mercoledì 29 maggio 2013

Il racconto del mercoledì

                                                                                             foto carlozanzi




Donna del sud
di Carlo Zanzi


Non potrò mai dimenticarmi di lei. Una donna del sud, secca, intagliata di rughe che il trucco penosamente cercava di camuffare, un naso forte, occhiali sproporzionati, vestiti che la invecchiavano. Era il commissario esterno al mio esame di maturità, salita da noi per quattro lire, messa sul treno da chissà quali passioni. E una la incontrò in quelle aule. Una divenni io.
Che le fossi simpatico lo intuii agli scritti, al tema di italiano, quando si avvicinò, appoggiò la mano sulla mia spalla sinistra, sorrise e mi fece capire che era solo un tema, e che la maturità era un’altra cosa. Sarebbe, forse, arrivata decenni dopo. Forse. Disse tutto ciò con un sorriso speciale, modellato apposta per me, una carezza alla mia ansia da esame.
All’orale davvero si spogliò per me, perse ogni pudore, smarrì l’etichetta imposta dal ruolo. Non suscitò alcun imbarazzo perché tutto era implicito, sottaciuto, compreso da noi due soltanto. Era un abbraccio dei nostri occhi. Una relazione impossibile. Credo che per lui fossi diventato, al tempo stesso, figlio e amante.
Non ero bello, probabilmente per lei ero interessante, più intelligente di quanto i miei voti d’ammissione potessero comprovare. Forse voleva andare a grattare sul fondo del barile, per far emergere le incrostazioni depositate dalla timidezza. O forse la ragione contò poco in quegli anni lontani, in quei giorni di maturità, in quel prologo d’estate che mi avrebbe condotto al diploma e all’università. Le piacevano, immagino, la mia testa sproporzionata, i capelli incolti e gli occhi piccoli, fari che proiettavano una luce capace di abbagliarla. Sì, immagino avesse preso un abbaglio per me e all’orale si diede da fare per dimostrare che aveva ragione lei, che davvero meritavo quel voto, ero fra i migliori della classe perché depositario non di cultura libraria; conservavo pochi concetti ma sensibilità in esubero, un terreno fertile che sino a quel punto aveva ricevuto pochi semi per incapacità del corpo docente di quel liceo, ma che si preparava a grandi seminagioni e ad abbondanti raccolti futuri: perché lei, quella professoressa ossuta e ricurva, che s’avvolgeva d’un profumo dolciastro, avrebbe intinto le mani nelle mie zolle, depositando il suo amore per la vita. Fu così che dopo Catullo, San Francesco, Leopardi e D’Annunzio pensò fosse arrivato il momento di andare al di là del nozionismo, di saggiare il mio personale modo di leggere le cose. Fu così (ero molto sudato, puzzavo per la tensione, speravo solo che finisse nonostante lei mi avesse messo a mio agio), fu così –dicevo- che mi chiese: “Ma cos’è, per lei, l’amore?”
Sprofondai nel panico. Me l’aspettavo che sarebbe successo qualcosa, che non si sarebbe accontentata. Persi ogni lucidità e in quello stato di nebbia le regalai un sorriso ebete e pensieroso. “L’amore?” domandai passandomi la mano sul naso e sulla bocca riarsa dall’ansia. Lei non rispose e attese, con due occhi che lentamente si piegavano nella delusione, come una musica allegra storpiata dal disco che rallenta la sua corsa.
Mi voltai verso il pubblico per disperazione, forse per nascondere una lacrima, non potevo chiedere suggerimenti per una domanda che non avrebbe potuto averne.
Ma vidi lei, la mia ragazza di allora. Avrei dovuto sposarla solo per quella presenza, le cose sono andate diversamente.
La vidi, mi voltai, risposi: “Cos’è per me l’amore? Ecco la risposta” e indicai a braccio teso Laura.
La professoressa fu soddisfatta? La delusi? Mandò giù un mezzo boccone di gelosia? Laura la apprezzò, confessandomi che si era sentita imbarazzata. E lei? La donna del sud? Ricordo che mi strinse la mano con un sorriso esagerato (e falso?), che mi rimproverò quando le dissi che facoltà avevo in animo di scegliere e che mi premiò con un voto eccessivo. Fu il suo bacio mai dato.     

  

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