Mani giunte
Vinto da un indefinibile vuoto, ho appoggiato i
gomiti al tavolo e ho infilato le dita nelle dita, un triangolo, una montagna
di braccia e di mani e in vetta ho lasciato cadere il mio naso, ho appoggiato
la bocca.
A denti stretti ho cominciato a pregare. Ad occhi
chiusi. Parole senza senso, se non quello di aggrapparmi a un appiglio fuori di
me.
Mi sono distratto subito, pensando al perché di due
mani congiunte. Ho allontanato la distrazione, anche se in quell’attimo, in
quel pensiero lontano da Dio ho sentito alleggerirsi il mio peso. Scappavo
dalla domanda per incontrare il Padre ma ricadevo, come chi corre su un terreno
sconnesso, sgambetti di rami e di buche. Perché quelle dita incrociate?
Scappo di nuovo, non mi interessa ragionare, voglio
soffrire di meno, affidando ad un Altro l’incomprensione di me. Ma la fissa
ritorna e stringo le dita fra loro, e penso che le leghiamo così perché non
sappiamo che farcene, di queste due mani libere. Nell’ozio, nel passeggio, le
mani penzolano e cercano tasche.
Abbracciate così stanno bene, come uno schiaccianoci a comprimere, a
distruggere la noce di pena che mi ha indotto a smetterla col lavoro, che mi ha
portato qui, seduto, solo, sperando di non essere solo.
“Mio Dio, aiutami” e ora distendo
le dita, congiungo le palme, le labbra baciano i due indici appaiati, che
sfiorano le narici e mi sento unito, le mani distese e sigillate m’illudono che
si possa essere una sola persona, non mille anime in lotta e infiniti pensieri,
sballottati dall’ansia. Una sola via da seguire, precisa. Un solo intento, una
sola fede. Un unico Dio.
“Dio mio, potrai mai perdonarmi?”
e torno bambino, in ginocchio alla balaustra, con le mani giunte scaldate da
due guanti bianchi e sottili, tanti piccoli fratelli da Prima Comunione, in
ginocchio, con il prete che ti volta le spalle, con un Dio così ricercato e
temuto, così venerato e capace di buoni consigli.
“Dio mio, dove sei?” e una mano
s’arrocca in un pugno, l’altra la avvolge, trattiene la rabbia, il bene e il
male che m‘appartengono, le mani congiunte dicono di me, un povero Caino
abbracciato ad Abele, che prega perché l’uno prevalga, che prega per dare un
po’ d’ordine al caos.
“Grazie, mio Dio” e nasce da solo
l’elogio, ma grazie di che? si domanda la mia anima nera, se soffro da almeno
mezz’ora?
Stringo il pugno a sinistra e
s’apre come un fiore che sboccia, torno a intersecare le dita, che scivolano
come due corpi in amore e s’abbracciano.
M’abbandono sopra quel debole
appoggio, il peso del mio limite scorre dalle mani alle braccia ai gomiti, che
mi puntellano alla vita.
M’appoggio a Dio e da Lui prendo
slancio, risalendo con foga dal buio del fondo.
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