termine le lungaggini iniziali
si preparò un caffè con la moka. Aveva una sola immagine in testa, sfregiata
dalle cinquanta righe da scrivere entro un’ora. Bevendo il caffè andò su
facebook e chiese l’amicizia a Roberta.
***
Roberta lasciò
la galleria d’arte insieme a Giorgio e a una ragazza di origini libanesi,
bellissima, venuta a Milano nella speranza di fare soldi e fama come modella.
Erano le venti e cinquanta. Giorgio la accompagnò sotto casa, un
bell’appartamento in un palazzo signorile dalle parti dell’Arena Civica.
Roberta entrò, salutò i genitori (preavvisati che non avrebbero dovuto
aspettarla per cena), la sorella (diciott’anni appena compiuti) e s’infilò in
camera. Si sedette sul letto. Accavallò la gamba sinistra sopra la destra e si
piegò, per far scorrere la lampo dello stivale. Ebbe la tentazione di
toglierselo, usando come leva la punta dello stivale sinistro, ma si trattenne
e usò con delicatezza le mani. Erano stivali da duecento euro. E dopo gli
stivali la gonna e il collant e il maglioncino di cachemire. Aveva appoggiato
la borsetta sul letto. Cadde e ne uscirono il cellulare e il portafoglio. Così,
in slip e camicetta, raccolse il telefono e pensò di mandargli subito un messaggio. Scrisse ‘buonanotte’ ma non lo
inviò.
***
Il pezzo non
girava. Più guardava l’orologio, più l’ansia montava e le dita si ingrippavano.
Lo chiamò Giorgio, per chiedergli come andava l’articolo. “Cazzo, le piaci”
furono i suoi saluti.
“Come lo sai?”
chiese Romano.
“Lo so.”
Un bilocale,
due letti a distanza quasi matrimoniale, una scrivania e, nell’altra stanza,
appena più grande, un tavolo, sedie, un cuocivivande e disordine. Carlo stava
sdraiato sul letto, cuffie alle orecchie, tamburellava le dita sul ginocchio.
Anche quella musica in sottofondo, un minimo fruscio, disturbava Romano, felice
per l’ultima frase di Giorgio. Mandò un
essemmmesse a Roberta. “Vai su Youtube, cerca Alison Krauss in Shadow,
ha i capelli lisci come i tuoi…buonanotte.”
***
Arrivò a
Roberta il messaggio di Romano. Lo lesse e accese il computer. Si tolse la
camicetta, il top, sganciò il reggiseno. Aveva imparato ad amare quei seni
pesanti, dopo averli odiati da ragazzina; un’abbondanza rara in una ragazza
alta come lei. Ma non sempre metteva il reggiseno, li lasciava liberi,
camuffati sotto camice, magliette, maglioni.
Si infilò una
canotta da basket che gli aveva regalato il suo ex, verde, con la scritta
Chicago Bulls; le arrivava a metà coscia. Si sedette al notebook. Andò su
facebook e accettò l’amicizia di Romano. Corse su Youtube a vedersi Alison
Krauss. La cercò nella canzone Shadow. Le piacque, la canzone ma soprattutto la
cantante.
***
Lo chiamarono
dal giornale alle dieci e un quarto. Romano garantì che l’articolo sarebbe
partito cinque minuti dopo. Alle dieci e mezza allegò il pezzo alla mail e si
liberò di quel peso. Puzzava di fatica mentale, sotto le ascelle la camicia blu
aveva due grosse macchie, pensò di farsi una doccia, prima andò su facebook e
trovò che la sua richiesta di amicizia era stata accettata. Corse a visitare il
profilo di Roberta. Fra le note personali aveva messo solo la data di nascita,
mese e giorno, niente anno. Nello stato aveva scritto: impegnata con Amelie, il
mio micio. La foto era datata, probabilmente dell’estate trascorsa: Roberta era
in bichini, sdraiata sopra un asciugamano arancione, intorno sabbia bianca,
forse una spiaggia della Sardegna, non certo della Romagna. In bacheca l’ultima frase scritta da lei:
“Giornata interessante.”
***
Alle ventitré
bussò alla camera di Roberta sua madre. “Hai fame?”
“No, grazie…”
“Una tisana?”
“Non ti
preoccupare. Va bene la tisana.”
“Quale?”
“Regolarità.”
“Te la porto.”
“Grazie.”
Roberta aveva
già sentito una decina di volte Shadow di Alison Krauss. Le somigliava, a parte
il naso, per quel che si riusciva a vedere dal video. Un naso decisamente più
brutto del suo. A metà canzone, Alison metteva in spalla il violino e partiva
con un assolo. Vedendola, Roberta si pentì di aver lasciato perdere con il
pianoforte, dopo averci studiato per quattro anni. Un piano verticale che ora
faceva d’arredamento alla sua cameretta, una mensola per i libri, qualche
peluche, cd e dvd. Di quella cantante ora invidiava la voce da angelo e il
violino. Su Youtube andò a cercare altri video e trovò quello di I will, con la
cantante che si era fatta la permanente, una testa piena di ricci, una variante
che non le piaceva, come non era piaciuta a Romano che aveva specificato: “La
versione con i capelli lisci, come i tuoi.”
***
Romano s’era
fatto la doccia e ora, sotto le coperte, faticava a prendere sonno. Carlo
russava. Lo toccò dentro. Il compagno di stanza mandò un mugugno, si scusò con
parole aggrovigliate nel dormiveglia, cambiò fianco, sibilò con un respiro a
fischio.
Eppure non era
bellissima. Il naso non era perfetto, le labbra le avrebbe preferite più
sottili, il rossetto era persino eccessivo. Perché Roberta gli stava
saccheggiando l’anima?
CINQUE
“La giornalista?” domandò Romano.
“Sì, la giornalista” rispose Roberta.
“Cioè la disoccupata.”
“Esatto.”
Alla fine l’aveva accontentata. Lui avrebbe preferito un ristorante ma lei adorava la pizza. Gli aveva lasciato la scelta e lui aveva deciso: ‘La grotta di Bacco’, in via degli Orti.
“Hai scoperto la mia età?” disse Romano.
“Ho letto il tuo profilo.”
“Non dirmi che ne dimostro di più.”
Roberta mentì, in fondo le rughe erano leggere, i capelli grigi li si potevano contare.
Gli occhi di Romano, occhi chiari: il suo fascino. Bastavano a inchiodarla lì, felice, sopra una sedia senza cuscino, scomoda, da ‘Bacco’: ci era passata davanti tante volte, chiedendosi se valesse la pena assaggiare anche quella. Ora scioglieva il dubbio, in una situazione inimmaginabile. Mai avrebbe pensato a due occhi così, per lei.
“E sai per quanti giornali collaboro?”
“Quanti?”
“Quattro e una radio, due di carta e due on line. Corro tutto il giorno.” Avrebbe dovuto concludere “per quattro soldi” ma non lo disse. “Perché non l’insegnante?” chiese a Roberta, che voleva invece giocarsi la sua laurea in lettere nel giornalismo.
“Ci si nasce.”
“Anche giornalisti.”
“Non mi dire. E allora sono nata giornalista.”
“E che hai scritto?”
“Sul giornalino del liceo, di moda.”
“Complimenti.”
Arrivò il cameriere con due tovagliette all’americana, piatti, bicchieri, posate e i menù in plastica con la lunga lista delle pizze.
Romano la guardò mentre scorreva l’elenco e commentava. Non aveva una ruga: il fondotinta? O una pelle perfetta? Indossava un dolcevita chiaro.
“Scelto” disse Roberta.
