La corsa
Inizio a correre. Piccoli passi di un corpo da
elefante, di un’anima che fa da zavorra e mi piega al centro della terra. Sopra
di me un inquieto cielo di maggio, con bianchi, grigi, rari azzurri e nero
all’orizzonte, verso la Martica. Le piante dei piedi sopportano a malapena la
mia pesantezza che spinge contro i sassi della via, le ginocchia cedono, il
fiato è da asmatico. Ma non torno in casa, dove il grigio è più grigio e l’aria
comprime il torace, gonfia lo stomaco in piccoli crampi.
Una lieve discesa, il piano, una
debole ascesa verso la curva. Piccoli passi, il busto si piega in avanti, cerco
il cielo di maggio. Resisto.
E lento si svela il mistero, si
compie il miracolo, la speranza che mi ha invogliato alla corsa.
Resisto cercando la vita
nell’aria e nel corpo che non si trattiene, che procede a balzi radenti. Il
passo è più elastico, il respiro più facile. Ma digrigna i denti il cielo ad
oriente, ruggisce quel nero sopra il Poncione.
Il tempo continua inesausto la
sua marcia trionfale, io cammino al suo passo, mi fermo, cambio direzione di
corsa, mi illudo così di risalire le ore, corro controtempo sperando di
ringiovanire. Mi fermo di nuovo, sorrido all’illusione, riprendo la direzione
della vita, altra strada non c’è, se non assecondare i minuti.
Le prime gocce, pesanti,
lacrimano a terra, s’alzano sbuffi di povere sopra il terreno assetato. Sarebbe
facile, ora, tornarsene a casa, il temporale è in agguato, la casa è vicina. Ma
rimango perché il corpo è leggero, la corsa è una danza festosa. Ci penseranno
le foglie a riparami, ma non cerco riparo. Ora desidero affrontare la pioggia
con quel poco coraggio necessario a gustare l’esistere. E corro, ora piove
davvero, aumento il passo, aumenta l’intensità dell’acqua del cielo, sui
capelli senza cappello, sopra le gambe nude.
Un lampo, subito un rombo a
completare la luce, la paura del fuoco nel bosco, di una scossa contro di me,
ma io corro senza timori, volo nell’acquazzone di maggio, i capelli che
grondano, le mani che sgocciolano, la pioggia che scorre e si infila nelle
scarpe da running. Sguazzo con l’acqua che ha formato piccole pozze sotto la
pianta dei piedi, come un bimbo calpesto pozzanghere e prati inzuppati. Non ho
freddo né sonno (quella mesta apatia di chi gironzola in casa) né fame né sete,
solo voglia di andare dentro la pioggia, di ultimare salite e discese, di
compiere il mio giro di sport, la mia danza fra alberi e fiori, mentre il cielo
infelice mi invidia, si vendica ma non sa che oggi nessuno mi batte.
Invincibile e fradicio, col
sorriso disegnato sopra che un viso che luccica, corro a ritmo di gara.
L’elefante è lontano, dorme nella savana, pesante, orecchie basse, ventre
gonfio.
S’allontanano i pochi visitatori
del parco, ombrelli colorati come gronde di tela, sottili rivoli, cascatelle e
fughe di persone che maledicono la poca serietà di maggio, la sua
inaffidabilità. Chi mi incrocia non mi capisce, ma io capisco me stesso. La
corsa ha svelato il senso nascosto dalla polvere dell’immobilità.
Ma ora basta. Qui ci vuole una
doccia, acqua calda, bagnoschiuma e accappatoio, bianca spugna che asciugherà
un uomo rinato.
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