domenica 5 aprile 2015

Ciao Oliviero




Stamani alle 3, aurora di Pasqua, è morto il mio amico Oliviero, dopo una malattia che in pochi mesi si è rivelata incurabile. Aveva uno, massimo due anni più di me. Non lo incontravo da tempo, non sapevo fosse malato, da ragazzi ci si vedeva spesso, lui aveva un motorino (non ricordo, forse un Bultaco, so che era a quattro tempi) che ho molto invidiato e sul quale è nato il racconto che propongo qui sotto. Nel racconto parlo di Morini, ma in verità il Morini Corsarino azzurro quattro tempi era di Roby (altro motorino che ho sognato a lungo, alla fine degli anni Sessanta). Non trovo niente di meglio che ricordare Oliviero con questa storia, solo parzialmente inventata. 
Ciao, Oliviero. 



Un amore
di carlozanzi

L’ho visto arrivare con il suo Morini quattro tempi a benzina, bianco e rosso. Sapevo che era lui già da lontano: urlavano il suo nome i quattro cilindri nascosti dentro la testata d’argento di quella sua moto superba. Gliela invidiavo dal vetro del fanale anteriore al catarinfrangente sul parafango posteriore, invidiavo i suoi capelli tirati su dal vento e il suo possedere la velocità. Franco era il più ricco fra noi, la sua moto lo testimoniava. Avevamo l’età del cinquantino, non di più, ma i quattro tempi regalavano a quel Morini la dignità di una moto da adulti.
Franco è arrivata nel nostro cortile, senza casco, con aria distratta, superiore, come di chi non sa che se gli eravamo tutti attorno era per il suo mezzo di trasporto. A noi restavano bici senza cambi e tante moto cavalcate di notte, sdraiati nel letto, dentro un sonno da figli del dopoguerra.
Noi intorno alla moto di Franco, e Franco a sorridere, portando la buona novella: “C’è una partita di calcio alla chiesa…ci aspettano.” 
Il campo della chiesetta. Di campi da pallone ne avevamo almeno cinque: il cortile di casa mia, l’oratorio, il castello, il pratone e quello della chiesa di San Celso, che non era il più bello ma sempre meglio di un sagrato di casa popolare, con sassi e terra.
Mi stavo dirigendo in cantina per recuperare la bicicletta quando la voce di Franco, roca come avesse imparato l’intonazione del Morini, mi ha preso per il bavero: “Salta su” mi ha detto “Vieni con me.”
Era la prima volta su quel sellino.
“Grazie” gli ho risposto e mi sono accomodato.
Volavamo Franco ed io verso il campo della chiesa, lui sicuro nella guida, con  accelerate da spavaldo, io intimorito ed estasiato, dentro un pomeriggio d’estate che mi aveva fatto sudare e che adesso, nel fresco del viaggio in moto, trasformava il sudore in piacevole frescura intorno al corpo.
“Ti sta aspettando una ragazza…vuole vederti” ha detto Franco ad un certo momento, quando mancavano ancora cinque minuti di viaggio. Dentro quell’aria in movimento e il ruttare del motore Morini, quella notizia mi ha fatto impazzire il cuore. Volavamo verso il paradiso io e Franco, un eden popolato ora non dalla disfida calcistica, ma dall’immagine di una ragazzina (che Franco aveva definito carina) che mi stava attendendo vicino alla chiesa. Una donna interessata a me, che mi voleva vedere, che mi avrebbe parlato perché –non potevo dubitarlo- certamente le piacevo, mi aveva incontrato chissà dove, o aveva saputo di me da qualche altra ragazza.
In quei pochi minuti ho ripassato ogni volto probabile e assaporato le più invitanti emozioni. Me la immaginavo bella, bionda, occhi chiari, perché uno non può prevedere di essere accolto da una ragazza brutta, cioè non degna di una simile attesa. Il cuore cantava, mi mancava il fiato, appoggiavo la guancia sulla schiena di Franco, lo cingevo alla vita grassoccia e sognavo quel sogno finalmente reale. Un sogno meno illuso e più vero.
Il solo fatto d’aver suscitato un interesse femminile mi inebriava. Mi sentivo sicuro e interessante, avrei affrontato l’incontro con inevitabile emozione ma sarei stato in grado di reggere il confronto, di offrirle il mio meglio.
“Ma tu la conosci?” ho urlato a Franco, senza ottenere risposta.
Silenzio, mi frullavano immagini condite da gioie mai assaporate, un languore amoroso che mi struggeva. Il pallone non aveva più senso, meglio, la partita sarebbe stata momento di gloria per sorprenderla col mio gioco, affascinarla perché era risaputo che ero fra i primi (se non il primo) ad essere scelto, quando si faceva bimbumbam e ci si spartiva per squadre.
Così siamo arrivati al campo della chiesa: poca erba e molta polvere, un sole allo zenith che abbagliava, radi alberi che proiettavano ombre striminzite.
Franco si è diretto verso un tiglio: “La posteggio qui sotto” mi ha detto. “Salta giù.”
Sono sceso di sella, accompagnato dagli ultimi rutti del motore. Ma prima avevo già perlustrato la zona, da tempo indagavo sulle presenze in quel luogo. A bordocampo nessuno, mentre sul terreno di gioco era già in corso una partita. La palla volava e strisciava, rimbalzava e saltellava senza un lamento, nonostante tutti quei pedatoni.
Non s’era mai vista una ragazza, e più ancora una bella ragazza, giocare a pallone coi maschi. Ma se non era là in mezzo, nella terra e nel sole, dov’era?
Allora ero ingenuo ma lo sono anche adesso, a voler raccontare una storia di poco interesse. E allora ho sofferto quando ho notato che lì, vicino alla chiesa, si contavano solo ragazzi, sudati e sporchi, agitati e col solo interesse di fare un gran gol, quando Dio aveva creato la donna per regalare paradisi terrestri.
E’ arrivato Franco, non alto ma grasso, non bello ma ricco, ancora innocente a quel punto.
“La ragazza?” gli ho chiesto.
“La ragazza….ah, già, la ragazza…” e si è messo a ridere.
Franco non era mio amico. Forse lo sarebbe diventato. Ci stavo pensando quando, insieme, cavalcavamo sopra la groppa del Morini. Non so perché ha inventato quello scherzo, perché ci ha messo di mezzo l’amore, il soffrire d’amore. Eppure aveva un anno più di me e sbaciucchiava le ragazze più belle. Doveva sapere. Immaginare. Prevedere la mia tristezza insanabile. O forse i soldi rendono lecito far piangere un compagno di giochi, dopo averlo trastullato nell’illusione più atroce.
Ho dato un solo pugno sinora. A Franco. Quel giorno. Sul naso. E se sangue c’è stato, non mi ha mai fatto pena. 
  



          

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