“Cosa?”
“Margherita.”
“Stai leggera.”
“Alla fine è la più convincente, è la pizza pizza, pomodoro e mozzarella. Tu?”
“La mia solita.”
“Margherita?”
“Quattro stagioni, c’è un po’ di tutto.” Pensò e parlò: “Investo bene i pochi soldi che ho.”
“Sei tirchio?”
“Sono costretto.”
“La mia me la pago io.”
“Benissimo.”
“Vigliacco, lo dicevo che sei tirchio.”
Questo non aveva ancora capito Romano: come trattarla. Moderarsi o lasciarsi andare? Spontaneità o controllo?
“Ti faccio paura?” disse Roberta.
“Paura?”
“Non so, impressione.”
“Spiegati.”
“Se devi dire una parolaccia fai pure.”
Arrivò il cameriere, un ragazzo sorridente, dava l’idea di aver voglia di lavorare. Ordinarono. Da bere lui prese una mezza chiara, lei una panascé.
Le pizze andarono via senza troppo gusto, presi dalla voglia di raccontarsi. A Romano interessava la vita di Roberta e ogni indizio di innamoramento. Roberta si gustava i suoi occhi e cercava di intuire, da quello sguardo celeste, quanta verità ci fosse nelle sue parole.
Lasciarono avanzi di pizza nei grandi piatti, passarono al dessert, che ha bisogno di meno fame e di più golosità. Al loro caffè (lei decaffeinato, anche se sapeva che non avrebbe dormito) entrarono in pizzeria tre giovani e un adulto, un prete, lo si capiva dalla piccola croce d’argento vicino all’asola della giacca grigia. Era magro, il volto secco, capelli corti, molti grigi. Salutò Roberta e si andò a sedere con gli altri un paio di tavoli più in là, vicino all’angolo del pizzaiolo che maneggiava la pasta e il companatico con automatismi svogliati. Aveva già lavorato ore, sonnecchiava fra lo stanco e lo scazzato.
“Lo conosci?” domandò Romano.
“E’ don Fabio. E’ il prete della mia facoltà.”
“Vai d’accordo coi preti?”
“Dipende” rispose Roberta.
“E con quello?”
“Esatto.”
Alla fine l’aveva accontentata. Lui avrebbe preferito un ristorante ma lei adorava la pizza. Gli aveva lasciato la scelta e lui aveva deciso: ‘La grotta di Bacco’, in via degli Orti.
“Hai scoperto la mia età?” disse Romano.
“Ho letto il tuo profilo.”
“Non dirmi che ne dimostro di più.”
Roberta mentì, in fondo le rughe erano leggere, i capelli grigi li si potevano contare.
Gli occhi di Romano, occhi chiari: il suo fascino. Bastavano a inchiodarla lì, felice, sopra una sedia senza cuscino, scomoda, da ‘Bacco’: ci era passata davanti tante volte, chiedendosi se valesse la pena assaggiare anche quella. Ora scioglieva il dubbio, in una situazione inimmaginabile. Mai avrebbe pensato a due occhi così, per lei.
“E sai per quanti giornali collaboro?”
“Quanti?”
“Quattro e una radio, due di carta e due on line. Corro tutto il giorno.” Avrebbe dovuto concludere “per quattro soldi” ma non lo disse. “Perché non l’insegnante?” chiese a Roberta, che voleva invece giocarsi la sua laurea in lettere nel giornalismo.
“Ci si nasce.”
“Anche giornalisti.”
“Non mi dire. E allora sono nata giornalista.”
“E che hai scritto?”
“Sul giornalino del liceo, di moda.”
“Complimenti.”
Arrivò il cameriere con due tovagliette all’americana, piatti, bicchieri, posate e i menù in plastica con la lunga lista delle pizze.
Romano la guardò mentre scorreva l’elenco e commentava. Non aveva una ruga: il fondotinta? O una pelle perfetta? Indossava un dolcevita chiaro.
“Scelto” disse Roberta.
“Cosa?”
“Margherita.”
“Stai leggera.”
“Alla fine è la più convincente, è la pizza pizza, pomodoro e mozzarella. Tu?”
“La mia solita.”
“Margherita?”
“Quattro stagioni, c’è un po’ di tutto.” Pensò e parlò: “Investo bene i pochi soldi che ho.”
“Sei tirchio?”
“Sono costretto.”
“La mia me la pago io.”
“Benissimo.”
“Vigliacco, lo dicevo che sei tirchio.”
Questo non aveva ancora capito Romano: come trattarla. Moderarsi o lasciarsi andare? Spontaneità o controllo?
“Ti faccio paura?” disse Roberta.
“Paura?”
“Non so, impressione.”
“Spiegati.”
“Se devi dire una parolaccia fai pure.”
Arrivò il cameriere, un ragazzo sorridente, dava l’idea di aver voglia di lavorare. Ordinarono. Da bere lui prese una mezza chiara, lei una panascé.
Le pizze andarono via senza troppo gusto, presi dalla voglia di raccontarsi. A Romano interessava la vita di Roberta e ogni indizio di innamoramento. Roberta si gustava i suoi occhi e cercava di intuire, da quello sguardo celeste, quanta verità ci fosse nelle sue parole.
Lasciarono avanzi di pizza nei grandi piatti, passarono al dessert, che ha bisogno di meno fame e di più golosità. Al loro caffè (lei decaffeinato, anche se sapeva che non avrebbe dormito) entrarono in pizzeria tre giovani e un adulto, un prete, lo si capiva dalla piccola croce d’argento vicino all’asola della giacca grigia. Era magro, il volto secco, capelli corti, molti grigi. Salutò Roberta e si andò a sedere con gli altri un paio di tavoli più in là, vicino all’angolo del pizzaiolo che maneggiava la pasta e il companatico con automatismi svogliati. Aveva già lavorato ore, sonnecchiava fra lo stanco e lo scazzato.
“Lo conosci?” domandò Romano.
“E’ don Fabio. E’ il prete della mia facoltà.”
“Vai d’accordo coi preti?”
“Dipende” rispose Roberta.
“E con quello?”
“Don Fabio? E’ un grande. Per lui farei qualche anno ancora in Università.”
Romano si sorprese per quella simpatia ecclesiale. La guardò mentre faceva cantare il cucchiaino nella tazzina del caffè. Si allungò verso di lei, le accarezzò il lobo dell’orecchio, fece dondolare un orecchino a forma di Tor Eifell, le sfiorò la punta del naso, avrebbe voluto dirle “Mi piaci” o persino “Ti amo” ma andò a sbattere contro un viso troppo bello, al quale donò solo un sorrisetto da ebete.
UNDICI
Guardando il sole, per metà nascosto dal contorno ondulato dell’Appennino, Romano si chiedeva come facesse a non essere felice per quel tramonto, e per Roberta. La rabbia cresceva al pensiero di uno spreco. Il ritardo alla partenza da Rimini gli stava rubando piacere. Era arrabbiato con lei ma non avrebbe voluto esserlo, così altra rabbia si sommava alla prima, aumentando la profondità del disagio.
Finiva la domenica d’aprile e mancava ancora molta strada alla villa dei suoi nonni.
“Se n’è andato” disse a Roberta, invitandola a guardare il sole che annegava, lasciando spazio alla notte. Ma Roberta non aveva voglia di parlare. Guardò il rosso ad occidente, inquieta: non sarebbero state ore piacevoli. Romano se l’era presa troppo, aveva reagito come non si sarebbe aspettata, ma come sarebbe stato normale attendersi: stavano insieme da due settimane, non lo conosceva abbastanza da renderlo prevedibile. Guardò l’orologio: “A che ora arriviamo?”
