quindici
Il
campanile del Bernascone battè i dodici colpi del mezzogiorno. Le campane
stesero sulla città le note dell’Angelus.
Avevano
cambiato panchina. Ne avevano scelta una meno in ombra, più esposti alla vista
dei pochi varesini in giro a quell’ora.
Davanti a loro, seduti proprio al limitare nord del colle di
Villa Mirabello, s’apriva il cortile in ghiaia dei Giardini Estensi, con la
fontana, le aiuole di curatissimo prato all’inglese; più in lontananza il
Palazzo Comunale, il colle di Biumo con il San Giorgio e le Ville Ponti. A
chiudere l’orizzonte, le rocce del Monte Generoso.
“Ti amo…nessuno come te” continuava a ripetere lui.
Non erano vicini. Vedendoli, potevano sembrare amici, non
amanti.
“Nemmeno mi conosci” disse Beatrice, guardando il volo
pesante dei piccioni. “Non abbiamo fretta” e le parve, adesso, d’essere lei la
più affidabile.
“Posso aspettare, basta…” e le si avvicinò.
“Basta?”
“Basta che sei sincera.”
Beatrice guardava una coppia, mano nella mano, a metà del
cortile. Si sentiva il rumore dei loro passi, piedi che affondavano nella
ghiaia.
“Non me l’hai ancora detto.”
“Che cosa?”
“Se mi ami.”
“Con
te sto bene. Non so se è amore…l’amore….”
Silenzio, e la sua voglia di andare oltre: “L’amore?”
Si guardarono. Lei rise: “Ma che ne so cos’è.”
“L’amore non si sa, si gusta.”
A lei venne in mente ‘si lecca’.
“Si vive e basta.”
Ora i loro fianchi si toccavano. Lei guardava il getto della
fontana. Il sole propiziava piccoli arcobaleni fra gli spruzzi d’acqua. Lo
scopo era portarsela a letto? Se davvero era solo quello, almeno non l’aveva
lasciato intendere. Non s’erano neppure baciati. Poteva essere una garanzia?
“Mi hai ribaltato la vita…”
Beatrice si gustò quella lusinga. “Esageri.”
“Non mi lasci in pace. Mai.”
“E perché dovrei?” Ora Beatrice si divertiva. E anche lui.
Ridevano, scambiandosi battute da adolescenti. Finché lei non guardò
l’orologio: “Devo andare. E’ tardi.”
S’era presentato Marco, all’improvviso, con tutta la sua
fatica e le tante bugie che avrebbe dovuto intuire, al suo ritorno da un Giro
d’Italia.
“E’ presto…mi stai regalando la felicità…non sapevo che esistesse…” e la fissò negli
occhi. Senza cedere.
“Aspetta..” e Beatrice frugò nella borsetta. Ne venne fuori
un libricino quadrato, un piccolo catalogo della Thun. “Lo sapevo…lo
stesso colore…hai gli occhi così” e gli mostrò la copertina, verde acqua,
chiari, occhi trasparenti. Avrebbe voluto leggergli dentro, raccogliere la
certezza che fosse sincero. “Belli…bellissimi i tuoi occhi.”
“Non come i tuoi.” Pareva una risposta preparata.
“Guardiamoli….vediamo chi ride prima.”
Risero insieme, dopo pochi secondi.
L’avrebbe abbracciato, spogliato. Avrebbe fatto l’amore con
lui su quella panchina, soli nel cuore di Varese, sul balcone più in vista
della città.
Un pensiero tremendo, tremendamente coinvolgente. Pensò che
si stava perdendo. Pensò che era finito il momento di capire, che almeno una
volta nella vita si poteva rischiare tutto, per raggiungere un grado superiore
di piacere.
Se avesse aspettato anche solo qualche altro battito d’ali
di colombo, probabilmente gli avrebbe detto di no. Ma lui fu pronto a cogliere
il momento: “Passi da casa mia? Isa non c’è.”
Beatrice non disse nulla. Si alzò, gli raccolse la mano con
delicatezza, lo invitò a mettersi in piedi. Presero la scalinata in discesa, si
lasciarono bagnare dal vapor d’acqua della fontana, lui intinse la mano e le buttò
addosso uno schizzo. Lei sorrise.
***
L’ombra di Marco Marchi aveva le sembianze di Giuseppe
Togni. Era Beppe Togni, il bergamasco che se ne stava comodamente a cavallo
della sua scia; per lui era sufficiente tenerlo a ruota in salita e fare attenzione
in discesa, evitando cadute.
Marco soffriva quella zavorra da dietro, un cappio al collo;
per questo dopo ogni tornante dello Stelvio, dopo aver affrontato la curva sui
pedali e dopo il ritorno sul sellino rallentava il ritmo, per vedere se Togni
lo superava. Niente, e anche Casavola stava parcheggiato dietro la sua ruota.
Ma Casavola probabilmente era cotto, dopo aver retto più del prevedibile i
ritmi in salita, scanditi da lui e dal Togni.
‘Meglio’ pensò Marco, uno in meno, ma già lo sapeva che la lotta
sarebbe stata con il tracagnotto burino della Val Seriana.
A tre chilometri dalla Cima Coppi, Marco si voltò: erano una
decina. Come coltelli, le rampe dello Stelvio avevano tagliuzzato il gruppo,
unito sin dopo Trafoi. Guardando verso valle, seguendo i tornanti ne vedeva i
segmenti, due, tre, cinque, dieci corridori. Ancora alle prime curve ondeggiava
lenta e pigra la frazione più corposa, quella dei velocisti; a loro bastava raggiungere il traguardo della
sera, rimanendo nel tempo massimo. La loro storia, in quel Giro d’Italia,
l’avevano già scritta. A Marco mancava il finale.
Fra i dieci nel gruppetto di testa, anche i suoi gregari,
Luigi Zacchei e Gabriele Audisio. Avevano rallentato per problemi meccanici
alla bici e ora eccoli di nuovo con lui, davanti a lui: Zacchei, Audisio e
Marchi, il terzetto della Toshibas Bike che affrontava come un solo atleta gli
ultimi tre chilometri dello Stelvio.
La tempesta del giorno prima aveva lavato il cielo. Non una
nuvola e il vento, per fortuna, era rimasto a riempire il catino della Valle
Venosta. Il caldo era sopportabile, si respirava bene anche sopra i duemila.
I tifosi ce li aveva addosso. Sempre più vicini. Zacchei
fendeva gli scalmanati, Audisio dietro e quindi lui, che seguiva a fatica i
singhiozzi delle loro due schiene. Ricevette più di una spinta. Alle prime
reagì con bestemmie e manate; alle molte che seguirono non fece più caso ma
doveva fare attenzione che non lo buttassero a terra.
Tanto aveva deciso. La gamba girava, mio dio come girava,
quindi –concordi anche i due gregari, in giornata di grazia- il tentativo
sarebbe stato sul Mortirolo. Aspettare il Campo dei Fiori sarebbe stato troppo
rischioso
15-continua
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