martedì 21 maggio 2013

Il racconto del mercoledì





Mani giunte


Vinto da un indefinibile vuoto, ho appoggiato i gomiti al tavolo e ho infilato le dita nelle dita, un triangolo, una montagna di braccia e di mani e in vetta ho lasciato cadere il mio naso, ho appoggiato la bocca.
A denti stretti ho cominciato a pregare. Ad occhi chiusi. Parole senza senso, se non quello di aggrapparmi a un appiglio fuori di me.
Mi sono distratto subito, pensando al perché di due mani congiunte. Ho allontanato la distrazione, anche se in quell’attimo, in quel pensiero lontano da Dio ho sentito alleggerirsi il mio peso. Scappavo dalla domanda per incontrare il Padre ma ricadevo, come chi corre su un terreno sconnesso, sgambetti di rami e di buche. Perché quelle dita incrociate?
Scappo di nuovo, non mi interessa ragionare, voglio soffrire di meno, affidando ad un Altro l’incomprensione di me. Ma la fissa ritorna e stringo le dita fra loro, e penso che le leghiamo così perché non sappiamo che farcene, di queste due mani libere. Nell’ozio, nel passeggio, le mani penzolano  e cercano tasche. Abbracciate così stanno bene, come uno schiaccianoci a comprimere, a distruggere la noce di pena che mi ha indotto a smetterla col lavoro, che mi ha portato qui, seduto, solo, sperando di non essere solo.
“Mio Dio, aiutami” e ora distendo le dita, congiungo le palme, le labbra baciano i due indici appaiati, che sfiorano le narici e mi sento unito, le mani distese e sigillate m’illudono che si possa essere una sola persona, non mille anime in lotta e infiniti pensieri, sballottati dall’ansia. Una sola via da seguire, precisa. Un solo intento, una sola fede. Un unico Dio.
“Dio mio, potrai mai perdonarmi?” e torno bambino, in ginocchio alla balaustra, con le mani giunte scaldate da due guanti bianchi e sottili, tanti piccoli fratelli da Prima Comunione, in ginocchio, con il prete che ti volta le spalle, con un Dio così ricercato e temuto, così venerato e capace di buoni consigli.
“Dio mio, dove sei?” e una mano s’arrocca in un pugno, l’altra la avvolge, trattiene la rabbia, il bene e il male che m‘appartengono, le mani congiunte dicono di me, un povero Caino abbracciato ad Abele, che prega perché l’uno prevalga, che prega per dare un po’ d’ordine al caos.
“Grazie, mio Dio” e nasce da solo l’elogio, ma grazie di che? si domanda la mia anima nera, se soffro da almeno mezz’ora?
Stringo il pugno a sinistra e s’apre come un fiore che sboccia, torno a intersecare le dita, che scivolano come due corpi in amore e s’abbracciano.
M’abbandono sopra quel debole appoggio, il peso del mio limite scorre dalle mani alle braccia ai gomiti, che mi puntellano alla vita.
M’appoggio a Dio e da Lui prendo slancio, risalendo con foga dal buio del fondo.  

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