“Non prima delle dieci, buio pesto. Sarà un’impresa trovare la casa.”
Se erano partiti con tre ore di ritardo la colpa era sua, e lo aveva ammesso subito. Ma a Romano non era bastato. ‘Partiamo subito dopo pranzo’ gli aveva promesso. Promessa non mantenuta perché i suoi amici non la lasciavano, i saluti e quel prete: “Devo parlargli. Mi serve” gli aveva garantito.
Romano, in attesa, s’era messo seduto su una panchina a masticare il suo disappunto, guardando l’Adriatico povero di gente in vacanza, un lungomare di coppie anziane con il cappotto e di giovani in tishort.
Aveva sentito dire da un gruppo di ventenni che avrebbero fatto il bagno, più a sud, al lido delle conchiglie. Li aveva seguiti da lontano, andavano veloci, avevano voglia di tuffarsi nel mare, di dimostrare alle ragazze la loro resistenza al freddo.
Si era seduto sulla base in cemento di un ombrellone di uno stabilimento balneare, una casupola triste e disadorna in quella bassa stagione marina. I ragazzi s’erano svestiti, correvano urlanti verso il mare, le ragazze ridevano, strillavano, si toccavano dentro come per dire ‘Il mio è più bravo, il mio è scemo del tutto, quelli sono fuori di testa.’ La sua attenzione si era spostata su una coppia, lui in costume, a pancia in giù sopra un asciugamano bianco, lei con i pantaloni corti e una camicetta a mezza manica. Appoggiava le ginocchia sopra l’asciugamano, le sue cosce combaciavano con il fianco sinistro del suo ragazzo. Aveva provato invidia per loro.
Era tornato a curiosare nel tratto di mare dove i ragazzi di prima s’erano tuffati. Ne era rimasto in acqua solo uno; gli altri, intirizziti, cercavano calore negli asciugamani e nelle braccia delle loro donne. La ragazza di chi ancora nuotava si era alzata, era andata sul bagnasciuga e implorava il suo ragazzo di non fare il deficiente, aveva già dimostrato quello che voleva far vedere, aveva vinto, stop. Uscito dall’acqua anche l’ultimo temerario, Romano si era messo a guardare il mare, partendo dall’orizzonte lontano e risalendo a cavallo di quelle onde senza pretese. Era un mare che non faceva paura ma richiamava ad una visione infinita. Aveva il culo dolorante, seduto sopra lo stretto quadrato di cemento, ma la scomodità non gli aveva impedito di pensare a Dio. Pensieri guizzanti e confusi, disturbati dall’ansia di partire, da un velato disappunto. Aveva pensato alla probabilità di un Dio inventore di mari e di come avesse lasciato perdere quel pensiero molti anni prima, seguendo l’onda delle sue amicizie laiche.
Gli amici di Roberta erano tornati nella grande sala della riunione, lei stava col prete e lui considerava che avrebbero avuto solo due notti, ma la prima rischiava di finire troppo tardi. Sarebbero arrivati stanchi, nervosi dopo un viaggio di molti chilometri.
***
“Dove ceniamo?” chiese Roberta.
“A casa non c’è niente.”
“Autogrill?”
“Per forza.”
Del dialogo finale col sacerdote lui non aveva chiesto spiegazioni, si era solo lamentato per la durata. Infastidito dal suo silenzio, quasi avesse ragione lei, ora pretese: “Perché ti serviva parlargli? Proprio oggi?”
Roberta non rispose.
L’auto passava dai centotrenta ai centocinquanta a seconda che l’autostrada salisse o scendesse, seguendo le gobbe dell’Appennino toscoemiliano.
“Almeno in galleria puoi andare più adagio?” chiese Roberta.
“Ma se non supero i centotrenta?”
“Però continui a sorpassare.”
“Se vuoi che arriviamo a mezzanotte.”
“Per me.”
“Per me no, guido io, sono stanco.”
“Anche di me?”
Il sole non c’era più, si era sciolto nel rosso sopra i monti. Sottili nuvole nere anticipavano il colore della notte.
“Non dire stronzate. Perché non mi rispondi?”
Roberta volle metterlo al corrente. Era importante che lo sapesse. “Abbiamo parlato anche delle mie paure.”
“Paure?”
“Paure, sì, tu come le chiami? Non hai paura della morte?” Roberta era seria da mettere soggezione. “Non sto scherzando. Io ci soffro.”
Romano stava guidando, avrebbe avuto bisogno di starsene seduto sul divano di casa, o sopra la sedia di un bar per poter calare in quella domanda, trovare risposte sincere. Erano questioni che preferiva non approfondire, che scansava sapendo di non avere risposte. E viveva bene lo stesso.
“E il tuo amico prete cosa dice?”
Roberta non rispose subito. “Mi interessi tu. Le tue paure.”
“E chi non ne ha?”
Capì, non era il momento: “Ne riparliamo.”
Lui cambiò registro: “E di me? Hai paura?”
“Quando guidi” e Roberta si appoggiò alla sua spalla.
“E questa cos’è?” disse Romano.
“Che c’è?”
“La spia dell’olio.”
“Quella lì rossa?”
“Sì.”
“Ma non l’avevi controllato?”
“Come no” ma era una bugia. Si sentì in colpa: “Speriamo di arrivare al prossimo autogrill.”
Attesero un paio di chilometri, la scritta ora diceva che dovevano tirare avanti ancora tre e fu una fortuna, perché di più il motore non avrebbe retto. Fecero tappa all’autogrill Monte Mario. Era ora di cena.
***
Romano aveva sotto il mento un piatto di lasagne al ragù, e di fronte lei. Aveva fame, quel cibo svaporava, mandando segnali gustosi.
Roberta si era fatta portare un piatto di spaghetti conditi con un filo di olio crudo e parmigiano reggiano. “Buon appetito” e lei fece il segno della croce.
Romano si guardò attorno, avrebbe preferito meno chiasso, un tavolo solo per loro; erano costretti a condividerlo con una coppia di stranieri, bevevano birra e mangiavano hamburger. Aveva notato che il più obeso dei due, biondiccio di capelli e con un grosso orecchino, aveva ruttato più volte. Riusciva a leggere l’ora da un grosso orologio sistemato sopra la cassa. Mancavano tre minuti alle nove.
“Non arriviamo prima delle undici” disse Romano.
“Un paio d’ore?”
“Sì, due ore abbondanti, dipende da quanto ci fermiamo.”
“A me bastano gli spaghetti.”
Romano se l’era immaginato diverso quel loro avvicinarsi alla vecchia abitazione dei nonni. Il pensiero di altre due ore di guida non lo rallegrava. Andava a momenti. Guardarla, pensarla con lui poteva generargli sentimenti differenti. Ansia, ma anche tenerezza.
“Caffè?” chiese Romano.
“Sì, ma se hai fretta...”
“No no, ormai.”
Avrebbero dovuto partire da Rimini nel primo pomeriggio, arrivare al paese prima delle diciannove “perché il negozietto” gli aveva detto la madre “sono sicuro che è sempre aperto, anche la domenica, ma chiude presto, se vuoi essere certo devi essere lì prima delle sette.” Avrebbero fatto la spesa insieme e preparato la cena. Con calma.
Roberta si pulì la bocca con un tovagliolo di carta bianco e rosso, con la scritta dell’autogrill. Lo guardò e rise. Lui trovò quel sorriso molto bello.
“Che hai?”
“Tieni” e gli allungò un tovagliolo pulito. “Pulisciti il naso.”
“Sugo?”
“Sugo.”
