Era d’agosto
di Carlo Zanzi
Era agosto. Agosto
millenovecentosessantanove. Non ricordo il giorno, ricordo il caldo. Avevo
tredici anni, un paio di mesi e mi aspettava la terza media alla ‘Augusto
Righi’ di via Como, con la professoressa Candela di musica, il Secchia di
ginnastica (anziché in tuta veniva in pantaloni di velluto e giubbino di renna)
e tanti altri prof. Avevo tredici anni e una grande noia addosso. Tipica mia,
malinconico per natura. Quel giorno non aveva voglia di oratorio, i miei amici
più trasgressivi erano in vacanza, e così le donne di quell’età, sospeso il
gioco della bottiglia sul terrazzino dei Giardini Pubblici, che dava su via
Verdi. Sospesi quei baci senza sapore, dati per obbligo, per penitenza, baci
senza amore. Baci per curiosità. Però una di quelle ragazzine mi piaceva,
davvero, la più giovane, la più cicciottella, quella con la minigonna più
corta, si chiamava Alessandra e quando la baciavo sentivo il piacere della
morbidezza di labbra infantili.
Troppo caldo, nessuna voglia di sport e nemmeno la
pesca, una delle rare passioni di quel mio tempo fiacco e svogliato. A pescare
ero andato il giorno prima, credo, in bici, come sempre, alla Schiranna, dove
da poco avevano varato il Gobbo, un motoscafo che faceva la spola tutti i
giorni, solcando le acque quiete di un lago stagnante e inquinato dalla
spazzatura del progresso. Avrei fatto a meno di gobbini, scardole e boccaloni.
Era agosto e in via Sacco
scivolarono le note di ‘Tutta mia la città’ dell’Equipe 84, una gran bella
canzone, che ha dato ritmo ai miei passi; arrivava non so da dove, un bar, una
radio, un juke-box, so che quella musica mi ha portato allegria e spinta
decisionale, così sono entrato ai Giardini Pubblici. Stavo bene, ora, in quel
sottile vittimismo da primo della classe, incompreso e superiore, solitario e
maestoso. Capace di vita autonoma, indipendente.
‘Ho bisogno di ombra’ ho pensato
e mi sono diretto verso una panchina in fondo a quell’aia nobile, fatta di
piccoli sassi che facevano cric croc sotto le mie suole, di aiuole curatissime,
erba bassa e verde nonostante l’arsura. Oltre la grande fontana ho trovato una
panchina in ombra e mi sono seduto. Il rumore dello spruzzo, un po’ di frescura
soffiata da un vento inesistente, frammenti di gocce scappati nell’aria,
pulviscolo umidiccio: stavo finalmente in pace, con le braccia allungate sullo
schienale, le gambe distese e molli, mezzo sdraiato nel pomeriggio varesino.
Poca gente in giro a quell’ora, soprattutto colombi e il panorama interrotto,
in fondo ai giardini, dal grande Palazzo degli Estensi.
Era un pomeriggio d’agosto del
’69 e ancora ricordo la successione dei pensieri: incredibile ma è così. A
tanti anni di distanza. A volte succede, certe frazioni di vita restano sulla
pelle come tatuaggi, indelebili. Ricordo i pensieri principali. Uno dei primi
faceva riferimento a quanto capitato pochi giorni prima, venti luglio, primo
uomo sulla luna. Ho pensato che mi ero emozionato troppo poco, dato il clamore
dell’evento. Ma ero un ragazzo razionale e tiepido, con un cuore imbrigliato da
legioni di paure. Poi ho pensato alla mostra del pollo, così chiamavamo noi
fratelli le Giornate Avicole, che la Camera di Commercio organizzava alle Ville
Ponti. Ho pensato che quel pulcino verde, comprato lassù, aveva avuto una vita
troppo breve, pochi giorni di grandi pigolii nella nostra casa e poi subito la
morte, una notte, dentro un grande silenzio. Quel pulcino mi ha commosso più
del primo uomo on the moon. E ho pensato che l’avevano inquinato e ammazzato,
spruzzandogli addosso il colore, la chimica. Ma il pensiero più forte, più
pregnante, più vivo è quello che ora cercherò di descrivere: per la prima volta
in vita, con nitidezza, ho ringraziato Dio per avermi fatto nascere a Varese.
L’avrei ringraziato molte altre volte in seguito, ma quella fu la prima. In
quel tempo del primo supermercato Standa, della consapevolezza che davvero
cominciavano a circolare troppe auto, in quell’età che vedeva Varese perdere
verde e guadagnare grigio, perdere orizzontalità e salire in verticale, palazzi
e quartieri e periferia di cemento, in un tempo che avrebbe potuto indurre ad
altri pensieri, io ringraziavo il Padre Eterno per avermi regalato una
cittadina così. Che a dirla tutto non è un pensiero da tredicenne. Uno a
quell’età ha in mente le ragazzine, lo sport, è triste perché deve studiare e
lo obbligano ad andare a catechismo, uno a quell’età va con pensieri di breve
durata, di minor progettualità, pensieri di orizzonti limitati. Io invece mi
permettevo di giudicare Varese, tutta una città. Che poi io venivo da Biumo
Inferiore, dove il viale Belforte sfocia nel centrocittà, non propriamente zona
residenziale. Eppure…perché quel grazie?
Me lo richiedo oggi, giovedì
quattro agosto duemilaundici, giornata splendida, sole cocente, come allora.
Oggi che sono tornato su quella panchina, oltre la fontana, lungo sedile che
devo condividere con un giovane nero. Avrei preferito stare solo, lo ammetto,
ma a conti fatti ora che l’ho osservato meglio, sto bene anche con lui al mio
fianco.
Sono molto diverso dal ragazzino
di allora, fuori e soprattutto dentro. Ma continuo a sentirmi un privilegiato,
par vèss da Varès, come direbbe Natale Gorini. Non chiedetemi il perché. Si,
potrei dire che a Varese c’è tutto, in piccolo non manca niente, montagne laghi
pianura comodità un po’ di lusso e niente drammi ed eccessi da metropoli, e
neppure i silenzi soffocanti dei luoghi isolati. Ma c’è dell’altro.
Oggi, come allora, allargo le
braccia sullo schienale, sfioro il mio compagno di panchina, distendo le gambe
molli, mi rilasso, respiro profondo e guardo davanti a me, verso il Poncione e
il Monarco, verso il tozzo campanile di San Giorgio. E sto bene, nell’abbraccio
caldo della mia città.
questo racconto fa parte della raccolta 'Valzer par Varès'
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