L’uomo
della pietra
Con
gesto sacrilego, un uomo si giudicò senza peccato e raccolse una pietra da
terra. Ne valutò il peso, la grandezza, la ributtò nella polvere e ne cercò un’altra,
più adatta, meno leggera, più spigolosa. Era nervoso, non aveva dormito bene,
voleva far pagare a qualcuno la sua delusione: quel giovane poteva andar bene.
Si era unito al gruppo, spinto alla temerarietà dalla piccola massa che, a
cerchio, osservava Stefano, accusandolo di possedere una fede nuova.
Il
giovane, bello, dai lunghi capelli, si era alzato dal letto felice di essere
idealista. Ma già alle prime minacce aveva pensato: ‘Perché mai dovrei
rischiare la vita?’ La sua fedeltà al figlio divino di Maria e di Giuseppe era
meno salda del legaccio dei suoi sandali. In principio aveva resistito alle
prime domande (‘Davvero ci credi? Credi a quell’uomo di stracci? Finito
inchiodato alla croce?), con tanti sì sì ci credo, è Lui il Messia, ma alle
prime minacce di morte un’ansia di vita, che si chiama paura, gli aveva annebbiato
la convinzione.
E
la folla cresceva, il terrore lo invadeva e davvero era sul punto di gridare: “Fermatevi,
avete ragione, ho troppa paura, non sono capace di morire per Lui” ma inciampò,
nell’attimo esatto di quel gesto sacrilego, la pretese di un uomo che scaglia
una pietra, giudicandosi senza peccato, abilitato a condannare.
Quella
prima pietra, lanciata nell’aria da una mano pavida e molle, non avrebbe colpito
il ragazzo, perché quell’imbecille nemmeno possedeva una buona mira. Lo avrebbe
sfiorato e chissà, completando la sua traiettoria, sarebbe finita sui piedi di
un altro piccolo uomo, pronto con una pietra in mano. Ma Stefano, col cuore al
galoppo, inciampò e allungò le braccia verso la polvere, per attutire la caduta
sui sassi dell’Asia Minore. Inclinato in avanti, fu lui a cercare la pietra, ad
andargli incontro. Il sasso trovò nel suo volo la tempia destra di Stefano.
Perché non la spalla? Il fianco? Un ginocchio? Perché proprio la tempia, così
delicata, così mortale? Stefano non sarebbe morto all’istante, solo ferito, si
sarebbe rialzato, avrebbe chiesto scusa a quei mentecatti, avrebbe tradito il
suo Dio ma conservato la vita, così preziosa, così degna d’essere amata. Perché
proprio su quel lato debole dell’uomo?
Certe
domande bisognerebbe rivolgerle a Dio, pur sapendo che non risponderà. Ma
Stefano ebbe solo il tempo di morire da martire.
Vedendolo
disteso e muto, immobile e convinto, i non cristiani che lo accerchiavano si
sentirono in diritto (qualcuno persino in dovere) di lanciare altre pietre. Ma
Stefano, bello e infelice, era già morto.
Questi
i fatti del protomartirio.
Dirò
solo, come epilogo, che quella prima pietra mortale fu lanciata da un uomo così
miserabile da aver accumulato, nei suoi cinquant’anni, non saggezza ma rabbia,
non comprensione ma invidia. Ma c’è un riscatto per tutti e Dio certo avrà
visto la scena (forse l’avrà favorita), avrà notato che l’uomo della pietra si
scollò subito dalla massa, non restò a contemplare in un delirio fanatico le conseguenze
di quel lancio; tornò a casa di corsa, abbracciò la moglie, pianse e disse più
volte: “Mi devi perdonare, mi devi perdonare, almeno tu che mi ami.”
dedico questo racconto breve a San Vittore martire, patrono di Varese, nel giorno della sua Festa
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