Ora le faceva tenerezza. Il malumore era tramontato. Si guardò intorno. Un paio di tavoli più in là sedevano quattro giovani, avrebbero potuto essere studenti al rientro in università, o ragazzi in vacanza. Probabilmente studenti, perché parlavano poco, mangiavano senza entusiasmo. Solo lei, la ragazza del gruppo, dava l’idea di essere felice. Ogni tanto accendeva il dialogo, che si smorzava subito. Ma ci riprovava. Era una gran bella ragazza, luminosa. Non ci fosse stata Roberta, fosse stato fra uomini, sarebbe uscito con una frase d’apprezzamento.
Roberta lo guardò: “Che c’è?”
“Niente.”
“Chi guardavi?” e si girò. “Quella?”
“Saranno studenti? Che dici?”
“Boh” ma un po’ ci rimase male per la sua distrazione. “Vado in bagno.”
“Ordino i caffè.”
La vide che cercava la strada della toilette. La sentì sua.
continua
Romano si sorprese per quella simpatia ecclesiale. La guardò mentre faceva cantare il cucchiaino nella tazzina del caffè. Si allungò verso di lei, le accarezzò il lobo dell’orecchio, fece dondolare un orecchino a forma di Tor Eifell, le sfiorò la punta del naso, avrebbe voluto dirle “Mi piaci” o persino “Ti amo” ma andò a sbattere contro un viso troppo bello, al quale donò solo un sorrisetto da ebete.
SEI
Il primo bacio
fu due giorni dopo la serata in pizzeria. In piedi, davanti alla fermata del
tram numero quarantaquattro. Milano sapeva di rotaie, di smog, di aliti pesanti
da fumo e da fatiche mal digerite dopo una giornata di lavoro.
Non erano soli.
Avevano parlato di tutto, anche di Dio. Roberta era stata distratta da una sua
proposta di viaggio, la stava valutando mentre Romano cercava di
presentargliela nel migliore dei modi.
La prima volta
fu al principio di un triste tramonto metropolitana: nuvole vento freddo. Un
freddo che s’attaccava addosso, che cercava il calore dentro vestiti d’altri.
Furono persino banali (“Si gela!” disse Roberta. “Danno brutto per un po’ di
giorni” disse Romano), per non far pesare i rari spazi di silenzio. E quando
Romano le infilò le dita nei capelli e avvicinò il volto di lei al suo, lo
piegò sulla destra e l’appoggiò alla spalla, e le sue braccia la strinsero
tanto da sentire la morbidezza del suo seno, qualcuno fra i presenti, infreddoliti
alla fermata del tram, pensò che quei due erano fortunati. Avevano trovato il
miglior modo per scaldarsi. Un’invidia buona, commossa. Ma altri provarono
invidia rancorosa, fastidio per quel giovane amore nascente e sfacciato. Una
rabbia ronzante e pungente alla bocca dello stomaco, per il tempo passato e per
le occasioni lasciate.
‘Sta morendo un
giorno e sta nascendo una storia’, questa l’idea di Tazio Sacelli, un
dipendente Asl in sosta alla fermata; contava i giorni, era prossimo alla
pensione e nell’attesa scriveva poesie.
Romano
l’avrebbe baciata ma era infastidito dagli occhi degli altri. Le sue dita si
aggrovigliavano nei lunghi capelli all’altezza delle orecchie.
Ora si
guardavano in silenzio, dopo aver parlato per più di un’ora: anche del lavoro
che non esisteva più e di quella mostra d’arte che li aveva fatti incontrare
dieci giorni prima. Anche di Giorgio, che era un cafone ma aveva avuto il
merito di condurla da lui, di farla uscire di casa per un vernissage che prometteva solo distrazione.
“E’ ancora
aperta la mostra?” chiese Roberta.
“Chiude
domani.”
“Avrà venduto?”
“Dubito.”
“Come si fa a
campare di quadri?”
“Basta essere
la compagna di Sazza.”
“Sazza?”
“Non pretendo
che tu lo conosca.”
”Pittore?”
“Scultore. Lui
sì che vende.”
“Basta anche
per lei.”
“Esatto.”
“Squallido.”
“Squallido?
Sono felici in due” e Romano prese a pedate un pacchetto di sigarette vuoto,
che volò in mezzo alla strada e finì sotto le ruote di una moto. Teneva gli
occhi bassi, parlava ma aveva in mente altro.
Adesso era
anche questione di tempo. Il quarantaquattro stava arrivando, lei sarebbe
salita, lui se ne sarebbe tornato a piedi. Poteva arrivare da un momento
all’altro. Ci sarebbero state altre occasioni, naturalmente.
Più d’uno aveva
guardato l’orologio, ripetendo alla sua voglia di casa che il solito tram si
era perso nel solito ritardo, causato da un traffico feroce.
Romano era
indeciso. Ora sarebbe stato troppo affrettato. Il silenzio fra loro durava
troppo.
“A cosa pensi?”
domandò Roberta, pentendosi per averglielo chiesto.
Romano allora
smise di pensare. Lei chiuse gli occhi. Lui continuò piegando il capo sulla
destra e lo stesso fece lei, adagio, aprì gli occhi, sorrise e li richiuse. Ora
le sorrideva tutto il viso.
Nemmeno il
tempo di gustarlo quel loro primo bacio perché il quarantaquattro arrivò con
soli due minuti di ritardo: Roberta lo sentì dire da Tazio Sacelli, che aveva
già in testa una nuova poesia. Avrebbe preso nota sul tram, in piedi, con una
scrittura imprecisa, tremante nel traballio del mezzo pubblico.
Roberta quasi
scappò via da lui. Salì. Scomparve nella ressa serale dei milanesi. Riapparve.
Romano alzò la
mano destra e la salutò. Roberta gli mostrò la punta del naso appiattita contro
il vetro posteriore del tram, dopo che con la mano lo aveva liberato dalla
condensa.
Romano abbassò
la mano: la felicità gli scoppiava dentro, colorata e rumorosa come uno fuoco
pirotecnico. Anche Roberta viaggiava nella gioia, un dolce fastidio andato a
nascondersi in fondo allo stomaco.
SETTE
“Sei proprio
sbroccato” disse Carlo, osservando l’amico mentre imburrava una fetta
biscottata.
“Cioè?” disse
Romano, mentre la fetta si sbriciolava sotto il peso di una lama di coltello
malgestita.
“Fischietti!
Canticchi!”
“Invidia?”
Carlo lo guardò
con occhi addormentati: “Chi è? Sempre quella della mostra?”
Romano raccolse
ad uno ad uno i pezzi della fetta e li mise a mollo nel caffèlatte. “Si chiama
Roberta. Roberta.”
“Sbroccato
fatto…”
“Guarda che sta
salendo il caffè, curalo” disse Romano.
“Povero caffè,
sta eiaculando!” disse Carlo.
Raccogliendo
con il cucchiaino le porzioni di fetta biscottata rammollita, con il burro
sciolto nella tazza in macchie galleggianti, Romano sentiva Roberta che
dilagava nelle sue vene. Una piacevolissima tracimazione, che lo ripuliva dalle
ansie, dall’apatia. Sarebbe stato sempre con lei, giorno e notte. Con lei non
c’era calcolo, nessuna paura, solo l’immenso piacere di regalarsi.
