L’ultimo abbraccio
di carlozanzi
Siamo sposati, Gaia ed io, da un anno e dieci
giorni. Lei non aspetta nessun bambino. Io sono senz’altro ancora innamorato di
lei, ma se penso che sono solo trecentosettantacinque giorni di nozze potrei
aspettarmi una passione maggiore.
Qui, sul divano, al suo fianco, penso che non potrei
reggere tutta una vita con lei, se queste sono le premesse. Mi sarei aspettato
per i primi cinque anni almeno (dicono che la crisi sia dopo i sette, ma se ne
dicono di balle) per i primi cinque anni, dicevo, un correre lisci, in discesa,
dentro l’amore. Non è così. Allora forse è vero che si vive giorno per giorno,
si sale in paradiso e si scende all’inferno continuamente, non è una parabola
che s’arrampica e poi si appiattisce e poi precipita. Questo mi dà speranza,
forse fra trent’anni avrò ancora giornate di gioia amorosa.
Gaia ed io stiamo guardano il tiggi delle venti,
ceneremo più tardi, dopo il telegiornale, come si fa qui da noi, sotto la linea
del Po. Siamo di Foggia. Siamo una coppia che si è sposata per amore. Ma
stasera sono stato catturato da un’inquietudine avvolgente. La paura della
precarietà dell’esistere mi ha rapito come per un sequestro di persona. Sono
stato sequestrato dalla vita, che mi sta dicendo: “Finirà presto.”
La tele ci ha riservato il solito
piatto freddo di notizie rancide da morte imminente, ci sono abituato, ho
ventisette anni, le tragedie mi scivolano addosso, corrono verso altri corpi
più vecchi. Gaia ed io siamo invincibili nella nostra giovinezza. Non crediamo
ai giornalisti menagrami. Crediamo al nostro amore, anche se ci stiamo già
abituando: all’amore, appunto.
Ma stasera è diverso. Una notizia
mi è penetrata dentro, ci sono andato addosso come per un frontale. Mi è venuta
contro parlandomi di addii.
Così mi sono avvicinato a lei,
prima il contatto dei fianchi, poi il braccio intorno al collo (e lei si è
accostata e mi ha guardato con un sorriso stupendo) e un bacio sui capelli e
giù, sul collo, sulla spalla. Un combaciare con quella donna (per la quale mi
sono lanciato in una promessa eterna, una pazzia, se ci si pensa) anzitutto per
toccare la sua consistenza. Ma c’è di più, molto di più. Voglio tenermela
stretta, ho paura che se ne vada. Che me ne vada. L’abbraccio come fosse
l’ultimo abbraccio. E giuro a me stesso (mentre lei appare sorpresa per la
forza delle mie braccia) che da quella sera in avanti sarà sempre così: mai con
sufficienza, con distrazione, mai per abitudine, solo per necessità, perché non
mi sfiori l’idea che ho lasciato perdere occasioni, quando le occasioni
sfumeranno e quell’abbraccio si scioglierà.
“Stai bene?” mi dice Gaia.
“Sì, perché?”
“Mi fai quasi male.”
“Scusa” rispondo con reale
dispiacere per avere ecceduto nella morsa, per aver difettato di coraggio, per
essermi lasciato condizionare dalle disgrazie altrui, dalla precarietà del
mondo che abita fuori dal mio appartamento di pochi locali ma in zona
residenziale.
Gaia travisa: “Stiamo più comodi
nel letto.”
Le regalo un sorriso da ebete. La
proposta mi avvolge come una coperta tiepida. Se le rispondessi: “Si sta bene
qui, davanti alla tele, stasera no” sarei poco credibile. Potrebbe offendersi,
perderci in autostima, vendicarsi. E le donne lo sanno fare.
“Sì, nel letto” rispondo.
Ci alziamo. Lei prende il
telecomando, schiaccia, seguono musichetta e schermo buio.
Sembra disposta a farlo
volentieri.
“Dai, un attimo” e mi fermo e lei
si ferma.
Siamo di fronte, io più alto di
almeno venti centimetri, ventitré per l’esattezza.
Ci abbracciamo.
Comprimo la sua vita dentro di
lei, perché non scappi fuori. Comprimo lei dentro di me.
Nemmeno la morte, ora, possiede
gli attrezzi per scardinare questo nostro abbraccio.
questo racconto breve è tratto dalla raccolta 'Valzer par Varés' (Pietro Macchione editore - 2013)
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