martedì 14 maggio 2013

Il racconto del mercoledì





La corsa


Inizio a correre. Piccoli passi di un corpo da elefante, di un’anima che fa da zavorra e mi piega al centro della terra. Sopra di me un inquieto cielo di maggio, con bianchi, grigi, rari azzurri e nero all’orizzonte, verso la Martica. Le piante dei piedi sopportano a malapena la mia pesantezza che spinge contro i sassi della via, le ginocchia cedono, il fiato è da asmatico. Ma non torno in casa, dove il grigio è più grigio e l’aria comprime il torace, gonfia lo stomaco in piccoli crampi.
Una lieve discesa, il piano, una debole ascesa verso la curva. Piccoli passi, il busto si piega in avanti, cerco il cielo di maggio. Resisto.
E lento si svela il mistero, si compie il miracolo, la speranza che mi ha invogliato alla corsa.
Resisto cercando la vita nell’aria e nel corpo che non si trattiene, che procede a balzi radenti. Il passo è più elastico, il respiro più facile. Ma digrigna i denti il cielo ad oriente, ruggisce quel nero sopra il Poncione.
Il tempo continua inesausto la sua marcia trionfale, io cammino al suo passo, mi fermo, cambio direzione di corsa, mi illudo così di risalire le ore, corro controtempo sperando di ringiovanire. Mi fermo di nuovo, sorrido all’illusione, riprendo la direzione della vita, altra strada non c’è, se non assecondare i minuti.
Le prime gocce, pesanti, lacrimano a terra, s’alzano sbuffi di povere sopra il terreno assetato. Sarebbe facile, ora, tornarsene a casa, il temporale è in agguato, la casa è vicina. Ma rimango perché il corpo è leggero, la corsa è una danza festosa. Ci penseranno le foglie a riparami, ma non cerco riparo. Ora desidero affrontare la pioggia con quel poco coraggio necessario a gustare l’esistere. E corro, ora piove davvero, aumento il passo, aumenta l’intensità dell’acqua del cielo, sui capelli senza cappello, sopra le gambe nude.
Un lampo, subito un rombo a completare la luce, la paura del fuoco nel bosco, di una scossa contro di me, ma io corro senza timori, volo nell’acquazzone di maggio, i capelli che grondano, le mani che sgocciolano, la pioggia che scorre e si infila nelle scarpe da running. Sguazzo con l’acqua che ha formato piccole pozze sotto la pianta dei piedi, come un bimbo calpesto pozzanghere e prati inzuppati. Non ho freddo né sonno (quella mesta apatia di chi gironzola in casa) né fame né sete, solo voglia di andare dentro la pioggia, di ultimare salite e discese, di compiere il mio giro di sport, la mia danza fra alberi e fiori, mentre il cielo infelice mi invidia, si vendica ma non sa che oggi nessuno mi batte.
Invincibile e fradicio, col sorriso disegnato sopra che un viso che luccica, corro a ritmo di gara. L’elefante è lontano, dorme nella savana, pesante, orecchie basse, ventre gonfio.
S’allontanano i pochi visitatori del parco, ombrelli colorati come gronde di tela, sottili rivoli, cascatelle e fughe di persone che maledicono la poca serietà di maggio, la sua inaffidabilità. Chi mi incrocia non mi capisce, ma io capisco me stesso. La corsa ha svelato il senso nascosto dalla polvere dell’immobilità.
Ma ora basta. Qui ci vuole una doccia, acqua calda, bagnoschiuma e accappatoio, bianca spugna che asciugherà un uomo rinato.       

Nessun commento:

Posta un commento