Il cellulare di
Romano vibrò, andando a cozzare contro la tazza e mandando ronzii con echi di
porcellana. Era un messaggino Vodafone. Ma Roberta si affacciava anche dallo
specchietto del telefono, che lui raccolse, pensò, scrisse ‘Sei al mio fianco,
ora’, cancellò, scrisse di nuovo: ‘Sei qui con me. Ti amo.’ Cancellò di nuovo,
intanto Carlo stava versando, mano destra, il suo caffè nella tazza, mentre con
la spugna nella mano sinistra puliva dove il caffè era fuoriuscito sui
fornelli, con gesto furtivo, per non farsi sorprendere e sgridare. ‘Perché non
sei qui adesso?’ ma anche questa versione di saluto non era la più appropriata.
“E scrivi che
vuoi andarci a letto” disse Carlo.
“Fottiti!”
disse Romano. Bevve due sorsi e tornò al messaggio. Trovò pace con un ‘Speriamo
arrivi presto stasera. Baci.’
La vedeva nel
fondo della tazza e nelle pagine del romanzo che gli aveva prestato, ‘Chiedi
alla povere’ di John Fante, libro che teneva ora sul tavolo. Lo aprì reggendolo
in verticale con la mano sinistra, gomito appoggiato, girava le pagine con la
bocca mentre con la mano destra cercava di portare a termine quella colazione senza appetito. La carta
aveva il suo profumo. Girava le pagine e la accarezzava, la baciava. Non aveva
altri pensieri e altre cure. Al lavoro era distratto, a volte, altre volte era
catturato da un attivismo vorace e scriveva a raffica, saettavano in lui
pensieri folli e dolci, intuizioni delle quali mai si sarebbe considerato
capace. Sbocciavano idee, progetti, frasi che le avrebbe scritto o recitato,
luoghi che avrebbero visitato insieme. Cercava il modo per trattenere più a lungo
possibile quello stato di grazia, che non ricordava di aver mai gustato, forse
perché erano passati tanti anni dagli amori di ragazzo, dalla vista di quella
dolce creatura che s’affacciava al balcone, e lui aspettava quel volto lontano,
mai s’era avvicinato oltre i dieci metri, eppure quella era la sua dea, ai
tempi dell’amore platonico. O da quell’altra, Maria, compagna delle elementari,
figlia di negozianti, bella come Venere, pianeta luminosissimo. O la terza: era
arrivato ad un niente dal bacio, ma il suo cuore batteva tanto forte da
respingerla, da tenerla a distanza, contro il bianco tronco di una betulla.
Mamma mia, che gli stava capitando? Roberta gli aveva tolto quindici anni
almeno.
Carlo si
sedette di fronte a lui, con la sua tazzina del caffè e la sua aria sfatta.
Romano provò pietà per quel ragazzo, che forse non era mai stato innamorato.
Provò pena per tutti gli uomini, ai quali era stata negata quell’esperienza
d’amore.
“Che leggi?”
disse Carlo.
“Fante, Chiedi
alla polvere.”
“Ho visto il film.”
“Bello?”
“Lei, la
messicana, è da paura. Una gran gnocca.”
Romano era
disturbato da quella volgarità costante, che solo qualche giorno prima lo
lasciava indifferente.
“Sono felice
per te.”
“Balle.”
“Giuro.”
“Sono cotto.”
“Lo vedo.”
“Non me
l’aspettavo.”
“Meglio così.”
“Cazzo!”
esclamò Romano, picchiandosi il cervello.
Carlo gli
accarezzò la mano, trattenendo la commozione.
OTTO
Intimorita, Roberta entrò
nell’appartamento di Romano. Carlo non c’era. Fu colpita dall’odore di fumo, un
sapore cattivo di aria senza ricambio, di avanzi di cibo. Ma di quello tacque.
“Carino.”
“Un buco, ma ci
basta. Vieni.”
Glielo aveva
anticipato, sapeva dove sarebbero andati, non credeva così in fretta.
Entrò in camera
da letto.
“Siediti
qua” e Romano le indicò quale parte del
letto avrebbe dovuto occupare; avrebbe fatto da sedia ad una piccola scrivania,
un tavolino appeso alla parete. Romano lo abbassò come un ponte levatoio, ci
appoggiò sopra il notebook, lo accese.
“Non è un po’
piccolo per te?” disse Roberta, battendo le mani sul materasso.
“Ci sto, ci
sto…Vuoi un caffè? »
“Un bicchiere
d’acqua.” Aveva la gola secca.
“C’è solo
quella del rubinetto.”
“Ottima.”
Andò, tornò, si
sedette di fianco a lei. “Tieni” e le allungò il bicchiere. “E’ da cambiare,
troppo lento questo pc. Mi fa perdere un mare di tempo.” Romano schiacciò il
pulsante sulla destra, si accese la piccola luce arancione, partì un fruscio e
la porticina si aprì con uno scatto. Infilò il cd.
“Siediti” e la
prese in braccio. Ora le sue ginocchia picchiavano contro il tavolino. “Metti
queste” e le passò le cuffie.
“Finalmente
scopro il segreto.”
“Zitta” le
disse, con un tono troppo impositivo.
“Ma tu così non
senti.”
“La conosco a
memoria.”
Partirono le
immagini, Romano le regolò nel punto che aveva pensato per lei: una grande sala
di un ristorante, gente ben vestita ai tavoli, un palco, musicisti e l’applauso
per l’ingresso di due artisti, lei col violino e lui con una strana chitarra,
che teneva in posizione insolita. La riconobbe subito: Alison Krauss.
“Ma che
strumento è?” chiese.
Romano non
rispose.
Iniziò la
musica. Non era una delle canzoni che aveva visto su Youtube, ma la conosceva
cantata da James Taylor. Un brano molto noto. Alison aveva i capelli dello
stesso colore degli occhi, le sopracciglia curate, un trucco perfetto, pareva
il volto finto di una bambola. Ai lobi due orecchini pendenti, che dondolavano
ai lievi movimenti del capo, ondeggiare che seguiva il ritmo del canto.
Indossava un vestito color nocciola, discutibile, a coprire un corpo con seni
piccoli e cadenti, addome come una bassa collina che degradava verso gambe non
esili, allungate dai tacchi, almeno un otto. Ma Alison Krauss era la sua voce,
che aggraziava le imperfezioni estetiche. Stupenda, angelica ancor più che
nelle altre canzoni che aveva sentito decine di volte. E si chiedeva Roberta
come fosse possibile, con uno sforzo in apparenza risibile, con un soffio
minimo, regalare un suono senza un graffio. Un vento soave e vorticoso che le
entrava dentro.
Chiuse gli
occhi. Sentì Romano che la abbracciava appena sotto il seno, che appoggiava
l’orecchio sulla sua schiena, che tremava, che le dava piccoli baci, che la
stringeva.
Le sue braccia,
la musica, quella voce e la loro storia d’amore: cominciava a crederci. E se lui avesse voluto, se solo
l’avesse stretta ai seni e fatta scendere dalle sue ginocchia, regalandole i
suoi occhi d’incanto e il suo timore….ma lui non disse nulla fino al termine
della canzone, poi le tolse le cuffie dalle orecchie, le chiese “Che ne dici?
E’ fantastica” e lei rispose “E’ un angelo” e lui aggiunse “Senti questa”.
Roberta allora capì che Alison stava diventando una sua rivale in amore. E si
insospettì: Romano conservava qualcosa solo per sé.
NOVE
Romano era
stato capace di farle tornare la voglia di studiare. Finire prima l’università,
ora, aveva uno scopo più preciso e pressante. Ma la ritrovata passione per i
libri aveva radici poco profonde se dopo mezz’ora di studio Roberta si lasciava
distrarre dal notebook: una passata alle mail, un giro su Facebook e poi
YouTube e quella canzone.
