Donna del sud
di Carlo Zanzi
Non potrò mai dimenticarmi di lei. Una donna del
sud, secca, intagliata di rughe che il trucco penosamente cercava di camuffare,
un naso forte, occhiali sproporzionati, vestiti che la invecchiavano. Era il
commissario esterno al mio esame di maturità, salita da noi per quattro lire,
messa sul treno da chissà quali passioni. E una la incontrò in quelle aule. Una
divenni io.
Che le fossi simpatico lo intuii agli scritti, al
tema di italiano, quando si avvicinò, appoggiò la mano sulla mia spalla
sinistra, sorrise e mi fece capire che era solo un tema, e che la maturità era
un’altra cosa. Sarebbe, forse, arrivata decenni dopo. Forse. Disse tutto ciò
con un sorriso speciale, modellato apposta per me, una carezza alla mia ansia
da esame.
All’orale davvero si spogliò per me, perse ogni
pudore, smarrì l’etichetta imposta dal ruolo. Non suscitò alcun imbarazzo
perché tutto era implicito, sottaciuto, compreso da noi due soltanto. Era un
abbraccio dei nostri occhi. Una relazione impossibile. Credo che per lui fossi
diventato, al tempo stesso, figlio e amante.
Non ero bello, probabilmente per lei ero
interessante, più intelligente di quanto i miei voti d’ammissione potessero
comprovare. Forse voleva andare a grattare sul fondo del barile, per far emergere
le incrostazioni depositate dalla timidezza. O forse la ragione contò poco in
quegli anni lontani, in quei giorni di maturità, in quel prologo d’estate che
mi avrebbe condotto al diploma e all’università. Le piacevano, immagino, la mia
testa sproporzionata, i capelli incolti e gli occhi piccoli, fari che
proiettavano una luce capace di abbagliarla. Sì, immagino avesse preso un
abbaglio per me e all’orale si diede da fare per dimostrare che aveva ragione
lei, che davvero meritavo quel voto, ero fra i migliori della classe perché
depositario non di cultura libraria; conservavo pochi concetti ma sensibilità
in esubero, un terreno fertile che sino a quel punto aveva ricevuto pochi semi
per incapacità del corpo docente di quel liceo, ma che si preparava a grandi
seminagioni e ad abbondanti raccolti futuri: perché lei, quella professoressa
ossuta e ricurva, che s’avvolgeva d’un profumo dolciastro, avrebbe intinto le
mani nelle mie zolle, depositando il suo amore per la vita. Fu così che dopo
Catullo, San Francesco, Leopardi e D’Annunzio pensò fosse arrivato il momento
di andare al di là del nozionismo, di saggiare il mio personale modo di leggere
le cose. Fu così (ero molto sudato, puzzavo per la tensione, speravo solo che
finisse nonostante lei mi avesse messo a mio agio), fu così –dicevo- che mi
chiese: “Ma cos’è, per lei, l’amore?”
Sprofondai nel panico. Me l’aspettavo che sarebbe
successo qualcosa, che non si sarebbe accontentata. Persi ogni lucidità e in
quello stato di nebbia le regalai un sorriso ebete e pensieroso. “L’amore?”
domandai passandomi la mano sul naso e sulla bocca riarsa dall’ansia. Lei non
rispose e attese, con due occhi che lentamente si piegavano nella delusione,
come una musica allegra storpiata dal disco che rallenta la sua corsa.
Mi voltai verso il pubblico per disperazione, forse
per nascondere una lacrima, non potevo chiedere suggerimenti per una domanda
che non avrebbe potuto averne.
Ma vidi lei, la mia ragazza di allora. Avrei dovuto
sposarla solo per quella presenza, le cose sono andate diversamente.
La vidi, mi voltai, risposi: “Cos’è per me l’amore?
Ecco la risposta” e indicai a braccio teso Laura.
La professoressa fu soddisfatta? La delusi? Mandò
giù un mezzo boccone di gelosia? Laura la apprezzò, confessandomi che si era
sentita imbarazzata. E lei? La donna del sud? Ricordo che mi strinse la mano
con un sorriso esagerato (e falso?), che mi rimproverò quando le dissi che
facoltà avevo in animo di scegliere e che mi premiò con un voto eccessivo. Fu
il suo bacio mai dato.
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