Dalla canzone
alla proposta di Romano, che non si era fatto scrupolo di invitarla a casa sua,
in una vecchia villa dei nonni in centro Italia, utilizzata più che altro
d’estate e, raramente, durante l’anno. “In questo periodo è sporca, fa freddo
ma a me piace lo stesso” le aveva detto.
Roberta aveva
un altro impegno, proprio quel fine settimana, a Rimini.
La proposta era
stata così formulata: “Devo andare a Roma tre giorni per un Convegno sui nuovi
media, giornali on line, hanno scelto me. Ci vieni?”
“Non vorrai
portarmi a Roma.”
“No, parto
qualche giorno prima, con te, passiamo il fine settimana nella casa dei miei,
poi tu torni in treno, io tiro dritto per il convegno.”
Ma era saltata
fuori la storia di Rimini. Romano era stato conciliante: “Vediamo se riusciamo
a farci stare dentro le due cose.”
E lei si era
lanciata: “Vieni al mare con me, poi andiamo insieme dove vuoi.”
Fu il loro
primo compromesso d’amore: la domenica, dopo il pranzo, sarebbero partiti per
la villa. “Se poi ti va di stare con noi ci stai, altrimenti ti fai un giro per
Rimini.”
“Il mare in
aprile mi mette tristezza” aveva detto Romano.
“Dipende” aveva
detto Roberta. “Se trovi il sole.”
“E i tuoi amici
che dicono?”
“Ho venticinque
anni.”
“E io dove
dormo?”
“Se vuoi
risparmiare, in auto. E’ solo per una notte.”
“Se no?”
“Ti trovi una
camera.”
“Con te?”
“Noi siamo già
in tre.”
Roberta si
rigirava l’indice nei capelli, li arricciava in un bigodino, grattava alle
radici, guardava svogliata le pagine. Fra i motivi di distrazione quella
scelta. Andarci o no? E comunque avrebbe dovuto parlarne in famiglia.
***
“Ma se vi siete
appena conosciuti” disse la madre di Roberta. Nel dirlo capì che era stata una
frase inutile. Era maggiorenne da tempo. Viveva con loro, c’erano regole da
rispettare ma sarebbe servito a qualcosa ricordargliele? O sarebbe stato motivo
di una frattura più profonda?
Il padre di
Roberta se ne stava rincantucciato, con la testa reclinata sopra il minestrone
di verdura. Lasciava fare alle donne, a meno che sua moglie non l’avesse tirato
in causa, preso per il bavero e buttato nella mischia. Al che avrebbe parato il
colpo. Non che se ne fregasse. E ci soffriva. Ma era la persona meno indicata
per trovare soluzioni efficaci a problemi complessi. Non era mai stato un padre
autoritario, non l’aveva mai desiderato. Avrebbe voluto essere importante per
il bene delle sue ragazze, capace di aiutarle a trovare una via nel labirinto
dell’adolescenza, ma cominciava a convincersi di aver fallito.
“Mamma” e stava
per ricordarle la sua età e che Romano era un tipo a posto, ma Roberta dovette
lottare con una ventata di stizza improvvisa. Perché, una volta almeno, quella
donna non diventava sua complice? Non rischiava con lei? “Sono un paio di
giorni, in fin dei conti. Che palle!”
“Senti, fai
come credi.”
Già vinta la
partita? Roberta dovette ricredersi.
“E tu?” disse
la madre al padre. La domanda conteneva già tutto. Lui lo sapeva. Aspettò
d’aver mandato in gola la cucchiaiata di minestra, tempo che gli servì per
formulare con più consapevolezza il suo parere.
“Non lo si
potrebbe conoscere anche noi, questo Romano? Chi l’ha mai visto?” disse a sua
figlia.
“Se volete.”
“Perché no?”
disse la madre.
“Non vi
fidate?” disse Roberta.
“Non è questo”
disse il padre.
“E allora?”
Domanda di un
certo impegno; l’uomo prese tempo: “Allora mi farebbe piacere vedere che faccia
ha.”
“Tuo padre ha
ragione” rinforzò la madre.
“E’ che non c’è
il tempo” si scusò lei.
“Perché?”
chiese lui.
“Alla sera
lavora.”
“Anche il
sabato?”
“Sì.”
“Domenica
prossima, a pranzo” propose il padre.
“Provo a
chiederglielo” disse Roberta, ma qualcosa le stonava dentro.
E per una
coincidenza di pensiero, anche la madre ebbe l’impressione d’essere così
vecchia da ricordarle la sua, di madre. “Senti” concluse, “stai attenta.”
“Attenta a
che?”
“Il viaggio…”
“Non guido io.”
“E Romano?
Guida bene?”
“C’è da
fidarsi.”
“Hai già fatto
un viaggio lungo con lui?”
“No.”
“E allora?”
“Guida bene, ti
dico.”
Ora la
discussione era accademica. E al padre bastava quell’assenso. S’accodò come un
ciclista, facendosi tagliare l’aria da chi lo precedeva: “In fondo si tratta di
un paio di giorni, giusto?”
“Già” disse
Roberta. “Oltre a Rimini, un lunedì, martedì al massimo.”
Lui tornò a
gustare il minestrone, la madre aveva già cominciato a pregare, Roberta li
ringraziò senza parlare.
DIECI
Aveva fatto
tutto lui, Romano. “Stasera ci vediamo al parco, alle sette ci sei?”
“Ci sono. Ma
che c’è?”
“Niente,
niente, così” ma non era capace di mentire.
Roberta aveva
passato la giornata pensando a quel così che non era vero, e alla probabile
sorpresa che Romano le aveva preparato. Un’attesa che era stata capace di
distrarla nello studio e di regalarle una delicata e costante felicità.
Dal parco dell’Arena
vedeva casa sua. S’erano seduti su una panchina in ombra. I milanesi
sfruttavano quell’angolo di verde in centro per il passeggio, la corsa, per
starsene seduti a ripassare la giornata, a programmare gli impegni futuri e a
cercare un senso a quella vita che se ne andava. Ogni tanto buttava in faccia
agli altri la sua disperazione qualche accattone, sdraiato su una panchina,
seduto a terra, ciondolante senza una meta, con dentro il vortice delle sue
sconfitte, la rabbia di non essere nemmeno capace di farla finita per
sempre.
“Dovrei
mettermi a correre anch’io” disse Romano, vedendo passare un uomo della sua
età, decisamente più grasso di lui.
“Hai visto
quello? Ti sei spaventato? Non sei tanto malridotto.”
“Non vorrei
finire così” e si palpò le maniglie dell’amore.
“Comunque, male
non ti farebbe” disse lei. “Potrei farti compagnia.”
“Ma tu sei
magrissima” e le sfiorò la pancia.
“Magrissima non
direi.”
“Se andiamo
insieme mi viene voglia.”
“Basta liberare
le endorfine.”
“Non sono mai
riuscito a liberarle, evidentemente.”
“Ci hai
provato?”
“L’estate
scorsa mi sono preso bene, ho convinto anche Carlo.”
“E allora?”
“Troppo caldo.
Abbiamo rinviato all’autunno, così s’è messo a piovere, è arrivato l’inverno.”
“E siete andati
in letargo.”
“Più o meno.”
“La primavera è
la stagione migliore. Guarda quanta gente corre.”
In silenzio si
misero a contarli: una ragazza certamente anoressica, un’altra sui trent’anni,
senza seno e con il culo gonfio e flaccido, un palestrato simil Bronzi di
Riace, abbronzato e con gli occhialini da sole, una signora sui cinquanta,
sudatissima, intagliata di rughe scavate dalle troppe lampade, che correva con
gli auricolari e pareva vagasse fuori dal tempo, un vecchietto smilzo che un
po’ correva un po’ camminava, facendosi trainare da un grosso boxer che
rischiava di farlo inciampare.
“Hanno tutti
paura di crepare” disse Romano.
“Un po’ è la
moda.”
“Sarà” e si
toccò di nuovo i fianchi, considerando che non faceva ancora schifo: qualche
seduta di allenamento, in palestra e al parco, e si sarebbe asciugato come una
decina d’anni prima.
Il sole era
timido, l’aria troppo afosa per essere la fine di marzo, Roberta cominciava a
pensare che si fosse sbagliata: aveva solo voglia di stare con lei. Nessun
regalo.
Romano raccolse
da terra e si mise sulle ginocchia la solita borsa nera che nascondeva il
computer, un quaderno, biro, matite, il cellulare, una moleskine, l’agenda del
giornalista e le caramelle che lo aiutavano a mantenere la promessa di non
fumare più.
Roberta seguì
le sue mosse con la coda dell’occhio.
“Tieni” e le
allungò un pacchetto lungo una spanna.
“Per me?” e
cominciò a ipotizzare: un gioiello, comunque qualcosa di prezioso, oro, argento
no, era piuttosto squattrinato. Trucco? Rossetto, profumo, fondotinta. Magari.
“Cos’è?”
“Fai almeno la
fatica di aprirlo” disse Romano.
Allora scartò
il pacchetto con riguardo: era il suo primo regalo, avrebbe conservato il
nastrino dorato, la carta, tutto. Non ci volle molto a capire di che si
trattava, le bastò leggere le prime due lettere della parola Swatch.
“Grazie.”
“Non lo porti
mai, non è che ti fanno schifo.”
Più che schifo
le davano fastidio, ne aveva in camera quattro compreso uno Swatch, ma
preferiva lasciare il polso libero. “E’ figo, grazie” e lo baciò sull’orecchio
destro; il rumore del bacio schioccò nel buio canale. “Mi ha fatto piacere.”
“Ti amo.”
“Anch’io.”
UNDICI
Guardando il sole, per metà nascosto dal contorno ondulato dell’Appennino, Romano si chiedeva come facesse a non essere felice per quel tramonto, e per Roberta. La rabbia cresceva al pensiero di uno spreco. Il ritardo alla partenza da Rimini gli stava rubando piacere. Era arrabbiato con lei ma non avrebbe voluto esserlo, così altra rabbia si sommava alla prima, aumentando la profondità del disagio.
Finiva la domenica d’aprile e mancava ancora molta strada alla villa dei suoi nonni.
“Se n’è andato” disse a Roberta, invitandola a guardare il sole che annegava, lasciando spazio alla notte. Ma Roberta non aveva voglia di parlare. Guardò il rosso ad occidente, inquieta: non sarebbero state ore piacevoli. Romano se l’era presa troppo, aveva reagito come non si sarebbe aspettata, ma come sarebbe stato normale attendersi: stavano insieme da due settimane, non lo conosceva abbastanza da renderlo prevedibile. Guardò l’orologio: “A che ora arriviamo?”
“Non prima delle dieci, buio pesto. Sarà un’impresa trovare la casa.”
Se erano partiti con tre ore di ritardo la colpa era sua, e lo aveva ammesso subito. Ma a Romano non era bastato. ‘Partiamo subito dopo pranzo’ gli aveva promesso. Promessa non mantenuta perché i suoi amici non la lasciavano, i saluti e quel prete: “Devo parlargli. Mi serve” gli aveva garantito.
Romano, in attesa, s’era messo seduto su una panchina a masticare il suo disappunto, guardando l’Adriatico povero di gente in vacanza, un lungomare di coppie anziane con il cappotto e di giovani in tishort.
Aveva sentito dire da un gruppo di ventenni che avrebbero fatto il bagno, più a sud, al lido delle conchiglie. Li aveva seguiti da lontano, andavano veloci, avevano voglia di tuffarsi nel mare, di dimostrare alle ragazze la loro resistenza al freddo.
Si era seduto sulla base in cemento di un ombrellone di uno stabilimento balneare, una casupola triste e disadorna in quella bassa stagione marina. I ragazzi s’erano svestiti, correvano urlanti verso il mare, le ragazze ridevano, strillavano, si toccavano dentro come per dire ‘Il mio è più bravo, il mio è scemo del tutto, quelli sono fuori di testa.’ La sua attenzione si era spostata su una coppia, lui in costume, a pancia in giù sopra un asciugamano bianco, lei con i pantaloni corti e una camicetta a mezza manica. Appoggiava le ginocchia sopra l’asciugamano, le sue cosce combaciavano con il fianco sinistro del suo ragazzo. Aveva provato invidia per loro.
Era tornato a curiosare nel tratto di mare dove i ragazzi di prima s’erano tuffati. Ne era rimasto in acqua solo uno; gli altri, intirizziti, cercavano calore negli asciugamani e nelle braccia delle loro donne. La ragazza di chi ancora nuotava si era alzata, era andata sul bagnasciuga e implorava il suo ragazzo di non fare il deficiente, aveva già dimostrato quello che voleva far vedere, aveva vinto, stop. Uscito dall’acqua anche l’ultimo temerario, Romano si era messo a guardare il mare, partendo dall’orizzonte lontano e risalendo a cavallo di quelle onde senza pretese. Era un mare che non faceva paura ma richiamava ad una visione infinita. Aveva il culo dolorante, seduto sopra lo stretto quadrato di cemento, ma la scomodità non gli aveva impedito di pensare a Dio. Pensieri guizzanti e confusi, disturbati dall’ansia di partire, da un velato disappunto. Aveva pensato alla probabilità di un Dio inventore di mari e di come avesse lasciato perdere quel pensiero molti anni prima, seguendo l’onda delle sue amicizie laiche.
Gli amici di Roberta erano tornati nella grande sala della riunione, lei stava col prete e lui considerava che avrebbero avuto solo due notti, ma la prima rischiava di finire troppo tardi. Sarebbero arrivati stanchi, nervosi dopo un viaggio di molti chilometri.
***
“Dove ceniamo?” chiese Roberta.
“A casa non c’è niente.”
“Autogrill?”
“Per forza.”
Del dialogo finale col sacerdote lui non aveva chiesto spiegazioni, si era solo lamentato per la durata. Infastidito dal suo silenzio, quasi avesse ragione lei, ora pretese: “Perché ti serviva parlargli? Proprio oggi?”
Roberta non rispose.
L’auto passava dai centotrenta ai centocinquanta a seconda che l’autostrada salisse o scendesse, seguendo le gobbe dell’Appennino toscoemiliano.
“Almeno in galleria puoi andare più adagio?” chiese Roberta.
“Ma se non supero i centotrenta?”
“Però continui a sorpassare.”
“Se vuoi che arriviamo a mezzanotte.”
“Per me.”
“Per me no, guido io, sono stanco.”
“Anche di me?”
Il sole non c’era più, si era sciolto nel rosso sopra i monti. Sottili nuvole nere anticipavano il colore della notte.
“Non dire stronzate. Perché non mi rispondi?”
Roberta volle metterlo al corrente. Era importante che lo sapesse. “Abbiamo parlato anche delle mie paure.”
“Paure?”
“Paure, sì, tu come le chiami? Non hai paura della morte?” Roberta era seria da mettere soggezione. “Non sto scherzando. Io ci soffro.”
Romano stava guidando, avrebbe avuto bisogno di starsene seduto sul divano di casa, o sopra la sedia di un bar per poter calare in quella domanda, trovare risposte sincere. Erano questioni che preferiva non approfondire, che scansava sapendo di non avere risposte. E viveva bene lo stesso.
“E il tuo amico prete cosa dice?”
Roberta non rispose subito. “Mi interessi tu. Le tue paure.”
“E chi non ne ha?”
Capì, non era il momento: “Ne riparliamo.”
Lui cambiò registro: “E di me? Hai paura?”
“Quando guidi” e Roberta si appoggiò alla sua spalla.
“E questa cos’è?” disse Romano.
“Che c’è?”
“La spia dell’olio.”
“Quella lì rossa?”
“Sì.”
“Ma non l’avevi controllato?”
“Come no” ma era una bugia. Si sentì in colpa: “Speriamo di arrivare al prossimo autogrill.”
Attesero un paio di chilometri, la scritta ora diceva che dovevano tirare avanti ancora tre e fu una fortuna, perché di più il motore non avrebbe retto. Fecero tappa all’autogrill Monte Mario. Era ora di cena.
***
Romano aveva sotto il mento un piatto di lasagne al ragù, e di fronte lei. Aveva fame, quel cibo svaporava, mandando segnali gustosi.
Roberta si era fatta portare un piatto di spaghetti conditi con un filo di olio crudo e parmigiano reggiano. “Buon appetito” e lei fece il segno della croce.
Romano si guardò attorno, avrebbe preferito meno chiasso, un tavolo solo per loro; erano costretti a condividerlo con una coppia di stranieri, bevevano birra e mangiavano hamburger. Aveva notato che il più obeso dei due, biondiccio di capelli e con un grosso orecchino, aveva ruttato più volte. Riusciva a leggere l’ora da un grosso orologio sistemato sopra la cassa. Mancavano tre minuti alle nove.
“Non arriviamo prima delle undici” disse Romano.
“Un paio d’ore?”
“Sì, due ore abbondanti, dipende da quanto ci fermiamo.”
“A me bastano gli spaghetti.”
Romano se l’era immaginato diverso quel loro avvicinarsi alla vecchia abitazione dei nonni. Il pensiero di altre due ore di guida non lo rallegrava. Andava a momenti. Guardarla, pensarla con lui poteva generargli sentimenti differenti. Ansia, ma anche tenerezza.
“Caffè?” chiese Romano.
“Sì, ma se hai fretta...”
“No no, ormai.”
Avrebbero dovuto partire da Rimini nel primo pomeriggio, arrivare al paese prima delle diciannove “perché il negozietto” gli aveva detto la madre “sono sicuro che è sempre aperto, anche la domenica, ma chiude presto, se vuoi essere certo devi essere lì prima delle sette.” Avrebbero fatto la spesa insieme e preparato la cena. Con calma.
Roberta si pulì la bocca con un tovagliolo di carta bianco e rosso, con la scritta dell’autogrill. Lo guardò e rise. Lui trovò quel sorriso molto bello.
“Che hai?”
“Tieni” e gli allungò un tovagliolo pulito. “Pulisciti il naso.”
“Sugo?”
“Sugo.”
Ora le faceva tenerezza. Il malumore era tramontato. Si guardò intorno. Un paio di tavoli più in là sedevano quattro giovani, avrebbero potuto essere studenti al rientro in università, o ragazzi in vacanza. Probabilmente studenti, perché parlavano poco, mangiavano senza entusiasmo. Solo lei, la ragazza del gruppo, dava l’idea di essere felice. Ogni tanto accendeva il dialogo, che si smorzava subito. Ma ci riprovava. Era una gran bella ragazza, luminosa. Non ci fosse stata Roberta, fosse stato fra uomini, sarebbe uscito con una frase d’apprezzamento.
Roberta lo guardò: “Che c’è?”
“Niente.”
“Chi guardavi?” e si girò. “Quella?”
“Saranno studenti? Che dici?”
“Boh” ma un po’ ci rimase male per la sua distrazione. “Vado in bagno.”
“Ordino i caffè.”
La vide che cercava la strada della toilette. La sentì sua.
DODICI
“Com’è che
quella ragazza non chiama?” domandò la madre di Roberta.
“Chiamerà,
tranquilla” disse il padre di Roberta.
“Sempre tutto
tranquillo per te” disse lei. Era seduta sul divano, telecomando in mano,
passava da un canale all’altro senza attenzione, concentrata su quella
telefonata che non arrivava. Non conosceva Romano né la sua abilità nella
guida, non si fidava delle parole della figlia, non si fidava degli altri automobilisti.
Della vita vedeva il peggio, doveva gestirsi un sottofondo d’ansia che le
rovinava le giornate. E se non poteva far altro, per difendersi scaricava sul
marito la rabbia di una vita malata. “Ma che padre sei?”
“Che padre
sono….non lo so…forse non è nemmeno figlia mia” e la mise sul ridere.
“Mi prendi per
il culo?”
Lui non
rispose.
Lei spense il
televisione, che morì dentro l’eco di una musichetta fastidiosa. “Le tue figlie
fanno quello che vogliono...da sempre.”
“Senti…” e
lanciò il libro per terra, con una violenza esagerata. Tacque.
“Non dovevamo
farla andare e basta.”
“Ma se
l’abbiamo deciso insieme?”
“Per forza, tu
avresti avuto il coraggio di dirle di no?”
“Ma lo sai
quanti anni ha?”
“Finché è in
questa casa…” e alzò il volume della voce. Lo fissò con occhi cattivi. Uno
sguardo che gli bruciò come uno schiaffo. Perché aveva un solo senso: sei un
padre fallito. Una rovina che non voleva nemmeno prendere in considerazione.
“Dillo, dillo
pure, lo so cos’hai in testa” minacciò.
“Quanti no le
hai detto in vita tua?”
“E tu?” gli
urlò in pieno volto.
“Mi sono sempre
sentita sola, è questa la verità.” Pianse.
Altre volte si
impietosiva al suo pianto stizzoso, non ora, sconfitto da un furioso malessere.
E mentre si preparava all’attacco pensò che stava sbagliando, che le
motivazioni erano ridicole ma le parole partirono senza comando, velenose. “Ne
ho piene le palle delle tue figlie e della storia del padre fallito, crepate
tutti!” e si alzò come in preda al panico. No, andarsene sbattendo la porta
sarebbe stato troppo poco. “ E vuoi che te le dica tutte?”
Lei lo
osservava con terrore.
“Solo critiche,
cazzo…un complimento…ti sei mai chiesta da quanti anni non mi fai un
complimento? Qualcosa che ho fatto che ti va bene?”
“E questo che
c’entra?”
“Hai in mente
solo le tue figlie…non te ne posso fare una colpa…ma almeno non mi rompere i
coglioni!” e si abbassò per recuperare il libro che era andato a finire contro
un mobile basso. Era preoccupato che non si fosse rotta la rilegatura. “Non
telefona, non telefona…ma lasciala vivere, ha venticinque anni, fa il suo
dovere, se non telefona è perché gli stiamo troppo addosso.”
Lei lo fissò
come un fantasma. “Continua, continua a giustificare tutto….ora fai la
vittima…credevo di aver sposato un uomo. Avanti, se hai le palle chiamala e
dille che ha due genitori…o devo farlo io, come sempre?”
“Guarda, prego,
questo è il telefono” e fece la mossa di allungarli il cordless di casa.
“Sei un pezzo
di merda!”
“Ma va là….” e
se ne andò, ma prima della porta fu preso alla gola dal senso di colpa.
L’immagine d’essere stato davvero un padre debole gli fece tremare le gambe.
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